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Post n°25 pubblicato il 29 Maggio 2013 da fradolcino99

Fabbriche senza padrone in Italia

La crisi del capitalismo presenta il conto salato ai lavoratori di tutto il mondo. Che a volte si ribellano, occupano e recuperano gli stabilimenti abbandonati attraverso cooperative. È già accaduto in Italia e dieci anni fa in Argentina. La storia oggi comincia a ripetersi. I casi qui segnalati dimostrano che mentre i padroni dipendono dai lavoratori, non è sempre vero il contrario.

di Gianluca Carmosino e Gianni Belloni

Gli operai di D.&C. Modellaria di Vigodarzere, pochi chilometri da Padova, progettano e realizzano costruzioni di modelli per fonderie, in legno, resina, alluminio, ghisa e acciaio. Lo fanno grazie a saperi artigianali accumulati in trent’anni e all’uso di moderne tecnologie. I loro colleghi della Calcestruzzi Ericina Libera di Trapani invece producono materiale per edifici. Lo fanno utilizzando un impianto di riciclaggio di materiali destinati alla discarica. Per motivi diversi le due aziende hanno cambiato padrone: nel primo caso un imprenditore, nel secondo la mafia. Oggi sono gestite da cooperative composte da operai (qui un’intervista a un dipendente della vecchia azienda ora nel Cda della nuova cooperativa). Entrambi i casi dimostrano che mentre i padroni dipendono dai lavoratori, non è sempre vero il contrario.

Quelli segnalati sono due esempi di «workers buyout», il fenomeno delle fabbriche recuperate. Nel 2010, dopo il fallimento della Modelleria Quadrifoglio, i 12 ex lavoratori dell’azienda sono diventati cooperatori con il supporto finanziario di Legacoop-Veneto: hanno rilevato l’attività utilizzando l’anticipo dell’indennità di mobilità, come previsto dalla legge 223 del 1991 per intraprendere l’attività in cooperativa. Tutt’altro il contesto della Calcestruzzi Ericina: confiscata alla mafia nel 2000, l’azienda è stata gestita in amministrazione giudiziaria fino al 2009, quando è stata consegnata, come prevede la legge sull’uso sociale dei beni confiscati (109/’96), a una cooperativa di 6 soci, già lavoratori dell’azienda prima del sequestro.

Casi isolati? Fino a un certo punto. A Scandiano, provincia di Reggio Emilia, la cooperativa GresLab è nata dalle ceneri della ex-Optima spa, industria operante nel settore della ceramica. L’azienda in liquidazione è stata salvata dai 40 operai che si sono costituiti in cooperativa, con il supporto di Legacoop Reggio Emilia e il finanziamento di Banca etica. Dal 1994 al 2000 gli interventi di questo tipo deliberati da Coopfond, il fondo mutualistico che promuove la nascita di cooperative, erano stati 16. Le imprese cooperative tuttora attive sono 7. Secondo una rilevazione di Legacoop del 2011, dal 2008 i workers buyout presentati sono stati 24: 3 sono stati respinti, per mancanza di requisiti, 2 sono in lavorazione, 19 sono stati approvati (8 in Toscana, 6 in Emilia Romagna, 2 in Veneto, 1 nelle Marche, nel Lazio e in Lombardia). «A volte capita anche che alcune aziende non ce la fanno, perché i lavoratori non sanno cosa sia una cooperativa e non riescono ad andare avanti – racconta Aldo Soldi, direttore di Coopfond, a Rassegna sindacale (8/2012) – ma finora grazie a Coopfond abbiamo salvato quattrocento posti di lavoro e soprattutto mestieri, visto che spesso si tratta di ditte piccole che lavorano in settori di eccellenza».

Interessante il caso delle fonderie Zen, una fabbrica con 141 dipendenti ad Albignasego, anche questa nel cuore del mitico Nord est. Qui vengono fabbricati componenti per auto e macchine agricole. Si tratta di uno degli stabilimenti del gruppo di Florindo Garro che nel 2008 contava più di 3mila dipendenti e un fatturato di 510 milioni di euro. Dopo due anni di amministrazione straordinaria, il destino segnato era quello dei libri contabili in tribunale, della chiusura dello stabilimento e dello sgocciolare dei mesi di cassa integrazione. La raccolta di quote tra i lavoratori – una parte della liquidazione, per un massimo di 2mila euro a testa –, la costituzione della cooperativa con un capitale sociale di 250 mila euro e la parallela costituzione di una srl, tra i dirigenti dell’azienda, hanno mutato il corso degli eventi. La cooperativa e la società dei dirigenti hanno avanzato la proposta d’interesse per l’acquisizione della società, la proposta è stata valutata positivamente dal ministero e ora restano solo pochi mesi e alcuni passaggi burocratici in vista dell’acquisizione ufficiale da parte della nuova società. La produzione sarà governata da una società a responsabilità limitata con una quota di maggioranza in mano alla società degli ex dirigenti, ma alla cooperativa dei lavoratori spetta una quota intorno al 15 per cento.

Insomma, esiste un presente ma anche un passato, poco noto, di aziende italiane rilevate, spesso adottando la forma cooperativa, dai lavoratori. Un fenomeno relativamente diffuso negli anni ’70 a seguito dell’esplodere della crisi petrolifera. Sempre in provincia di Padova, aziende metalmeccaniche come la Zetronic oppure la Capica furono salvate dalla gestione operaia. A servizio delle aziende autogestite si formarono, alla fine degli anni ’70, in diverse città del nord – Verona, Venezia, Milano, Torino, Reggio Emilia – le Mag, cooperative di autogestione finanziaria ancor oggi operanti.

Tra i casi analoghi più recenti altri due riguardano sempre l’Emilia Romagna. Il primo è un’azienda di Savignano sul Panaro (Modena), dove 9 addetti di una srl che da cinquant’anni anni produce parapetti in pvc, oggi in fallimento, hanno rilevato l’attività e proveranno a ripartire. A Bibbiano (Reggio Emilia), 61 lavoratori (su 87) della Rossi Iames in liquidazione hanno scelto la forma cooperativa per prendere in affitto un ramo d’azienda e continuare l’attività: si occuperanno di controllo qualità e verifiche tecniche sui tessuti.

Buone notizie anche al sud: Esplana Sud di Nola (Napoli) è un’azienda di imballaggi per ortofrutta, la cui proprietà ha mandato in cassa integrazione i 120 tra operai e operaie. Che per protesta hanno occupato per cinque mesi i capannoni e promosso il progetto per l’autogestione. L’azienda, nel frattempo, veniva messa in liquidazione. Lo scorso aprile Carovana Coop, nata grazie a 40 ex dipendenti che hanno investito il loro trattamento di fine rapporto e l’indennizzo di mobilità, ha rilevato l’ex Esplana. «La nuova azienda avrà un carattere solidale – si legge in una nota diffusa dai dipendenti per presentare la cooperativa –, basato sull’obiettivo comunitario del mutuo soccorso, affinché il proprio apporto lavorativo e le competenze maturare negli anni siano di aiuto per l’intera gestione dell’azienda».

Dalla Campania alla Sicilia: 32 ex lavoratori del Cantiere Navale di Trapani, licenziati nel dicembre 2011, hanno promosso per otto mesi una campagna di raccolta fondi terminata con la costituzione della cooperativa Bacino di Carenaggio, come del resto avevano fatto qualche anno prima quelli della Cooperativa Cantieri Megaride di Napoli. L’azienda napoletana insieme alla cooperativa di ceramiche Cesame di Catania (dove i lavoratori hanno acquistato una parte della vecchia azienda con i contributi della cassa integrazione) sono state raccontate da «Padroni del proprio destino», un documentario di Mario Sanna realizzato per Rainews24.

E ancora: i lavoratori di Art lining di Reggio Emilia, specializzati nella produzione di interni per cravatte, si sono costituiti in cooperativa dal 2008. I 3 soci fondatori sono gli ex dipendenti di Lincra srl.

Quelli della Vetreria di Empoli producono invece vetro soffiato. Il loro mestiere è sempre più raro: per questo i lavoratori hanno avviato il workers buyout, ma anche una scuola di formazione per giovani. Sempre in Toscana, ma a Colle Val d’Elsa (Siena), c’è la tipografia Cooprint, messa su nel dicembre del 2010 da 13 soci, che hanno rilevato le attività di una storica azienda toscana, Alsaba grafiche, da trent’anni nel settore della produzione tipografica e editoriale. Una delle fabbriche recuperate toscane degli anni ’90 è invece la cooperativa Ipt (Industria Plastica Toscana) di Scarperia (Firenze): producevano sacchetti e pellicole per pane, oggi hanno anche avviato un processo di conversione ecologica e si preparano a realizzare shopper biodegradabili.

Altri casi più o meno recenti di imprese recuperate in Italia sono segnalate su «Senza padrone» (ed. Gesco/Carta, 2007) e riguardano la Gommus di Montecarotto (Ancona), i Cantieri navali Megaride di Napoli, la Nuova Coop Torcoli di Corciano (Perugia) e la Coopsole di Senigallia (Ancona).

Ma perché sono importanti le fabbriche recuperate? Fabián Pierucci, uno dei promotori nel 2001 del movimento dei disoccupati argentini, e che oggi lavora all’hotel (occupato e recuperato) Bauen di Buenos Aires, dice che l’aspetto più importante delle fabbriche recuperate, è la «possibilità di costruire un nuovo immaginario» che mette in discussione la logica della proprietà privata. Di sicuro, le aziende recuperate si sono rivelate uno dei progetti più durevoli che sono emersi dalla crisi argentina, come raccontano The take, il noto documentario di Naomi Klein del 2004, e diversi libri (tra cui, «Sin patron», a cura del collettivo di giornalisti La Vaca, edito da Carta e Gesco, e il più recente «Lavorare senza padroni», di Elvira Corona, Emi). Dal 2001 in Argentina si sono formate  almeno 205 aziende  recuperate e oggi sono tutte funzionanti: vanno dalle fabbriche di cioccolata e di scarpe a quelle di macchine da stampa, fino agli alberghi. La più grande  azienda  recuperata del paese, la Zanon, una fabbrica di mattonelle occupata nel 2001 e ribattezzata Fasinpat (abbreviazione dell’espressione «fabbrica senza un padrone»), oggi dà un lavoro dignitoso a 470 operai nella provincia di Neuquén. Scrive Francesca Fiorentini, giornalista argentina: «Questi movimenti hanno lasciato un segno nel paese. Anche se forse non hanno ottenuto tutto quello che avevano sperato, essi hanno spostato i limiti dell’immaginazione politica e hanno mostrato la capacità creativa di persone comuni in situazioni straordinarie».

Secondo Raúl Zibechi, scrittore e giornalista, autore di numerosi libri e articoli sui movimenti latinoamericani, la fabbriche recuperate argentine dimostrano che gli operai sono in grado di modificare in modo autonomo l’organizzazione del lavoro e tessere relazioni solide con i territori e con altre imprese recuperate. «In diverse fabbriche sono stati creati laboratori culturali, radio comunitarie e spazi di dibattiti e scambi, riuscendo talora a creare reti di distribuzione ai margini del mercato». In queste iniziative il lavoro alienante non è più la forma dominante, grazie alla rotazione delle mansioni e alla consapevolezza acquisita dei lavoratori. E quasi sempre la produzione di merci per il mercato (valore di scambio) è subordinata alla produzione del valore d’uso. Di fatto, quelle fabbriche non vendono al mercato, dato che hanno consolidato relazioni di fiducia con clienti fissi, e in questo modo schivano anche l’ansia di accumulazione. Il paradigma tradizionale del lavoro viene quindi messo in discussione.

Tutto questo sarà vero anche per le nuove imprese recuperate in Italia, per le più di dimensioni medio-piccole? Non lo sappiamo. Un pezzo di società e del mondo del lavoro è comunque in movimento. La strada dei lavoratori senza padrone, meglio ancora se intrecciata con quella della conversione ecologica, apre orizzonti incoraggianti.

 
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