Creato da tommaso.mt il 26/07/2010
DI TUTTO UN PO'
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Post n°16 pubblicato il 20 Ottobre 2010 da tommaso.mt
Mentre l’Italia intera si appresta a tagliare il traguardo del 150mo dall’Unità (17 marzo 2011), la data del 21 ottobre 1860 è, per Galatina, storica, in quanto qui, come in altre città, si tenne il referendum per decidere l’annessione al Piemonte, riconoscendo Vittorio Emanuele II come Primo Re d’Italia. Nonostante le polemiche sorte verso un’unificazione poco desiderata dalle masse popolari, in cui a beneficiarne è stato soprattutto lo Stato sabaudo, occorre ricordare questa data, quanto meno perché oramai fa parte della storia locale o microstoria, come si voglia chiamare. Su quello che successe dopo questa data, è in atto un processo di ricostruzione storica che abbraccia anche il fenomeno del “brigantaggio”, ma il tutto è racchiuso in quell’espressione che prese piede sul finire dell’Ottocento e che è la questione meridionale. Fu con l’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli e la conseguente fuga del re Francesco II, che si arrivò al 21 ottobre 1860, grazie anche all’intervento del decurione Nicola Bardoscia per costringere il sindaco, Antonio Dolce, ad indire il referendum per l’annessione al Regno sabaudo. L’amministrazione galatinese aveva faticosamente soffocato le manifestazioni d’entusiasmo dovute alla notizia dell’ingresso di Garibaldi a Napoli, mentre le forze liberali, rappresentate dallo stesso Bardoscia, da innocenzo Calofilippi e da Nicola Vallone, non riuscivano a vincere la morsa reazionaria del patriziato filo-borbonico, radunato attorno ai Padri Scolopi, molto influenti e seguaci del vecchio governo. Per sconfiggere l’inerzia e l’indifferenza dei galatinesi, determinante rimane l’intervento del medico Nicola Vallone, per richiamare gli elettori alle urne, mentre bivaccavano in piazza San Pietro. Le elezioni si svolsero presso il Corpo di Guardia dei Vigili Urbani, situato alla Torre dell’Orologio, fatta costruire all’indomani della proclamazione del nuovo Regno d’Italia. Il voto si esprimeva con l’uso dei legumi, dato l’alto tasso di analfabetizzazione: le fave erano per i sì, mentre i fagioli per il no. Il responso di Galatina fu di 1257 sì, più 1253 voti favorevoli espressi dai forestieri che si trovavano in quel giorno per il mercato. L’ultimo sindaco sotto la dominazione borbonica e il primo dell’Italia Unita, ma di nomina regia, fu Antonio Dolce. Il processo di unificazione italiana si completerà nel 1870, con l’apertura della “breccia di Porta Pia” (20 settembre), dove, tra i primi ad entrarvi, insieme a La Marmora, fu il giornalista galatinese e fondatore de “Il Messaggiero” (con la “i”, cfr. Verter R., Fedele Albanese, da “il filo di aracne”, nr. 1/2010, periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena”) e “Il Monitore”, Fedele Albanese. Tommaso Manzillo |
Post n°15 pubblicato il 13 Ottobre 2010 da tommaso.mt
di CARLO BOLLINO |
Post n°14 pubblicato il 12 Ottobre 2010 da tommaso.mt
La chiesa di Santo Stefano in Soleto è uno dei tanti e, forse, troppi esempi dell’incuria dell’uomo e, in particolare, di tutti quelli che, negli ultimi tempi, si stanno sprecando per divulgare il “Grande Salento”, ma, a volte, perdendo di vista quelle che sono le vere priorità di questa terra. Allora, dovremmo meglio occuparci dei nostri tesori, di quel patrimonio artistico, storico e culturale, come la chiesa di Santo Stefano in Soleto, ma non è la sola, vero gioiello dell’arte romanico-gotica, incastonato nel centro storico di una cittadina di appena seimila anime, nel mezzo dei suoi vicoli e strettoie. Così come di questa opera d’arte si è occupato Luigi Manni, con la cura epigrafica di Francesco G. Giannachi, nel volume “La chiesa di Santo Stefano di Soleto”, edizione Mario Congedo, Galatina, 2010, pagine 168, € 18,00, presentato il 7 ottobre presso la chiesa matrice, “Maria SS.ma Assunta”, in Soleto, alla presenza del sindaco, dott. Elio Serra, del prof. Giancarlo Vallone, ordinario presso l’Università del Salento e del direttore dello stabilimento Colacem di Galatina, dott. Vincenti, stessa azienda che ha patrocinato il lavoro di Manni, insieme all’amministrazione comunale soletana e alla provincia di Lecce. L’autore, nel primo capitolo (anche se il testo non è classificato in tal modo), “L’arciprete Giorgio, il conte Raimondello e l’arcivescovo Gugliemo”, si impegna in una ricostruzione storica della chiesa e, di conseguenza, dell’era orsiniana. Il principe di Taranto, Raimondello Orsini Del Balzo, succeduto al padre nel 1399, come figlio cadetto (forse perché il fratello Roberto era già morto, ma, secondo altri storici, pare abbia conquistato la contea con la forza, ipotesi respinta dal Manni), erige la chiesa di Santo Stefano, dopo quella di Santa Caterina d’Alessandria in Galatina (1391), feudo ricadente nella suddetta contea insieme al capoluogo Soleto, con Zollino e Sternatia, dimostrando in tal modo il suo potere e prestigio. Il Manni colloca in questo periodo la costruzione della chiesa di Santo Stefano, riportando in avanti quella data del 1347, originariamente fissata come anno di fondazione dal prof. Diehl, così come Cosimo De Giorgi scrisse a Pietro Cavoti nel dicembre del 1883 (Galante L., Pietro Cavoti, i tesori ritrovati. Viaggio pittorico nella Soleto dell’Ottocento, prefazione Giancarlo Vallone, EdiPan, Galatina 2007, pag. 202). In quella lettera, lo storico leccese scrive al nostro concittadino, in occasione della visita del prof. Diehl nel Salento: “La data di fondazione della chiesetta che riuscì a leggere alla disparata, rimane quella che ci disse a voce lo scorso giovedì, è il 1347, è costruita sulle vecchie rovine della chiesa di S. Sophia”. Però, in quell’anno il principe Raimondello non era ancora nato. Sono gli anni della grande crisi per la Chiesa, a causa dello Scisma d’Occidente (1378 – 1417), in cui “il primato di Soleto nella lingua, nella cultura e nella liturgia greca, riaffermatosi nella seconda metà del Trecento, non venne minimamente scalfito da Raimondello”, tanto che lo stesso arcivescovo scismatico Guglielmo dimorò probabilmente in Soleto, lasciando un affresco dello stemma arcivescovile nella torre campanaria della chiesa madre. Tutto questo, forse, mentre il principe di Taranto aveva già preso possesso di Galatina, elevandola a “centro propulsore dei suoi interessi, la vera capitale del Salento meridionale”, nella cui chiesa da lui fondata si celebrava il rito latino, tanto che lo stesso arcivescovo decise di non intervenire, nonostante fosse compresa nella sua diocesi. Una volta succeduto al padre Niccolò, lo stesso principe, oltre la chiesa di Santo Stefano, impreziosì il capoluogo della contea con la stupenda guglia che svetta su tutto il panorama circostante, la chiesa di Santa Lucia e forse quella di San Leonardo e Santa Caterina. Fu in questo periodo che Raimondello allontanò da Otranto l’ultimo arcivescovo scismatico, Riccardo, e insediò Filippo, primo arcivescovo di obbedienza romana. Il primo rettore della chiesa di Santo Stefano fu l’arciprete Giorgio de Tullie, che si occupò di tramandare la cultura greca e il culto bizantino con una vasta disponibilità di testi liturgici. In questa ricostruzione fatta dal Manni, però, non si nega a Raimondello il ruolo di garante dell’ufficialità del latino, che fu assicurata nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria in Galatina, forse perché qui, più di tutti gli altri centri salentini, con la presenza delle fiere e l’afflusso di diverse lingue e culture, trovò terreno più fertile la diffusione del latino. Fatto, eventualmente, assente in Soleto, certamente ancorato alle sue tradizioni culturali e linguistiche di origine greche-bizantine. Dopo la morte del figlio di Raimondello, Giovanni Antonio, le famiglie Rizzo e Sergio, adducendo come elemento probatorio un rogito testamentario inesistente, in qualità di eredi di De Tullie, millantarono il possesso della chiesetta, utilizzandola anche come luogo di sepoltura. Di conseguenza, cancellarono ogni traccia risalente al fondatore del tempio sacro, immortalato sul cartiglio situato sopra la porticina, ormai murata, sulla parete settentrionale, incastonando tutta la costruzione tra i loro palazzi signorili eretti ai suoi lati. Negli altri capitoli, “L’architettura e la scultura”, “Gli affreschi”, “Oltre le immagini”, l’autore si occupa degli aspetti architettonici e religiosi degli affreschi, presentando i quattro cicli pittorici. Luigi Manni parla di quattro momenti pittorici per la chiesa di Santo Stefano, ossia quello del 1399, anno di fondazione, quello intorno al 1420, il terzo intorno al 1430 e l’ultimo intorno al 1440 (ricordiamo che la regina di Napoli, Maria d’Enghien, vedova di Raimondello, prima di morire nel 1446, aveva già commissionato e visti terminati gli affreschi galatinesi di Santa Caterina d’Alessandria). Appartengono al primo momento: la Pentecoste, San Giovanni Battista, la Natività, San Simone, tutti affrescati partendo dal basso, contrariamente allo stile usato, per esempio in Santa Caterina, dove gli affreschi partono dall’altro, per evitare le scolature degli impasti e del colore. Al secondo momento, appartengono, tra gli altri: il Cristo Sapienza, una Madonna col Bambino, Santo Stefano rappresentato con le pietre simbolo del martirio, Sant’Antonio Abate, San Nicola, San Gioacchino e Sant’Anna con Maria bambina, Santa Tecla, Santa Maria Maddalena, Santa Caterina d’Alessandria. Cadono nel terzo periodo e rappresentati sui registri superiori i quattro cicli pittorici: il Ciclo Cristologico, sulla parete settentrionale, il Ciclo dell’Ascensione e la Visione dei profeti, su quella orientale, il Ciclo della Vita e Martirio di Santo Stefano, su quella meridionale e, infine, il Ciclo del Giudizio Universale sulla parete occidentale, giusto di fronte al fedele che si appresta a guadagnare l’uscita dalla chiesa, quasi a volergli ricordare la fine ultima dell’uomo, chiamato al giudizio finale. La particolarità di quest’ultimo sta nel fatto che negli sguanci del rosone romanico è raffigurato il Cristo benedicente, a mezzo busto, che mostra le piaghe della crocifissione e la ferita nel costato. Splendidamente Manni fa notare la straordinarietà della rappresentazione, maturata nella mente dell’ispiratore del ciclo, “nel tentativo, riuscito, di fissare nell’aureola luminosa del rosone il sorgere dell’apparizione luminosa della Seconda Venuta di Cristo”. Tali cicli, secondo l’autore, appartengono alla scuola neogiottesca, “che indugia su fisionomie intense e fortemente espressive”. All’ultimo momento (anni quaranta del Quattrocento) appartengono, tra gli altri, alcuni santi affrescati sopra e sotto gli stipiti della porticina meridionale, la seconda scena dell’Annunciazione a destra del catino absidale, San Sebastiano (devozione molto diffusa nel Salento) sulla parete orientale, San Giovanni Elemosiniere e Santo Stefano sulla parete settentrionale. Nella stupenda esplosione di colori e di figure che si assiste entrando nella piccola chiesa di Santo Stefano in Soleto, si prova veramente un senso di smarrimento davanti a siffatto capolavoro dell’arte e della pittura, circondati da santi e madonne, che suscitano nel visitatore un senso di nullità della propria condizione umana davanti a quei modelli di cristianità della Chiesa, gli esempi virtuosi da imitare. L’ambiente monoaulato (m. 6,62x3,89 e 3,96 nel muro abisadale; m. 5,10 in rialzato fino alle capriate), ospita queste raffigurazioni, le cui fonti sono i Vangeli canonici, ma anche quelli apocrifi, quali il Protovangelo di Giacomo, il Vangelo dell’infanzia armeno e il Vangelo dello Pseudo-Matteo. In particolare, proprio trattando del ciclo pittorico sulla parete meridionale, Manni afferma che “Gli affreschi di Soleto raccontano storie straordinarie, insolite e originali sulla passione di Stefano, un vero unicum nell’iconografia del santo e nella storia dell’arte italiana”, le cui fonti sono rappresentate da La Fabulosa Vita S. Stephani Protomartyris, manoscritto dell’XI secolo, e il codice greco Scorialense del XII secolo. Purtroppo la chiesa di Santo Stefano di Soleto si trova in un evidente stato di abbandono da parte di tutte le istituzioni, non solo quelle politiche, ma anche religiose e culturali. Vicino la piazza del Municipio si trova un’altra chiesa, quella di San Nicola, dove un tempo vi alloggiavano le suore claustrali, che grida veramente un serio intervento. Già il Cavoti, più di un secolo fa, occupandosi della chiesa di Soleto, aveva riprodotto con la sua arte ineguagliabile di disegnatore e acquerellista, tutti questi tesori (le chiese di Santo Stefano, Santa Lucia, San Leonardo, che Luigi Galante, nell’opera citata, classifica tra le chiese scomparse, pag. 135 e ss.), perché aveva intuito il pericolo derivante dall’elevato grado d’incuria dell’uomo del suo tempo, di cui noi oggi siamo eredi. Anche Janet Ross, scrittrice di origine inglese, che amava molto viaggiare per scoprire l’architettura e l’arte, arrivò in Puglia, la prima volta, nel 1884, e visitò, oltre la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria di Galatina, anche la chiesa di Santo Stefano in Soleto, per poi menzionarla nella sua The Land of Manfred del 1889: “Nel villaggio merita attenzione la piccola chiesa di Santo Stefano, che ha una porta notevole per la sua incorniciatura e per i due pilastri ai lati; sovra di uno poggia un leone e sovrà l’altro un’aquila” (Galante L., op. citata, pag. 35). Torniamo a occuparci dei nostri tesori, concentriamo le attenzioni verso questi veri gioielli dell’arte e dell’opera dell’uomo, riformuliamo la scala delle priorità per il Salento, che non ha ancora bisogno di elevarsi a ente regione autonoma, ma di più cura e attenzione verso quello che già possiede. Tommaso Manzillo
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Post n°13 pubblicato il 01 Ottobre 2010 da tommaso.mt
BARI Che non riescano ad arrivare a fine mese, per fortuna, è escluso. Quelle cifre lì, del resto, i comuni mortali se le sognano. Ma siccome troppo non è mai abbastanza, e visto che la legge c'è – e lo prevede esplicitamente – il consiglio regionale ha ben pensato di non farsi scappare l'occasione. Dunque martedì un provvedimento dell'ufficio di presidenza ha fatto un bel regalino agli ex consiglieri: i vitalizi, che sono già i più alti d'Italia, sono stati aumentati d'ufficio del 3,09%. La stessa percentuale che spetta ai docenti universitari, ed a cui i consiglieri pugliesi si sono provvidenzialmente agganciati. Ed è circa cinque volte di più di quanto hanno ricevuto, quest'anno, i pensionati Inps. |
Post n°12 pubblicato il 27 Settembre 2010 da tommaso.mt
S’incorre, certamente, in errore pensare che il tema del federalismo sia stato un’invenzione della Lega Nord, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, figlia di uno stato di insofferenza per un Nord ricco e opulento e un Sud destinatario di assistenzialismi fini a se stessi, con sperperi di denaro pubblico di origine nordista, dove la corruttela politica è la protagonista indiscussa di scelte meridionalistiche improduttive e scellerate. Eppure, l’esigenza di uno Stato decentrato si avvertiva già all’indomani dell’Unità d’Italia, riconoscendo la molteplicità delle diverse problematiche territoriali, come conseguenza di differenti percorsi storici e culturali. Di questa necessità si fecero promotori proprio gli uomini del Sud, primo fra tutti il marchese di Casamassella, frazione di Uggiano La Chiesa, il professore universitario e scienziato delle finanze, ossia della nuova visione dell’economia intesa come scienza, Antonio De Viti De Marco (1858 – 1943). Il contesto storico in cui viene a operare l’aristocratico è l’Italia post-unitaria, in un periodo che dalla fine di Depretis, passando per la lunga esperienza giolittiana, giunge fino agli inizi del fascismo (1931), quando la sua intesa attività didattica e politica fu bruscamente interrotta dal rifiuto di giurare fedeltà al nuovo regime. Fu costretto a lasciare la cattedra universitaria di Roma, ritirandosi dalla vita pubblica, dichiarando la sconfitta dei suoi principi democratici e liberali (chissà quale svolta avrebbe impresso De Viti De Marco alla democrazia e soprattutto nel pensiero economico senza la parentesi del Ventennio!). Un suo grande critico fu l’economista Vilfredo Pareto (1848 – 1923), che non le mandava certo a dire tramite Maffeo Pantaleoni, circa la necessità, secondo l’aristocratico salentino, di applicare la matematica nei problemi economici e finanziari (da qui la nascita delle scienze delle finanze), principio universalmente accolto e approfondito a livello internazionale anche dallo stesso Pareto. Francesco Crispi, figlio della borghesia commerciale siciliana, ma di origine albanese, già ministro dell’Interno con l’ottavo e ultimo governo Depretis, ricoprì l’incarico di presidente del Consiglio dei Ministri nel 1887, dopo la morte dello stesso Depretis, puntando proprio al rafforzamento dello Stato borghese di natura commerciale e industriale, con l’appoggio trainante del settore tessile-laniero. Erano gli anni in cui in Italia imperversava il pensiero economico tedesco, quello che Ferrara e De Viti De Marco chiamavano il “germanesimo economico”, teorizzando l’assenza delle leggi nell’economia come un via libera dell’intervento della politica nella vita economica e nella società civile. Tale interventismo, sia di destra sia di sinistra, era sinonimo, come effettivamente si dimostrò, di corruzione politica, coinvolgendo non solo lo stesso Crispi, ma molti governi a lui succedutisi, soprattutto quelli di Giolitti, contro cui De Viti De Marco aveva sempre parole dure e diversità di opinioni, allorché fu uno dei primi a parlare, più di un secolo fa, di questione morale, denunciando la collusione tra uomini politici e funzionari con le banche a danno sempre del pubblico, in un Paese che reclamava l’indipendenza della magistratura dalla politica: “Sembra la diagnosi della situazione italiana dei giorni nostri” (affermava Lorenzo Infantino, docente di sociologia presso la LUISS di Roma, nel gennaio del 2000). La pessima congiuntura economica e l’arretratezza dell’agricoltura meridionale di fine secolo misero in crisi le idee del libero scambio e della libera concorrenza, spianando la strada al protezionismo e alla tariffa granaria del 1887, favorendo i grandi proprietari terrieri e gli industriali del Nord. De Viti De Marco, deputato dal 1900 al 1921 nelle fila dei radicali, fondò, nel 1904, la Lega Antiprotezionista, dimostrando in tal modo l’inopportunità della politica economica del Crispi. Nel 1898 lo stesso De Viti De Marco scriveva sulla situazione economica della Milano industrializzata e di “un popolo dato all’industria, intento con successo alla produzione, all’accumulazione del capitale, è anche il popolo adatto ad apprezzare l’alto significato del lavoro produttivo delle industrie private comparato con quello delle intraprese pubbliche” (Ernesto Ragionieri, in Storia d’Italia, di Luigi Einaudi editore, 1975, riedizione per Il Sole24Ore, Milano, 2005, pag. 1844). La più importante riforma dei ministeri crispini e giolittiani fu l’ordinamento comunale e provinciale disattendendo, però, le promesse elettorali nella direzione del decentramento amministrativo, finendo per restringere quei margini di autonomia di cui ancora godevano gli enti locali. In un discorso politico agli elettori liberali del collegio di Gallipoli, De Viti De Marco affermava: “Accetto l’idea del decentramento e delle autonomie locali” nel senso che “il potere centrale si spogli di molte funzioni, specialmente riguardanti la tutela sulle amministrazioni locali, e quindi assicuri a queste una maggiore indipendenza”, intesa come soluzione di continuità alle ingerenze del primo nelle decisioni delle seconde. Sul Giornale degli Economisti del 1894, acquistato nel 1890 insieme al suo amico di studi universitari, Maffeo Pantaleoni e Ugo Mazzola, scriveva De Viti De Marco che “l’autonomia del Comune dal potere centrale, come qui si propone, riposa non già sopra una maggiore libertà dei Consigli Comunali, ma sopra una più larga partecipazione del popolo nell’amministrazione economico-finanziaria”, contro la tirannia degli stessi Consigli comunali che danneggia contadini e amministrati. Questo è il principio ispiratore del federalismo per Antonio De Viti De Marco, ossia a fronte di una maggiore autonomia per gli enti locali, deve corrispondere una maggiore responsabilità e senso di responsabilizzazione da parte della classe politica nella gestione delle risorse pubbliche, e per questo il compito più importante spetta al corpo elettorale, che premia o punisce le amministrazioni locali. “Vogliono gli elettori di questo comune un aumento di due centesimi sul dazio del vino o del petrolio o delle farine per avere l’illuminazione stradale?”, è la domanda che pone il marchese in un ipotetico referendum amministrativo in cui è chiamato in causa proprio quel cittadino su cui pesa il gravame delle tasse, offrendo in tal modo la sua opinione e il suo contributo nella gestione di quegli squilibri regionali emersi dopo il processo unificatore. Per completezza e dare il giusto valore al federalismo, De Viti De Marco aggiunge al referendum un altro importante strumento utile per rafforzare l’autonomia dei Comuni, ossia l’indipendenza della magistratura dal potere politico, in modo che la prima possa decidere nell’interesse e su ricorso dei cittadini contro eventuali soprusi dei Consigli comunali. Dei liberisti si servì Giolitti per impostare su nuove basi tutto un processo di ammodernamento dello Stato coordinato con un più spinto sviluppo economico, ma suoi più grandi oppositori furono proprio il nostro concittadino e deputato repubblicano, l’ingegnere Antonio Vallone (1858 – 1925) e De Viti De Marco, che lo accusarono di una politica economica decisamente a vantaggio del nord industriale, comprando, con qualche concessione in termini di infrastrutture, un Sud socialmente ed economicamente provato, che dovette arrendersi a quel triste fenomeno, sul finire del XIX secolo, che fu l’emigrazione in terra straniera, in cerca di migliori fortune, con un carico di speranza e di buona volontà. Contro l’errato convincimento delle popolazioni settentrionali “che lo sperpero che fa il governo centrale consista nel prelevare imposte dal Nord per gettarle al Sud”, lo stesso De Viti De Marco, con l’aiuto del Panteleoni, dimostrò, con numeri alla mano, che le tasse pagate al Nord servirono per fare le infrastrutture al Nord, mentre quelle pagate al Sud, eccessivamente di gran lunga superiori alla propria ricchezza prodotta, furono usate per fare quelle infrastrutture per un territorio ancora arretrato e poco industrializzato e per questo ritenute delle opere inutili e improduttive. “Dal decentramento, come lo intendo, mi aspetto benefici effetti per queste ragioni in materia di lavori pubblici, che finora sono stati affidati allo Stato, e che invece andrebbero in più larga misura affidati agli enti locali e ai consorzj. […] Ma io non voglio sollevare questa questione per fomentare uno spirito separatista. Tutt’alto, io sono unitario. […] Noi – che siamo politicamente meno organizzati e quindi meno forti in Parlamento (il riferimento è al movimento dei radicali, ndr) - troveremo in una forma di decentramento il mezzo di difendere più efficacemente la nostra proprietà”. (Antonio De Viti De Marco, Mezzogiorno e democrazia liberale. Antologia degli scritti, a cura di A. L. Denitto, Palomar editore, Bari, 2008). Un’equa riforma tributaria che non sia di aggravio per chi già è vittima di una pesante congiuntura economica, un efficace decentramento amministrativo e fiscale coniugato con l’indipendenza della magistratura dalla politica, sulle orme dell’insegnamento smithiano, lasciando allo Stato il compito di occuparsi delle cosiddette “spese obbligatorie”, di interesse collettivo cui deve sopperire la generalità dei suoi cittadini, oltre che portare in primo piano la cosiddetta questione morale, che affonda nell’Italia post-unitaria le sue macabre radici, e che oggi si esprime in tutto il suo squallore, sono i punti salienti dell’opera politica e professionale di un personaggio che ha portato in alto il Salento in tutto il mondo. Il federalismo impostato dall’economista salentino potrebbe essere la risposta adeguata alle critiche giunte da chi vede in tale strumento di riordinamento amministrativo e finanziario dello Stato, così com’è stato legiferato e depositato in Parlamento, la causa generatrice di nuovi squilibri dovuti a un aumento della pressione fiscale a carico dei cittadini, prima tartassati dal governo centrale ora dalle amministrazioni locali, dovuto a un maggior costo per il decentramento in esame. Antonio De Viti De Marco fu una personalità di spessore internazionale, le sue idee oggi potrebbero dimostrare le origini e le cause di una crisi economica e finanziaria di portata mondiale, che non accenna di allentare la morsa. Lo stesso marchese amava etichettarsi un “conservatore liberale; - molto liberale, perché nello sviluppo massimo della libertà individuale faccio consistere il massimo di conservazione sociale”. Purtroppo l’avvento del fascismo lo ha portato a un isolamento nella sua tenuta di Casamassella, dove apportò grandi cambiamenti nel campo agricolo, che furono veramente all’avanguardia per quei tempi. Morì ignorato dal mondo il 1° dicembre del 1943. Tommaso Manzillo |
Post n°11 pubblicato il 21 Settembre 2010 da tommaso.mt
Fervono i preparativi per la Festa dei 150 anni dell’Unità d’Italia cui parteciperanno Teste Coronate, Capi di Stato e di Governo di mezzo mondo. Eppure ancora oggi sembra di sentire l’eco di Massimo Taparelli, marchese d’Azeglio: “Abbiamo fatto l'Italia. Ora si tratta di fare gli Italiani.” Già! Perché ancora oggi più di allora le distanze politiche, culturali, sociali ed economiche che dividono il Nord dal Sud non sono state ridotte, anzi il solco è più profondo di ieri. Proprio nelle ultime settimane sono stati resi pubblici alcuni importanti e clamorosi documenti tenuti nascosti nell’Archivio Storico della Farnesina e che riscrivono nuovamente la Storia dell’Unità d’Italia, quella che non ti insegnano i libri di stampo fortemente sabaudo. |
Post n°10 pubblicato il 21 Settembre 2010 da tommaso.mt
Il rapporto della Banca d’Italia “Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia” presentato lo scorso anno dal Governatore Mario Draghi, illustra dettagliatamente i nostri “scarti allarmanti” rispetto al resto del Paese, le loro origini, ipotizzando i possibili rimedi per agganciarci al treno dello sviluppo economico del nord e del resto d’Europa. Le politiche per il Sud, piuttosto assistenziali, applicate nel corso degli ultimi decenni sono fallite perché sono stati messi in campo strumenti economici, come ad esempio la Cassa per il Mezzogiorno e i vari contributi agevolativi (dalla L. 488/92 ai crediti d’imposta), per completare quella unificazione sociale e civile ancora da realizzare. L’economia italiana si presenta come “dualistica” perché, accanto ad un centro nord più vicino alle ricche regioni del Nord-Europa, persiste il cronico sottosviluppo del Meridione, in termini di reddito pro-capite, di produttività, condizioni del mercato del lavoro e qualità della vita. Nel Mezzogiorno d’Italia, oltre al ritardo della rivoluzione industriale, non si è mai avuta quella “rivoluzione sociale” in grado di trasformare il suddito del Regno di Napoli in cittadino dello Stato unitario, vivendo ancora in una “comunità” piuttosto che in una “società”, strutturalmente caratterizzata da un forte e protettivo potere politico, con una elevata dipendenza dal settore statale (una meridionale laureata che decide di rimanere nel sud dovrebbe puntare ad un impiego pubblico, più remunerativo rispetto al nord e al settore privato), e la presenza di valori legati all’indifferenza e alla mancanza di spirito di cooperazione fra i suoi simili: è privo, in poche parole, del “capitale sociale”. Il tessuto produttivo industriale potrebbe, si, avere bisogno di un sostegno finanziario e fiscale per un rilancio immediato della sua economia, ma non basta. La presenza di tante aziende gestite secondo corretti criteri di economicità ed efficienza, che combattono contro una concorrenza sleale, fatta di apparente e falsa competitività, come l’uso di manodopera sottopagata e/o irregolare e la mancanza di rispetto delle leggi previdenziali, fiscali e ambientali, richiede il ripristino delle condizioni di legalità. Il rapporto sottolinea, in più capitoli, come il fenomeno della criminalità organizzata influenzi la vita civile ed economica, soprattutto nel settore degli appalti pubblici, capace di pilotare diverse decisioni a livello locale nutrendosi dell’ambiguità di un pezzo della classe politica (sono state sciolte circa duecento amministrazioni per infiltrazioni mafiose e centinaia di dipendenti pubblici spostati solo di scrivania, ma raramente condannati in via definitiva), inquinando la nostra fiducia sia tra di noi che verso la classe dirigente, fino ad ostacolare il funzionamento della libera concorrenza. La corruzione del sistema economico deprime la crescita potenziale delle nostre piccole e medie imprese e, per questo, serve una seria e profonda riforma del sistema giudiziario, non solo per lo sviluppo sociale e civico, ma per poter attrarre anche importanti investitori internazionali. Questa necessità emerge anche da un’attenta analisi dei valori differenziali nel servizio della giustizia civile, mostrando come nel 2006, i tribunali del distretto meno efficiente per la cognizione ordinaria siano stati quelli di Lecce, con una durata media dei procedimenti tre volte superiore rispetto a Torino, mentre in materia di lavoro, previdenza e assistenza risultava Taranto, con una durata media sette volte superiore rispetto a Torino. In linea generale e per lo stesso anno di rilevazione, i procedimenti nei tribunali del sud duravano in media 1.209 giorni in sede di cognizione ordinaria e 1.031 giorni per le cause in materia di lavoro, previdenza e assistenza, in conseguenza della maggiore litigiosità qui presente (2.895 provvedimenti pendenti per ogni magistrato contro una media nazionale di 2.363), mentre nel centro nord si è avuta una media, rispettivamente di 842 e 521 giorni. Nessun cenno circa la Banca del Sud, ma il rapporto indica che diverse istituzioni creditizie sono nate anche in questa parte di Italia, come nel resto del Paese. Ancora oggi, fioriscono diverse banche locali, protagoniste di uno straordinario sviluppo territoriale che è sotto gli occhi di tutti, facendo emergere importanti figure imprenditoriali e una certa classe di piccoli e medi borghesi. Il maggior costo per il credito che deve sopportare il Meridione è la logica conseguenza della minor trasparenza nei rapporti economici e dell’inefficienza dei tribunali, riducendo la propensione ad erogare prestiti in assenza di garanzie reali. Rispetto a una qualsiasi altra istituzione creditizia, cosa potrebbe fare in più una Banca del Sud? Una spesa pro-capite di 1.130 euro contro i 1.000 del centro e 860 al nord, non basta per colmare il divario nella formazione scolastica (in cui siamo carenti persino nella comprensione dei testi, oltre che nella matematica), ma occorre un miglior livello di istruzione e un maggior riconoscimento ai titoli delle università meridionali, che non sono certamente di meno rispetto a quelle del settentrione. La prosecuzione degli studi è un impegno importante per la diffusione di valori civici, per combattere l’illegalità, il lavoro sommerso, poiché quanto più basso è il livello di istruzione tanto più elevata è la probabilità di svolgere un lavoro irregolare, ma soprattutto per cercare di frenare l’intensificarsi dei flussi migratori da Sud a Nord che interessano i giovani prevalentemente con alti livelli di scolarizzazione. La presenza di persone con un titolo di studio più alto rende i lavoratori non qualificati più produttivi riducendo il loro tasso di disoccupazione. Gli “scarti allarmanti” mostrano un Sud qualitativamente arretrato oltre che nell’istruzione e nella giustizia civile, nella sanità, negli asili, nell’assistenza sociale, nel trasporto locale, nelle infrastrutture, nella gestione dei rifiuti, nella distribuzione idrica (altro tema al centro del dibattito nazionale), dovuto ad un uso inefficiente delle risorse pubbliche, forse sovrabbondanti, e per il perdurare di forti legami tra le amministrazioni locali e gli organismi gestori, impedendo con le pervasive corruttele, clientelismi e sprechi, un duraturo sviluppo territoriale. Lo Stato deve preoccuparsi di migliorare la qualità di tali servizi, con una migliore programmazione della spesa comunitaria su poche e strategiche priorità, diffondendo ed ampliando la cultura del mercato per eliminare le rendite parassitarie, grazie ad un sistema di premialità in termini di maggiore risorse per le regioni più virtuose. Una grande aspettativa suscita il federalismo fiscale (tema al centro del dibattito istituzionale sin dall’Unità d’Italia), per quel senso di responsabilità che dovrebbe guidare tutta l’azione di governo delle varie istituzioni locali, e per il compito del cittadino nel vigilare sull’uso efficiente delle sue risorse, perché, “un governo che funzioni bene richiede la presenza di cittadini attivi, capaci e disposti a controllare, ed eventualmente a punire, gli amministratori inefficienti”: per questo abbiamo una potente arma da usare, il voto! Le politiche da adottare devono essere più ambiziose e più pazienti, perché in breve tempo non si può sperare di cambiare una situazione oramai consolidata nel corso di un secolo e mezzo di storia unitaria. Occorrerebbe un vero e proprio choc in grado di trasformare tutta la società meridionale, iniziando dai propri valori di riferimento e dal modo di porsi nei confronti della collettività. Principalmente dovremmo prendere coscienza di noi stessi e delle nostre ricchezze, delle nostre capacità e responsabilità; dopodiché ognuno ha un suo compito da espletare: lo Stato deve imporre condizioni di legalità e di giustizia, garantendo lo svolgimento della libera concorrenza leale; gli enti locali competenti per territorio hanno l’obbligo di far funzionare tutti i servizi pubblici loro decentrati secondo criteri di efficienza, efficacia ed economicità; mentre al cittadino meridionale compete la costruzione di una società più impegnata nel rispetto delle leggi e prima di tutto dei suoi simili, per cercare di consegnare alla Storia la parola “fine” sulla cosiddetta “questione meridionale”. Tommaso Manzillo |
Post n°9 pubblicato il 09 Settembre 2010 da tommaso.mt
Alla ripresa dell’attività lavorativa, dopo la consueta pausa estiva, mi è giunta per posta la relazione della Banca d’Italia “L’economia della Puglia”, di pagine 84 e finita di stampare nel mese di giugno dell’anno corrente. Dopo aver fatto un bilancio a tinte fosche sia sotto l’aspetto economico che sotto quello finanziario, alcuni punti meritano attenzione e opportune analisi. L’INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) ha svolto nel 2008 un’analisi, a livello nazionale, tesa a valutare la qualità dell’istruzione su un campione di quasi 500mila studenti (di cui circa 40mila residenti in Puglia). Risultato: “Gli studenti pugliesi di terza media conseguono risultati nelle prove di matematica e di italiano peggiori rispetto a quelli delle altre regioni italiane”, ma migliori rispetto alla media del Mezzogiorno. Questa situazione è già stata denunciata proprio su questo quindicinale (“il Galatino”, nr. 21 del 18 dicembre 2009, “Gli scarti allarmanti del Mezzogiorno d’Italia”), allorquando fu messo in luce il fatto sconcertante che persino nella comprensione dei testi, gli studenti meridionali hanno un punteggio di valutazione decisamente sotto la media delle altre regioni italiane. È fu proprio in quella sede che venne ribadito l’importanza di un sistema educativo di qualità, volano per un processo di sviluppo che vuole essere economico, sociale e soprattutto civico. Il discorso assume contorni più precisi se si tiene presente che in Puglia esiste un forte divario tra le scuole che ottengono risultati molto alti e quelle che ottengono risultati decisamente negativi, con la spesa pro-capite per l’istruzione di poco superiore rispetto alla media delle regioni a statuto ordinario (1.090 euro contro 1.000), mentre il rapporto tra docenti e studenti è lievemente inferiore alla media. Questo è sicuramente un aspetto molto importante, soprattutto per l’anno scolastico appena iniziato, caratterizzato dalla presenza di classi “superaffollate” (per motivi di sicurezza, il decreto del ministero dell’Interno del 26 agosto 1992 prevede in ogni aula un massimo di 25 persone oltre il docente, e ora vi sono classi, a livello nazionale, che raggiungono i 37 alunni), mentre si è registrato un forte calo tra il personale docente, a fronte di un sempre crescente “esercito di precari” che “nessun Governo riuscirà mai ad assumere” (affermazione del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, M. Gelmini). L’istruzione e la sua qualità, e quindi il principio del merito, devono tornare al centro dell’agenda politica per realizzare la tanto auspicata riforma radicale del Paese attraverso nuove figure professionali, con un elevato profilo in termini di preparazione, risultato difficilmente raggiungibile con poco personale docente e aule sempre più affollate: magari sarebbero più efficaci meno “Ponti sullo Stretto” e più investimenti nell’istruzione e nella ricerca universitaria, ne gioveremmo anche in salute!!! La sanità pugliese presenta costi pro-capite, nel 2009, lievemente inferiori (euro 1.805) rispetto alla media delle regioni a statuto ordinario (1.846 euro), con una variazione poco apprezzabile rispetto al 2008. È però vero che i costi sanitari sono direttamente correlabili alla quota di popolazione anziana, che in Puglia è inferiore alla media nazionale, ma è anche da tenere presente l’incidenza delle malattie croniche gravi, che dipendono, secondo la Banca d’Italia, da una situazione di disagio sociale che si riflette sugli stili di vita dei residenti (preoccupa il dato per l’anno 2005, quando tale fenomeno coinvolgeva il 13,6 percento della popolazione contro 13 percento a livello nazionale). La spesa farmaceutica ha continuato a crescere anche nel 2009 (229 euro pro-capite contro 214,5 al Sud e 186,7 in Italia), sostenuta prevalentemente da un aumento dei consumi, nel senso che nei primi nove mesi dell’anno scorso vi è stata una crescita delle dosi farmacologiche del 5,2% rispetto allo stesso periodo del 2008, contro un aumento del 3,3% su livello nazionale (basti pensare che nel 2008 il 47% dei casi di influenza è stato trattato con antibiotici, il 38% in Italia). Riguardo la spesa ospedaliera, l’Istituto di Via Nazionale sentenzia che, per l’anno 2006, “la maggiore spesa in regione risente del più diffuso utilizzo delle strutture ospedaliere e della maggiore inappropriatezza dei ricoveri”, con una media per casi acuti pari a 215 in ragione d’anno ogni mille abitanti, di molto superiore alla media nazionale (187), registrando, la Puglia, un minor ricorso al Day hospital (53,6 per mille abitanti). Di contro, va chiarito che nel corso del 2007 operavano nella nostra regione 18,4 ospedali per ogni milione di abitanti, con una dimensione, lo avevano già ribadito nel passato, maggiore rispetto alla media nazionale e del Mezzogiorno, e di conseguenza, con una capillarità inferiore. Un’ultima affermazione del rapporto annuale di Palazzo Koch potrebbe innescare accesi dibattiti e opinioni diverse, ma probabilmente non turberebbe la coscienza di chi ricopre incarichi di responsabilità, ossia “malgrado un livello di spesa maggiore, la qualità percepita è peggiore rispetto alla media nazionale”. A pag. 70 del Rapporto si espone una tabella sugli “Indicatori di spesa, attività e gradimento del servizio ospedaliero”, mettendo in evidenza, ad esempio, il peggior numero di addetti per 100 posti letto in strutture pubbliche (225,8 contro 249,3 nel Mezzogiorno e 262,7 in Italia, dati tratti dal Ministero della Salute per l’anno 2007), con un indice di attrazione di 3,4 contro 3,7 nel Mezzogiorno e 7,2 nazionale. Difatti continua, nel 2007, la fuga dagli ospedali pugliesi, con una media di 7,5 contro 7,2 in Italia e 8,1 nel Mezzogiorno, con un saldo migratorio negativo (ossia il saldo tra il numero dei ricoveri di non residenti presso le nostre strutture regionali e quello di pugliesi presso ospedali di altre regioni) del 4,5 per cento. Il grado di soddisfazione per l’assistenza medica e infermieristica è del 20,7 per cento, mentre per il vitto il 13,4 per cento e per i servizi igienici il 15,4 per cento, tutte al di sotto della media nazionale e delle regioni meridionali, eccetto per l’assistenza infermieristica. Da ricordare che a causa della crescita della spesa sanitaria, la Regione Puglia ha dovuto aumentare l’addizionale regionale all’IRPEF (+0,5% per i redditi superiori a 28mila euro annuali), abolita, però, insieme all’addizionale sull’accise della benzina, dal primo gennaio di quest’anno con la Legge n. 34 del 31 dicembre 2009 (ritorna allo 0,9%); rimane però il forte incremento dell’aliquota IRAP (4,82%, contro il 3,9% a livello nazionale), che grava sulle imprese, tributo sul quale pesa enormemente il costo sostenuto dalle stesse per il personale dipendente e assimilato, indeducibile dalla base imponibile dell’imposta, oltre agli interessi passivi (pensiamo a quelle realtà economiche che hanno dovuto, o avevano intenzione di contrarre dei debiti verso istituti di credito per nuovi investimenti o per far fronte a ristrutturazioni aziendali), proprio in un anno di difficoltà economiche e finanziarie, la maggiore imposizione IRAP diventa veramente insostenibile. Sul fronte degli investimenti, la regione Puglia, per il periodo 2007-2013, ha un ammontare di risorse a disposizione pari a 5,2 miliardi di euro, da spendere per il Piano Operativo regionale, e di questi sono stati impegnati, alla fine del 2009, il 40,3% e spesi solo il 6%. Nel Quadro Strategico Nazionale, al fine di promuovere un certo miglioramento nella qualità dei servizi, misurato attraverso quattordici indicatori, è previsto un sistema di Obiettivi di servizio, che sono principalmente quattro: l’istruzione; i servizi di prima infanzia e socio-sanitari destinati agli anziani; la gestione dei rifiuti; il servizio idrico. Per la Puglia il sistema degli obiettivi di servizio ha previsto risorse premiali pari a 532 milioni di euro, di questi sono stati assegni 90 milioni, ossia il 17%, per il miglioramento attuato nei servizi di gestione dei rifiuti, e in parte per il servizio idrico e per i servizi all’infanzia e socio-sanitari agli anziani. Emerge sicuramente un preoccupante quadro di difficoltà per la nostra regione, come nel resto d’Italia, ma la situazione nei primi sei mesi di quest’anno sembra essersi stabilizzata, sia per le imprese di medie dimensioni e a basso rischio di mercato, sia per le famiglie, nonostante il perdurare della crisi per alcuni settori (edilizia residenziale, mobili, abbigliamento e moda). Si attendono novità dal percorso parlamentare sul federalismo fiscale, che avrà sicuramente ripercussioni sull’economia della Puglia e del Mezzogiorno in genere, soprattutto alla luce degli ultimi indicatori che mostrano come il divario nord-sud del Paese abbia ripreso a crescere. Il discorso cade subito sull’unità d’Italia, per la quale siamo prossimi a tagliare il traguardo dei 150 anni, un’unità incompiuta e per questo insultata dai tanti interventi ed opinioni che si registrano in questi mesi. Non si può non condividere il duro giudizio di Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera di qualche giorno fa, quando accusa la “miserabile pochezza delle classi dirigenti politiche meridionali, specie locali, protagoniste di malgoverno e di sperperi inauditi, ma che continuano a stare al loro posto perché votate dai propri elettori”, per la mancata soluzione alla questione meridionale, tema che ha unito sugli scranni parlamentari alcuni nostri conterranei, tra i quali vanno ricordati l’ingegnere galatinese Antonio Vallone (1858 – 1925) e il marchese e professore universitario di Casamassella, Antonio de Viti de Marco (1858 – 1943). Furono proprio loro ad accusare i vari governi nazionali succedutisi all’indomani dell’Unità (soprattutto quelli giolittiani), rei di far tacere l’arretratezza del sud con qualche infrastruttura e qualche privilegio particolare (come il dazio sul grano), sacrificando lo sviluppo economico del Mezzogiorno a vantaggio del nord industriale (Mezzogiorno e democrazia liberale. Antologia degli scritti di Antonio de Viti de Marco, a cura di Anna Lucia Denitto, anno 2008, pagine 456, casa editrice Palomar). Quanto sono attuali questi dibattiti vecchi quasi un secolo!!! Piuttosto che guardare con invidia alla crescita elettorale della Lega Nord, organizzando tardivamente movimenti “sudisti” in difesa di chissà quali istanze, forse i nostri parlamentari, oltre che pensare alla Regione Salento, dovrebbero seguire le orme liberali di Antonio de Viti de Marco e degli altri, contribuendo ad un maggior e più efficace federalismo fiscale con un strutturale abbattimento delle spese improduttive, nella logica della responsabilizzazione delle istituzioni locali nella gestione delle rispettive risorse, riservando allo Stato compiti di interesse generale, nella visione smithiana, secondo quei principi cardine che fondarono l’Italia Unita e dai quali, oggi, dovremmo ripartire. Tommaso Manzillo |
Post n°8 pubblicato il 30 Luglio 2010 da tommaso.mt
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Post n°7 pubblicato il 27 Luglio 2010 da tommaso.mt
BARI - Consigli per una vecchiaia felice. Come si fa a lavorare |
Post n°6 pubblicato il 26 Luglio 2010 da tommaso.mt
Nell..arco di un solo secolo, quello appena trascorso, la società italiana ha subito una radicale |
Post n°5 pubblicato il 26 Luglio 2010 da tommaso.mt
Senza andare troppo lontano con l’analisi storica, ma fermando l’attenzione sugli avvenimenti succedutisi nel corso del secolo scorso, si potrebbe affermare che i pazzi, i bruti e i mascalzoni sono stati e sono gli artefici del nostro destino. Così Oriana Fallaci (1929 – 2006) introduce l’intervista con il colonnello Gheddafi raccolta nel suo ultimo libro, “Intervista con il potere”, pubblicato nel mese di novembre 2009 per mano del nipote e suo erede universale Edoardo Perazzi, edizione Rizzoli, pagine 606, lanciandosi in una riflessione appassionata sul potere. Nel prologo, prima di incontrare il generale Loan, il terrore di Saigon (Vietnam), la stessa scrittrice si domanda cosa succeda realmente agli uomini e alle donne che arrivano in qualche modo al potere, per incattivirli e imbruttirli fino a compiere i crimini più crudeli, come la corruzione, le stragi, per annullare ogni forma di dignità umana, distruggendo, anche se volevano costruire sulla Terra il Giardino dell’Eden. Nella prima parte del libro, dedicata a due interviste, all’Imam (=santo) Khomeini (capitolo primo) e al colonnello libico Gheddafi (capitolo secondo), è tutto un susseguirsi di immagini ed episodi raccapriccianti, alquanto ripugnanti, presentandoci uomini buffi e stravaganti, che per ironia della sorte, o per un gioco magico del destino, sventolando la loro inconscia cretineria e manifestando un incredibile incoerenza nella difesa delle proprie dottrine (basti pensare all’odio islamico verso gli occidentali ritenuti falsi e corrotti, per poi sposare il capitalismo e l’imperialismo della FIAT da parte proprio del leader libico), tengono nelle proprie mani il futuro di migliaia di indifesi, colpiti nelle loro coscienze da ideali oramai superati, tipici di un lontano medioevo. Come la reintroduzione dell’obbligo, per le donne iraniane e non solo, di indossare il chador, dopo essere stato bandito nel 1936 dallo scià Reza Pahlavi come segno di una certa apertura culturale, per nascondere la propria femminilità, rea di distrarre l’uomo dalla gestione delle cose che contano, costretta a portarlo addosso anche l’autrice dopo un improvviso e inevitabile matrimonio con un mullah, ma clamorosamente levatoselo davanti all’Imam Khomeini dopo averla malvagiamente umiliata. Certamente nel linguaggio crudo e sfrontato usato dalla stessa Fallaci, e sul suo modo di “mettere le cose in modo duro” (le avrebbe detto Berlinguer nella seconda parte del libro), quasi ostentando un’invidiabile faccia tosta, ha influito il suo apporto alla Resistenza italiana e la sua partecipazione alla guerra nel Vietnam come inviata speciale, dalla stessa ritenuta “una sanguinosa follia”, per aver vissuto e testimoniato come la dignità dell’uomo vestito da soldato si annulli davanti ai proclami, ai desideri, alle bramosie di successo del potere. Per tutto il libro, ma soprattutto in questa prima parte che si sta analizzando, aleggia sempre nella mente del lettore un ricorrente interrogativo, ossia se sono i malvagi che detengono il potere o piuttosto è il potere che rende gli uomini malvagi. Cavalcando l’onda del malcontento popolare, con un piccolo esercito di seguaci in uniforme cui si è promessi laute ricompense, con l’intento di liberare la popolazione da una forma di dittatura oppressiva, si compiono dei veri e propri furti di potere come rapinatori notturni, impetrando tra la povera gente il terrore, la paura di essere scoperti e il rimorso della coscienza anche nel compiere, nel proprio segreto, i gesti a noi più comuni, come bere una birra o pettinare una donna. È dall’intervista con un personaggio alquanto particolare, come il leader libico, che l’autrice proclama la sua teoria sul potere. La Storia, intesa come un minestrone i cui ingredienti sono l’irrazionalità, la violenza e l’inganno, ci ha presentato e ci presenta diversi condottieri dimostratisi in qualche modo dei pazzi. Un esempio su tutti è dato da Hitler che, quasi spinto da un ruolo affidatogli da chissà quale strana e oscura entità misteriosa, costruì un ambizioso progetto, quanto folle e terribile teso a cancellare dalla faccia della terra un intero popolo di ebrei, rei colpevoli solo di appartenere a una razza di categoria inferiore. Se la pazzia è una forma di alterazione mentale che si manifesta con azioni fuori dal normale, fino a causare pericolo o disabilità, il dittatore, il tiranno, conosce benissimo la differenza tra il bene e il male, la distinzione tra il buono e il cattivo, la valenza delle sue idee e dei suoi proclami e non è accettabile che i tribunali internazionali si possano rifiutare di processarlo perché incapace di intendere e di volere. Troppo facile e troppo comodo. Piuttosto, chi detiene il potere sembra essere una persona apparentemente sana e razionale, ma inconsciamente affetta da paranoia (=delirio cronico), che si manifesta sotto forma di una mania di grandezza (lo dimostra l’intervista con lo stesso colonnello Gheddafi), con la pretesa di dominare il mondo perché investiti di un ruolo messianico. Il paranoico è diffidente, affetto da convinzioni persecutorie non rispondenti alla realtà, ha la paura di essere pedinato, spiato, di subire lavaggi del cervello, di essere incompreso, criticato, oltraggiato, tradito, di star per essere avvelenato e persino ammazzato dai suoi stessi amici e seguaci, vivendo circondato da ogni forma e tipo di sistema di sicurezza e protezione. Secondo Freud, tali deliri rappresentano una difesa contro un’omosessualità inconscia, secondo altri il paranoico è oppresso da onanismo, odiando le donne e nello stesso tempo invidiandole, rivelando in tal modo un desiderio nascosto di essere posseduto da altri uomini. Per le persone potenti, possibili bersagli di congiure o persecuzioni e con una nutrita schiera di nemici, come era per Stalin, è impossibile non essere clinicamente paranoici. In ogni pagina del libro la scrittrice fiorentina si prende gioco del potere, ironizzando su tutti i personaggi che incontra, attenta a descrivere nei minimi particolari l’abbigliamento e gli atteggiamenti degli intervistati, gli sguardi e le espressioni del volto, il loro stile di vita, scrutando e scavando fin dentro le loro anime e le loro coscienze, facendo a tratti sorridere il lettore (ricorda da bambina quando vide Hitler che si atteggiava davanti alla folla con l’aspetto di un gentile gelataio, con un baffetto a spazzolino che sembrava un cerotto sotto il naso). Un vero manuale di psicologia politica oltre che di storia italiana e internazionale, che ci aiuta a capire gli attuali equilibri mondiali. Nella seconda parte del libro, ci presenta i diversi volti del potere, quello politico-internazione, con l’ombra del presidente Kennedy che aleggia sul fratello Robert, negando a fatica il sogno della sua scalata alla Casa Bianca, quello etnico - razziale di James Farmer e la sua lotta per l’integrazione dei negri d’America, quello religioso del Dalai Lama e la credenza buddista sulla sua reincarnazione. Due cruente esperienze ci offre per denunciare quanto costi, in termini di vite umane, ma anche di privazioni e sacrifici la lotta per l’indipendenza della Palestina, dove nemmeno la vita dei bambini conta davanti alla causa della propria patria. Qualsiasi forma assuma il potere, di certo cambia il destino di un uomo, forgiando il suo carattere in qualcosa che non gli assomiglia più, e di solito in peggio. Nelle diverse interviste a esponenti di spicco della politica italiana del secondo dopoguerra, si apre chiaro al lettore la nostra situazione negli anni ’70 e ‘80, quando a detenere in qualche modo il potere vi erano i La Malfa, i Malagodi, i Nenni, i De Gasperi, i Fanfani, i Craxi e altri ancora, smarrendo la bussola dei valori etici, sociali e civili coltivati durante la Resistenza, ci consegnano un Paese calpestato dagli arrivismi e dai particolarismi. Se n’era accorto persino Lech Walesa, leader carismatico di Solidarność, dalla lontana Polonia, commentando i numerosi partiti presenti nell’emiciclo parlamentare italiano, oltre al fatto che i nostri sindacati si fanno pagare per difendere i diritti degli operai. Non tutto, però, è da rifare. Bisogna saper ripartire. Ma da dove? Definito dalla Fallaci e dagli italiani “uno dei pochissimi politici di cui possiamo andar fieri in Italia”, l’autrice ci presenta, in un’intervista pacata e dai toni molto cordiali, una personalità oggi consegnata e dimenticata dalla Storia, Sandro Pertini. Presidente della Camera dei Deputati in quell’epoca, convinto sostenitore dei suoi ideali, dalla parte degli operai e degli oppressi, difensore della libertà e della giustizia sociale, privo di fanatismi e di dogmi, si autodefinì un cattivo politico perché era pieno di umanità, dovendo, in politica, usare freddezza e cinismo, doti che evidentemente non gli appartenevano. Odiava chi aveva conquistato il denaro, il successo e il potere, perché oppresso da frustazione per il vuoto che aveva creato nella propria vita. Un vero faro nel buio pesto di questo nuovo modo di intendere oggi la politica, una grande lezione di eleganza e di onestà, i suoi valori e i suoi insegnamenti rappresentano una vera terapia d’urto contro una terribile malattia degenerativa che sta deprimendo la situazione italiana: il potere! Tommaso Manzillo |
Post n°4 pubblicato il 26 Luglio 2010 da tommaso.mt
Sulle cause della crisi finanziaria scoppiata all’indomani del fallimento di importanti banche d’affari di livello internazionale, propagatasi anche nell’economia reale, molti pensatori hanno offerto le proprie analisi e riflessioni proponendo una visione della società attuale privata, o forse scippata dei propri valori morali ed etici da un sistema produttivo la cui logica è solo quella del raggiungimento ossessivo del profitto nel breve periodo. L’ultimo lavoro del prof. Mario Signore, “Economia del bisogno ed etica del desiderio”, Pensa Multimedia editore, dicembre 2009, pagine 238, Ordinario di Filosofia Morale nella Facoltà di Economia dell’Università del Salento (prima conosciuta come Università degli Studi di Lecce), presenta una nuova chiave di lettura che supera questa tradizionale dicotomia, attraverso un interessante studio sul perseguimento del progresso e dello sviluppo imposti dal modello economico di matrice smithiana, puntando sull’allargamento degli orizzonti del bisogno dell’uomo, con l’ausilio di una vera e propria “tavola dei bisogni” di valenza universale. Nel libro, che si articola in sette capitoli, oltre l’introduzione e le considerazioni conclusive (e provvisorie), l’autore pone al centro del proprio pensiero l’uomo, con la sua caratteristica di “essere debole”, homo fragilis, con i suoi bisogni, intesi come sentimenti di privazione, di mancanza, bisogni intimamente collegati all’essere “uomo” e alla sua natura umana (non c’è bisogno senza uomo e non c’è uomo senza bisogno). Scorrendo le pagine di questo lavoro, l’autore parla dell’uomo non soltanto facendo riferimento all’antropologia, ma anche alla filosofia, alla sociologia, alla fisica, alla chimica, all’economia, alla teologia, chiamando in causa diversi illustri pensatori, anche contemporanei, lungo un sentiero che porta dritto alla dialettica dell’unità della condizione umana. In questo modo, l’intervento del prof. Signore si inserisce in quella appassionante ricerca dell’anello di congiunzione tra l’economia, come mezzo di produzione della ricchezza materiale, e l’etica, intesa come insieme dei comportamenti che consentono all’individuo di gestire la propria libertà nel rispetto degli altri. Schopenhauer avrebbe detto che “ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza” e “per un desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti”, dimostrando come la natura umana non consenta una liberazione totale e definitiva dal bisogno. Spinto dal suo desiderio di appagamento, l’uomo è costretto a uscire dal suo individualismo primitivo, aprendosi all’universalismo, mettendosi in contatto con la realtà esterna con la quale relazionarsi, creando quella divisione del lavoro nella concezione smithiana, che gli consente di liberarsi dal bisogno. Avrebbe detto Adam Smith ne “La ricchezza delle nazioni” (1776) che la maggior parte dei bisogni “viene soddisfatta dal prodotto del lavoro di altri uomini, che egli [uomo] acquista” col prezzo del prodotto del proprio lavoro. Partendo dallo stato di bisogno l’uomo giunge a tessere indispensabili rapporti sociali, che lo portano ad assumersi le proprie responsabilità nei confronti della collettività (che equivale a dire “do la mia parola”, “la mia risposta”), intesa come assunzione dei propri doveri verso gli altri, soprattutto nel rispetto delle libertà altrui. Dalla responsabilità la riflessione del professore si apre al riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, che non sono solo il rispetto della vita biologicamente intesa, ma anche la libertà, la democrazia e la dignità umana. Grazie a queste conquiste, coniugate allo sviluppo della tecnica e della ricerca scientifica, reso possibile dalla straordinaria capacità della propria ragione, l’uomo occidentale ha raggiunto l’attuale livello di benessere, liberandosi dei suoi bisogni primari per avvertirne di diversi e più complessi, cui dare sempre nuove risposte in termini di appagamento e di liberazione. La mancanza di libertà e di democrazia allarga l’analisi alle problematiche del Terzo Mondo, ancora alla ricerca affannosa del soddisfacimento dei propri bisogni primari, di cibo e di cura. Se ogni forma di aiuto umanitario può contribuire provvisoriamente all’appagamento di tali necessità, senza la libertà e la democrazia, coniugate con la diffusione dell’istruzione, si è lontani dallo sviluppo duraturo, non solo economico, ma anche sociale, politico, culturale, rinunciando a perseguire quella liberazione dal bisogno cui ogni uomo, per sua natura, è portato a raggiungere: e qui “la democrazia da formale, statutaria, diventa ‘bisogno reale’” perché essenziale e centrale per “capire la grande ricchezza dei bisogni dell’uomo di oggi”. Contro il modello dell’occidentalizzazione del mondo, riportato in modo esaustivo dal nostro autore, in cui il mercato è visto solo come produzione di beni per l’accrescimento della ricchezza materiale, basato sulla vittoria indiscussa della “quantificazione” e della “monetarizzazione” del capitale, secondo la visione marxista, si associa anche l’economista Partha Dasgupta Sarathi, docente dell’Università di Cambridge, che attacca l’attività economica, i cui modelli di crescita parlano poco di capitale fisico, di conoscenza e soprattutto di capitale umano. Su questo stesso pensiero si inserisce l’intervento di qualche mese fa del Patriarca di Venezia, Angelo Scola, suonando la sveglia all’uomo dell’Occidente, assopito nell’accumulazione del capitale e nell’intreccio delle speculazioni, invitandolo a destarsi dal sonno profondo in cui è precipitata la sua ragione, protagonista del suo apparente progresso, perseguitato dall’obiettivo del raggiungimento di immediati guadagni, fino a perdere di vista le dimensioni proprie della stessa finanza. Per il Patriarca, come per il prof. Signore, “bisogna mettere in campo la domanda sull’uomo e sul suo essere in relazione”, perché le “persone e comunità sono infatti portatrici di bisogni, ma anche di risorse concrete, individuali e comunitarie”, ricordandoci che “la dimensione etica dell’economia e della finanza non è qualcosa di accessorio e di formale, ma di essenziale”. Il legame che propone in questo ragionamento l’opera del prof. Signore è uomo-bisogno-relazione sociale da cui discendono tutti gli altri valori chiave: responsabilità e quindi libertà e democrazia come fattori trainanti lo sviluppo, prima di tutto sociale, e in seguito anche economico, culturale, politico portando il sistema verso il progresso, il benessere e la felicità universale. Lo sottolinea il Santo Padre nella Lettera Enciclica “Caritas in Veritate” (2009) quando afferma, nel richiamare la “Populorum Progressio” di Paolo VI (1967), che “solo se libero, lo sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile esso può crescere in maniera adeguata”. Un ultimo pensiero prima di chiudere il presente contributo va alle giovani generazioni impegnate nella costruzione della società del domani, cogliendo dagli insegnamenti e dagli errori di questa attuale generazione, smarrita dal nichilismo o, quasi a dire dal solipsismo, perché sappiano attuare quella trasformazione del “bisogno di avere”, tipico del nostro modo di intendere l’economia, in “bisogno di essere”, attraverso la diffusione della libertà e della democrazia, mettendosi in ascolto dei bisogni, proprio sull’esempio del nostro autore, dell’uomo debole e fragile, per creare una nuova concezione di sviluppo sociale ed etico, verso il raggiungimento del bene comune e della felicità universale, scopo supremo della repubblica. Per questo riveste grande importanza il lavoro educativo, perché non c’è innovazione senza educazione, che ritorni al centro degli interessi delle famiglie e di tutta la società civile. Secondo il pensiero del nostro autore, diventa determinante “l’approccio al bisogno umano condiviso” che “può divenire una nuova misura per la qualità della vita, che nasce e si muove sul piano morale”, in cui diventa essenziale la valorizzazione dei suoi bisogni nell’ottica della produzione di valore e del valore della ricchezza umana. In conclusione, il lavoro del prof. Signore, può rappresentare una guida per l’azione della nuova classe politica dirigente (di ogni livello istituzionale), perché, mettendo al centro la libertà individuale al servizio della ricerca collettiva del bene comune, possa garantire il “bisogno di riconoscimento”, nell’ottica della globalizzazione dei valori legati alla persona umana, intesi come la solidarietà, la fraternità, l’uguaglianza, per affrontare con maggior senso di responsabilità e in maniera davvero dignitosa le nuove sfide che ci sta preparando questo neonato Nuovo Millennio. Tommaso Manzillo
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Post n°3 pubblicato il 26 Luglio 2010 da tommaso.mt
Le considerazioni finali alla Relazione Annuale sul 2009 del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, dello scorso 31 maggio, fotografano limpidamente la situazione economica nazionale e internazionale ad oltre un anno e mezzo dallo scoppio della crisi finanziaria, con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers e il suo propagarsi impetuoso sull’economia reale. Tale intervento cade successivamente all’approvazione da parte del Governo italiano della manovra 2011-2013 per il riassetto delle finanze pubbliche, intervenendo sul rapporto debito pubblico/PIL registrato lo scorso anno al 115,8% (60% è il limite stabilito dal Trattato di Maastricht) e sul deficit/PIL, abbondantemente oltre la soglia del 3%. La crisi di liquidità della Grecia, l’alta corruzione ivi presente, la precaria situazione anche in altri Stati europei, hanno brutalmente ricordato ai Governi l’importanza del controllo dei conti pubblici e, in particolare, della spesa corrente, perché la sfida che si presenta oggi al mondo economico globalizzato è la perfetta coniugazione tra la disciplina di bilancio e il ritorno sul sentiero della crescita. È abbastanza evidente chi sono i destinatari di tale manovra, ossia la gran massa degli stipendiati pubblici che, con 1.200 euro mensili, devono lottare tra rincari dei generi alimentari e prodotti energetici come benzina, energia elettrica e gas, con possibili ricadute negative, in questa fase caratterizzata da segnali di una timida ripresa economica. Altri provvedimenti per un contenimento della spesa del personale della pubblica amministrazione furono presi con la Finanziaria per il 2007, Legge 296 del 27 dicembre del 2006, dove all’articolo 1, commi da 557 a 562, era già prevista una “riduzione delle spese di personale, garantendo il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale, anche attraverso la razionalizzazione delle strutture burocratico-amministrative”, con riferimento anche a quelle spese per tutti i soggetti a vario titolo utilizzati, senza distinzione del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti capo all'ente. Forse per un falso senso di solidarietà, è stato previsto un taglio anche per le remunerazioni di parlamentari e ministri con reddito oltre 80.000 euro e quello dei funzionari pubblici con oltre 90.000 euro di reddito, ma fruitori, soprattutto i primi, degli svariati servizi loro offerti (auto blu, cellulari, ingressi gratuiti alle manifestazioni culturali o sportive ecc…). Ha destato molto clamore la mancata riduzione del numero delle province, che avrebbe comportato una vera e propria semplificazione amministrativa, con un evidente abbattimento della spesa pubblica e, di conseguenza della pressione fiscale, soprattutto locale. Questa falsa iniziativa è un insulto ai sacrifici imposti ai dipendenti pubblici con redditi bassi, oltre che al buon senso, dato che da anni è in atto una politica che va nella direzione opposta, ossia nella moltiplicazione degli enti locali e società municipalizzate, per collocarvi personalità politiche trombate nelle varie tornate elettorali, e che in tal modo possono godere anche di privilegi e lauti compensi, accontentando la loro fame di potere. Nella manovra governativa, sicuramente necessaria per i conti dello Stato, mancano provvedimenti che vadano nella direzione della riduzione strutturale della spesa pubblica, perché gli effetti si esplicano solo per questo triennio, in cui l’economia è ancora convalescente ed è sulla strada di una lenta ripresa, come afferma l’OCSE. Si poteva osare di più, salvaguardando soprattutto le fasce più deboli. Lo stesso Governatore auspica una politica che vada nella direzione del rilancio della crescita e della domanda interna, attraverso lo stimolo di maggiori investimenti da parte delle aziende private, quelle piccole e medie imprese che formano il tessuto produttivo nostrano, e che hanno sempre saputo trarre importanti lezioni dalle varie fluttuazioni cicliche dell’economia. Per intraprendere questa strada, occorre impostare una seria politica di lotta contro l’evasione fiscale, che erode circa il 2% del Prodotto Interno Lordo, con un mancato gettito, tra il 2005 e il 2008, per l’imposta sul valore aggiunto di circa 30 miliardi di euro, ossia ben oltre l’importo della manovra correttiva in esame. Per questo è stato attribuito maggiore forza al tanto temuto redditometro e alla fatturazione elettronica per importi che superano i 3.000 euro totali. Alla lotta contro l’evasione si accompagna quello contro la diffusione della corruzione dilagante all’interno della stessa pubblica amministrazione, due piaghe sociali che frenano lo sviluppo economico, soprattutto nelle regioni meridionali, come si è avuto modo di scrivere anche su questo quindicinale. La situazione attuale ha fatto si che la pressione tributaria italiana sia più elevata rispetto agli altri Paesi europei, con il cuneo contributivo e fiscale sul lavoro più elevato di cinque punti percentuali, mentre il prelievo sui redditi di lavoro più bassi e sulle imprese risulta di 6 punti più alto. Le linee guida del Governatore tracciano la strada delle riforme strutturali da molti anni evocate e proclamate durante tutte le campagne elettorali, ma la codardia politica e la sete del consenso popolare hanno ostruito il percorso verso tali soluzioni. Manca una seria riforma delle pensioni accompagnata da quella del mercato del lavoro, che sta attraversando diverse difficoltà in questi ultimi mesi. La riduzione delle finestre di uscita per le pensioni di anzianità dimostra che il problema è ancora aperto e che occorre percorrere molta strada prima di giungere a un assestamento definitivo. Sarebbe stato importante inserire una riduzione delle pensioni e delle buonuscite anche per chi ricopre cariche elettive, ma evidentemente il problema non si è posto. “I giovani non possono da soli far fronte agli oneri crescenti di una popolazione che invecchia”, né sarà sufficiente l’apporto degli stranieri, per questo, afferma il Governatore, occorre intraprendere al più presto il sentiero della crescita, in quanto una ripresa lenta accresce la possibilità di uno stato di disoccupazione persistente. La manovra varata da questo Governo è la dimostrazione della dicotomia dell’economia italiana, proprio mentre ci avviamo al traguardo dei 150 anni dall’Unità politica dell’Italia, divisa tra un nord intimamente legato alla Germania e un sud sempre più spinto verso la deriva greca. Da più parti si sente dire che la crescita del nord passa attraverso lo sviluppo del Mezzogiorno, ma mancano iniziative che vadano in questa direzione. I nostri esponenti politici del meridione si sentono solo per provvedimenti, giusti, in difesa del turismo e del territorio, ma non basta questo. Si sentono spesso gli slogan del Grande Salento, di una terra ricca di mille risorse, di tradizioni e di turismo da rilanciare, ma nient’altro. Un Grande Salento senza infrastrutture, senza investimenti pubblici, (le risorse del CIPE per la SS 275 sono solo un accontentino politico) rischia di rimanere isolato e di vivere soltanto sui ricordi di un passato che continua nel presente della Grecìa Salentina. Le lotte politiche dei meridionalisti e dei seguaci dei leader promotori delle istanze del Sud si sono perse nelle logiche partitiche a danno dello sviluppo del nostro territorio. La nostra speranza risiede nel federalismo fiscale, di cui si discute nelle sedi competenti, e auspicato anche nelle considerazioni finali del Governatore Mario Draghi, che sia strumento per l’uso efficiente delle risorse, attraverso un vincolo di bilancio forte accompagnato da un certo grado di autonomia impositiva, e l’epurazione degli amministratori incompetenti potrebbe ritornare utile alle economie degli enti locali. La storia insegna che il popolo, con il suo lavoro e i suoi sacrifici, deve sempre continuare a pagare gli agi del sovrano, i privilegi della casta, le case con “vista Colosseo”. Difficile dare una soluzione di continuità: certo è che, nonostante i buoni propositi, sono sempre gli stessi a presentarsi puntualmente alla cassa. Tommaso Manzillo
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Post n°2 pubblicato il 26 Luglio 2010 da tommaso.mt
Il patrimonio artistico, storico e culturale di Galatina, nel corso dei secoli, si è arricchito di numerosi edifici sacri, molti dei quali dedicati alla Beata Vergine nelle Sue varie denominazioni, a testimonianza della grande devozione del popolo galatinese verso la Madre del Cristo, corredentrice alla salvezza del genere umano. In questo contributo si vuole ricordare il terzo centenario dalla costruzione della chiesa dell’Addolorata, situata lungo il lato nord delle antiche mura, nel cuore pulsante della città, su quella strada prima denominata, appunto, dell’Addolorata o dei Dolori, ma che oggi porta il nome dell’illustre filosofo pedagogista galatinese Pietro Siciliani. La devozione verso l’Addolorata, che si discosta da tutti gli eccessi di teatralità tipici di alcune manifestazioni della Passione del Cristo presenti nel Sud d’Italia, è penetrata sempre più nell’animo e nella pietà del popolo, che numeroso vi accorre e partecipa, con profondo raccoglimento, al Solenne Settenario in onore alla Beata Vergine Dei Sette Dolori (tradizionalmente il venerdì antecedente la domenica delle Palme o della Passione), divenendo, la chiesa, il centro vitale per tutta la Settimana santa e, in particolare, nel triduo pasquale. Diciamo subito che mentre la chiesa è dedicata alla Vergine Addolorata, l’Arciconfraternita ivi presente è denominata “Beata Vergine Maria dei Sette Dolori”, perché appartenente, fin dalle origini, all’Ordine dei Servi di Maria, e di questo abbiamo traccia sull’altare maggiore, dove sono raffigurati alcuni dei fondatori e seguaci dell’Ordine stesso. Della storia dell’Arciconfraternita si avrà modo di parlare, ricorrendo il prossimo anno il terzo centenario dalla sua costituzione (agosto 1711), anche se la sua storia si intreccia con quella della chiesa. È con lo scioglimento della congregazione di Santa Caterina da Siena, presso i Padri Domenicani (chiesa del Collegio, fuori le mura), che nacquero, tra il 1708 e il 1710, la chiesa delle Anime del Purgatorio e la chiesa dell’Addolorata con le rispettive confraternite. Presenta la forma di un parallelogramma sia nella navata centrale, secondo la descrizione del can. Moro, ingresso da via Pietro Siciliani, sia nella navata laterale, ingresso da Piazza Alighieri. La facciata, volta verso mezzogiorno, secondo gli studiosi attribuibile a Giuseppe Cino, come alcune statue situate sull’altare maggiore, riporta, in un ovale posto al di sotto dell’ampia cornice centrale, l’anno di costruzione del 1710. E’ caratterizzata da uno stile elegante e castigato in entrambi gli ordini, quasi a fare da contrappeso alla magnificenza dell’interno, come se quel barocco presente in tutto il Salento e nelle altre chiese di Galatina, qui si sia manifestato in maniera molto lineare e semplice, forse per il gusto degli artefici dell’epoca. Due le caratteristiche da evidenziare: la presenza nella nicchia centrale della statua in pietra leccese della Vergine Addolorata che, con l’andatura del capo e lo sguardo carico di umanità, richiama il volto della Vergine situata nella nicchia dell’altare maggiore. Altro particolare è la mancanza di un portale centrale, bensì due portoni laterali sovrastati da arie riecheggianti la Passione. Entrando, colpisce la visione del visitatore, il bellissimo altare maggiore del 1716, alto quasi dodici metri, unico nel Salento, a dire degli esperti, dove tutta l’arte barocca ha espresso il meglio del suo stile, del suo fascino e grandezza e che fa da contrasto, come si è detto, con la facciata castigata. È rappresentata la Passione del Cristo: in alto la scultura a mezzo busto dell’Eterno Padre che porta sulla mano sinistra il mondo da Lui creato, sormontato da una croce, e con l’altra benedice, compiacendosi, il Figlio Suo. Scendendo, troviamo la tela di scuola caravaggesca del Crocifisso e il Longino, visibile sullo sfondo la cupola del tempio di Gerusalemme, mentre il posto centrale è riservato alla Madre Addolorata ai piedi del Figlio in croce, statua in legno policromo con occhi in vetro, inventariata dalla Sovrintendenza delle Antichità e Belle Arti, in un atto di profondo dolore, lo sguardo struggente rivolto verso Gesù crocefisso, le mani ripiegate sul petto trafitto dalla spada acutissima del dolore, icona raffigurante la profezia di Simeone. Circondano Maria sei putti angelici riportanti tra le proprie mani i segni tangibili della Passione del Cristo. Sono presenti sull’altare le Statue, in pietra, dei protettori della confraternita ivi presente: partendo da sinistra di chi guarda, Santa Caterina da Siena, a testimoniare l’origine della confraternita, il Patrono San Pietro con le chiavi della città, Sant’Antonio da Padova, San Filippo Benizi, Priore Generale nel XIII secolo dell’Ordine dei Servi di Maria, cui la confraternita è affiliata. Dalla destra: Santa Chiara d’Assisi, il compatrono San Paolo, San Pasquale Baylon e Santa Giuliana Falconieri, nipote di uno dei Sette santi fondatori dell’Ordine, sant’Alessio. Per evitare il diffondersi di epidemie e pestilenze, tale splendore fu coperto con calce, ma da diversi anni l’Arciconfraternita si sta impegnando in un lavoro di restauro di questo altare meraviglioso, dopo uno recente che ha interessato le statue laterali (Santa Caterina da Siena e Santa Chiara), per riportarlo quanto più possibile al suo stato originario. La nicchia centrale, dove è custodita la Madonna, è circondata da un cordone intrecciato ricoperto di foglie di oro e argento, come anche altre decorazioni presenti sullo stesso, secondo dei sondaggi compiuti da esperti recentemente. L’intervento, fermo ancora alla fase progettuale perché abbastanza impegnativo, di conservazione e restauro dell’altare, che segue quello recente al tetto e al controsoffitto (anno di costruzione 1756) a cassettoni con stucchi dorati, e alle suppellettili sacre, assume una proporzione più vasta, mirante alla realizzazione di un vespaio, oltre al rifacimento del pavimento, per far filtrare l’aria evitando l’umidità di risalita, causa del deterioramento dello stesso (soprattutto nella parte bassa). Attende ora l’aiuto di quanti possono contribuire alla conservazione di un patrimonio storico, artistico e culturale, appartenente a tutta la città. Prima di abbandonare la zona del presbiterio, bisogna ricordare, qui, la presenza di una nicchia che custodisce un’altra statua lignea della Vergine Addolorata, esprimente un dolore pacato e sereno, solennemente esposta per la memoria liturgica del 15 settembre (giorno della vera festa) con un Settenario, mentre un tempo si soleva svolgere una processione per le vie della città. Vicino alla nicchia si trovano le sedie per i celebranti, anch’esse recentemente restaurate, delle quali, la centrale è degna di essere menzionata per essersi seduto il Santo Padre Giovanni Paolo II durante la sua visita a Otranto nel 1980, in occasione del quinto centenario del martirio idruntino. Arricchiscono la navata centrale le sei tele ovali risalenti alla fine del Settecento, raffiguranti la Via Matris, sottoposte anch’esse all’opera restauratrice portata avanti dall’Arciconfraternita, dopo quella del 1957, con il contributo anche dei fedeli: due sono già state compiute (Il ritrovamento di Gesù tra i dottori del Tempio e Gesù sulla via del Calvario incontra la Madre e le pie donne con la Veronica, situate nella zona del presbiterio), altre due sono ancora nelle mani del restauratore, dott.ssa Alessandra Muci (La presentazione di Gesù al Tempio e La Deposizione, sul cui sfondo è visibile il palazzo ducale di Urbino ed entrambe situate vicino al palco della cantoria), mancherebbero soltanto le due centrali, ossia La Fuga in Egitto e La Crocifissione. Il restauro, ritenuto urgente per il pessimo stato di conservazione delle tele (dissesto dei telai, strappi, fessurazioni e arricciamento delle stesse, ritocchi e stuccature alterate di tono sulla pellicola pittorica), è autorizzato e diretto dalla d.ssa Annunziata Piccolo della Sovrintendenza ai Beni Artistici ed Etnoantropologici della Puglia. Oltre ai quattordici quadretti raffiguranti la Via Crucis, appesi lungo le pareti, sono presenti quattro specchi murali (esistevano ventidue ai tempi del can. Moro) disegnati dal nostro concittadino Pietro Cavoti, come le sedie per i celebranti, in cornice lavorata e decorata in oro zecchino. L’organo ottocentesco collocato su un artistico palco, nel retro spetto della chiesa, è stato donato dai fratelli Baldari nel 1839. Da menzionare la presenza di due altari laterali dedicati a due santi giovani devoti della Madonna Addolorata: San Gabriele dell’Addolorata e Santa Gemma Galgani, per i quali recentemente sono state realizzate due statue custodite nell’altra navata. Nella navata laterale, completata dal 1958 in poi, dove una volta vi erano i giardini della chiesa, sono presenti diverse tele, una delle quali raffigura la Vergine del Soccorso (opera di ignoto), la Deposizione, anch’essa opera di ignoto, l’Assunta, la Pietà e un quadro votivo della Madonna delle Grazie. Collocate in apposite nicchie, troviamo le statue della Passione, ossia quella del Cristo Morto, con un altare costruito per devozione dalla famiglia di Pietro Siciliani, e la Desolata. Questa, artisticamente di poco valore rispetto alle altre, presenta testa, piedi e mani realizzati in gesso, mentre è addobbata con un vestito di raso color nero riccamente ricamato in oro, molto cara alla devozione popolare dei galatinesi, che partecipano numerosi al Solenne Settenario della Quaresima, con la recita dei Dolori e il canto dello “Stabat Mater”, che la tradizione vuole attribuito al nostro concittadino Pasquale Cafaro. Oltre agli oggetti sacri richiamati, sono custodite nella chiesa dell’Addolorata le reliquie di San Paolo della Croce, San Gabriele dell’Addolorata, un frammento del Legno della Croce, una Spina della corona che cinse la testa di Gesù, la reliquia dei Martiri di Otranto e un particolare dell’abito della Vergine. Vi è un prezioso calice in argento finemente cesellato in filograna di scuola fiorentina, risalente al sec. XVIII. Nella navata laterale sono visibili ancora le antiche sedie per i celebranti, restaurate, e sopra una di esse si spense improvvisamente, nel 1952, il Rettore dell’epoca, il canonico don Antonio Carratta, al quale successe, dal luglio dello stesso anno e fino al dicembre del 1970, Mons. Mario Rossetti. Attualmente il Rettore è, da quasi quarant’anni, il Prof. Mons. Antonio Antonaci. Tommaso Manzillo
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Post n°1 pubblicato il 26 Luglio 2010 da tommaso.mt
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In quell’occasione avevamo anche sintetizzato i possibili scenari futuri sul sistema pensionistico italiano e sulle opportunità nel mondo del lavoro alla luce del rapporto del C.N.E.L., mettendo in evidenza il contributo decisivo degli stessi immigrati. L’ISTAT ha recentemente pubblicato l’ultimo rapporto demografico sulla popolazione italiana alla fine del 2009, mostrando un aumento di 295.260 abitanti, raggiungendo la cifra di 60.340.328, e confermando la tendenza in atto da diversi anni sul calo naturale della popolazione italiana (-22.806), con un saldo migratorio con l’estero decisamente positivo (+362.343). Il rallentamento delle migrazioni avuto nel 2009 rispetto al 2008 (saldo +453.765) è dovuto principalmente alle varie leggi varate dal Governo italiano nel corso degli anni, al rallentamento di quel fenomeno di spostamento della popolazione europea, all’indomani dell’allargamento della zona Euro ai Paesi dell’Est, oltre che conseguenza della crisi economica globale. La popolazione straniera che è arrivata nel nostro paese ha preso la direzione soprattutto delle regioni centrali e settentrionali, dove ha avuto più possibilità di trovare un posto di lavoro. Se proviamo a spostare l’analisi nella provincia di Lecce, si ripete la tendenza vista a livello nazionale, per quanto riguarda il saldo naturale, negativo per 467 unità, con un forte calo nel numero di nascite (-298) e un aumento nel numero dei decessi (+70), mantenendo la seconda posizione nella classifica demografica regionale, dopo Bari (1.604.093) e prima di Foggia (682.765), Taranto (580.525) e Brindisi (403.096). È decisivo il contributo degli immigrati per la crescita della nostra provincia, con un saldo migratorio con l’estero pari 1.976, anche se il loro apporto ha mostrato un lieve cedimento rispetto al 2008 (saldo pari a 2.053). Alcune curiosità. La popolazione del Salento, comprendendo le province di Lecce, Brindisi e Taranto, risulta, al 31 dicembre dello scorso anno, pari a 1.797.177, risultando essere la prima della Regione Puglia, superando abbondantemente la provincia del capoluogo Bari (negli slogan del tanto decantato Grande Salento, un unico territorio con le medesime condizioni geofisiche, con un popolo che esalta le sue origini messapiche, la sua cultura e tradizioni greche-bizantine, ma diviso in tre province, prive di una politica unitaria di sviluppo e crescita nel lungo periodo). Una seconda curiosità riguarda l’assenza, nelle statistiche dell’ISTAT, della sesta provincia pugliese, la BAT (Barletta-Andria-Trani)! Contro questi dati, la nostra città continua a vedere un lento e progressivo calo della sua popolazione, che al 31 dicembre del 2009 risultava pari a 27.317 abitanti, contro 27.456 del 31 dicembre del 2008 e 27.574 del 31 dicembre del 2007, mantenendo la terza posizione in provincia dopo Lecce e Nardò. Anche a Galatina il saldo naturale nel 2009 è stato negativo (-56) mentre l’andamento migratorio con l’estero è risultato lievemente positivo per 19 unità, ma nel 2008 tale numero era quasi il triplo (+52). Cala il saldo negativo migratorio con gli altri comuni (-146 nel 2008 e -102 nel 2009), ma la tendenza è quella di un deciso allontanamento da Galatina, soprattutto per motivi di lavoro, ma non solo. Se si guarda lo spostamento della popolazione all’interno della provincia di Lecce, si nota che diversi comuni come Maglie (la cui popolazione al 31 dicembre del 2009 è scesa sotto la soglia dei 15.000 abitanti), Caprarica di Lecce, Cannole e Zollino, vedono diminuire il numero della propria popolazione a vantaggio di Ugento (+1.0%), Martignano e Melendugno (+1.17% per entrambe), Lizzanello (+2.35%), Giurdignano (+2.21%), Arnesano (+2.56%) e Cavallino (+1.18%). I nostri comuni limitrofi vedono un aumento della popolazione di Soleto (+0.7%), Galatone registra un -0.5%, così come lievemente negativo il saldo del comune di Sogliano Cavour, mentre lievemente positivo è Corigliano d’Otranto. Questi dati dimostrano come i flussi migratori all’interno della nostra provincia siano molto forti a vantaggio di quei comuni, che sicuramente si vedono premiati per una politica attiva e a vantaggio del proprio territorio, cosa che certamente è mancata per Galatina, in cui proprio la politica è stata la grande assente per diversi mesi (da agosto 2009 fino a maggio del 2010 con l’insediamento della nuova Giunta guidata dal sindaco dott. Giancarlo Coluccia). Quando era presente, però, non ha certamente prodotto molti frutti, dato che la tendenza all’abbandono di Galatina nasce anni addietro, e, forse, non ci si è mai interrogati sui motivi e sui rimedi da attuare per diventare, nuovamente, il centro polarizzatore del Salento. La popolazione delle province salentine è in continua crescita, anche se il contributo maggiore proviene dalle forze straniere, mentre quella di Galatina è ancora in calo, segno evidente di uno stato di abbandono della città, a causa della lontananza della politica dalle esigenze della sua popolazione, una politica chiusa nei palazzi, ancora incapace di diventare protagonista della storia di questa città. I motivi possono essere diversi, e uno su tutto è certamente il lavoro (basti pensare soprattutto ai tanti laureati galatinesi che sono costretti ad emigrare altrove per sbarcare il lunario). Se si analizzano questi dati in base all’età, si può notare che il 15% della popolazione è ultrasettantenne, e ciò comporta l’esigenza di una politica fatta di più servizi a vantaggio della terza età. Ritorna attuale il richiamo del direttore di questo giornale nell’editoriale al n. 3 del 13 febbraio 2009, “lo stomaco e il cuore”, affinchè ritorni al centro dell’attenzione la politica per la famiglia (il 14% della popolazione ha meno di 14 anni), punto di riferimento della società del domani, con più servizi per le giovani madri lavoratrici (vedi il rapporto Italia 2020 dei ministri Sacconi e Carfagna, commentato anche su queste colonne), e soprattutto per i giovani (il 18% ha un’età compresa tra i 16 e i 30 anni). Serve una politica fiscale di vantaggio per le imprese e i percettori di reddito medio bassi (nel 2010 si registra un aumento della TIA, mentre l’aliquota dell’addizionale comunale all’IRPEF è su livelli piuttosto insostenibili). Maggiore attenzione meritano i giovani, soprattutto coloro che studiano lontano dalla città, perché possano contribuire alla rinascita del territorio, con il proprio bagaglio culturale, attraverso percorsi formativi per l’ingresso nel mondo del lavoro, ma anche per offrire loro momenti di svago e di incontro relazionale, senza dover vagare in giro per la provincia perché qui “non c’è niente da fare”. Il discorso si potrebbe anche riguardare il rilancio del nostro presidio ospedaliero “Santa Caterina Novella”, soprattutto in vista del nuovo piano sanitario preparato dalla Giunta Regionale di Nicky Vendola e dall’assessore alla Sanità, Tommaso Fiore. Non serve solo la (promessa) riapertura di reparti chiusi da altrui fazioni politiche, ma il rilancio deve riguardare le professionalità impiegate e la qualità dei servizi offerti nel loro complesso, non solo dal punto di vista medico. I dati sull’andamento demografico di un Paese come di una città sono anche il sintomo e il risultato delle politiche adottate nell’amministrazione della cosa pubblica, che si ripercuotono sulla qualità della vita percepita dai suoi abitanti, e devono, perciò, essere lo spunto per interrogarsi sui motivi che hanno indotto molti a lasciare la propria città per altri comuni vicini, per trovare quelle politiche che diano a Galatina più visibilità all’interno della stessa provincia, per il benessere della città intera e non solo di pochi privilegiati al potere. Il ritorno della politica a palazzo Orsini può essere l’occasione per riprogrammare il nostro futuro, ritornando su un sentiero di crescita che era la caratteristica di Galatina, una crescita non solo demografica, ma anche economica e sociale. Tutto ciò potrebbe accadere, solo se questa politica al potere abbia almeno la capacità di porsi tali domande! Tommaso Manzillo |
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