Creato da uomosenzaqualita il 04/11/2012

L'uomo senza qualità

Un comune caso di personalità multipla

 

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Photos

Post n°39 pubblicato il 21 Novembre 2013 da uomosenzaqualita

 

 

 

Si resta fissi, talvolta, a scrutare la fotografia di qualcuno a noi vicino che, allontanatosi o già morto, potrebbe scomparire del tutto dalla nostra mente, se la sua immagine non fosse stata fissata sulla carta fotografica. Allora è tutto un osservare increduli, doloroso, un percorrere con le dita la superficie della stampa, e oltre essa, oltre la vicenda, la nostra storia, viso contro viso, fruscio con fruscio nei segni della mancanza, che ora ricompare oltre il disorientamento di quando accadde, nella fotografia che ripropone quella fissità, “fermata" per la scaltrezza dell'otturatore.

Forse quel viso l'avevamo già descritto in lunghe pagine nel tentativo di conservarlo con le parole, noi "malati" di descrizioni, noi timorosi dell’immagine che arriva incontrollabile dritto al centro delle emozioni.

Ma la fotografia ha il sopravvento, qui la sua possibilità è tentacolare per compiutezza di descrizione, provocatoria, appunto per la sua immediatezza nel suscitare l'emozione.

In questo la fotografia ha la meglio sulla scrittura, poiché l’interpretazione della fotografia, di ciò che rappresenta, il suo posto nel nostro mondo interiore, avverrà a posteriori, mentre nella scrittura tutto questo avviene prima della scrittura.

Si potrebbe dire che la fotografia qui batta sul tempo la scrittura se non fossimo preda poi dell'incertezza della buona riuscita, data la velocità con cui abbiamo dovuto decidere contemporaneamente l’attimo, il soggetto, l'inquadratura.

Sui fogli bruciamo tempo a pensare, a decidere, a limare, mentre con l'apparecchio fotografico siamo in lotta con il tempo, lo vorremmo precedere, giungere ancor prima del gesto, dell'avvenimento, tale è l'insicurezza del risultato.

E' quindi quasi senza pensare che si manifesta lo scatto, frutto però di un pensiero precedente, distillato spesso inconsapevole di comportamenti, convinzioni, etiche, preferenze, inclinazioni.

Se nella scrittura noi non ci scordiamo (pur volendolo, e anzi nel mio caso agognandolo) di noi stessi, in fotografia scompariamo per lasciar posto ad altro, agli altri. Ci annulliamo. Di noi parlerà in un secondo tempo l'immagine divenuta, rivelata nella sua veste di testimone, e quindi anche nostra testimonianza.

Come il linguaggio scritto è elaborato, spesso spogliato della sua spontaneità (come per le cose che sto scrivendo ora) dall'esercizio e dalla recitazione, così la fotografia, fuori dalle viscosità dell'indecisione, libera tutto ciò che sa di vita al centesimo di secondo, è autentica, inappellabile e, pur riproducendo il "reale", essa, insieme a quel "reale", non ci appartiene più.

L'amplesso è breve, e sapremo poi, in retrospettiva, se esaltante o di maniera.

Nella scrittura, tra le pagine di un libro torna evocativamente, pagina dopo pagina, il percorso emotivo che ha deciso l'opera, mentre nella fotografia esso è invisibile, introvabile.

L'emozione che il contenuto dell'immagine potrà suscitare sarà fulminea, a volte soffocante, separandosi così di netto dalla parola scritta che, invece, propone un'emozione "ragionata", progressiva, scandita dal tempo per raggiungere ogni singola parola, associarla alle precedenti, ipotizzare le successive e confermare il senso a frase compiuta.

Al contrario, nella fotografia, nulla ci farà conoscere il "cammino", quasi sempre ignoto anche al fotografo stesso, che ha portato ad una data immagine (lasciando libera la sola immaginazione).

A volte disorientati davanti ad un'immagine fotografica, cerchiamo certezze, anche se la certezza che propone l'immagine sarà tutta nell'immagine stessa, e nemmeno sarà nel momento in cui osserveremo tale immagine, poiché questa sarà già vecchia (anche se di un solo minuto, ma già vecchia).

Essa avrà rimediato a questa sua rapida decrepitezza (ci avrà risarcito) con la possibilità di farci vedere e rivedere qualcosa, avrà appagato la nostra esigenza di vedere ed esserci, in qualche modo, questo sì, saziando il bisogno dei nostri occhi, il bisogno di testimonianza e di testimoniare.

Il contenuto della fotografia, dunque: congelato nell'immagine di se stesso, a volte bellissimo e inespugnabile, resistente persino alle moderne tecnologie di post-produzione, ad ogni adulterazione che queste rendono possibili.

Tutto è fermo al momento dello scatto. Il tempo ha fermato l'evento nel momento del suo inizio e della sua fine, e con esso la vita.

Così mi sembra la fotografia che pubblico con questo post, che è indubitabilmente mia, essendo un fotogramma di una pellicola del mio archivio, ma che produce in me una vertigine di straniamento, come se mi sdoppiassi e osservassi me stesso nell’atto di osservarla.

Perché tutto ciò che ho fissato su emulsioni di sali d’argento ieri, e su aree di materiale magnetizzabile oggi, rappresenta la realizzazione di una realtà non più realizzabile, qualcosa di astratto, di concettuale.

Dunque, riproduzione fuori dal tempo già nel tempo dello scatto e, ogni volta che guardo una mia fotografia, nei miei occhi c’è la riproduzione della riproduzione.

E presuntuosamente m’illudo che anche gli altri, che l’Altro da me, osservandola a sua volta, approdare sì ad un risultato statico, ma perso continuamente nel tempo, fosse anche lucidato solo dalla fascinazione indescrivibile che permane in quell'immagine, evocatrice di se stessa ma anche di molto altro.

E così, nel disincanto, nello "stato di grazia" di una perduta realtà, dove la realtà già morta della fotografia muore di nuovo ogni volta ai nostri occhi, nasce il bisogno di una non-realtà, di una netta esclusione nostra dalla realtà.

Di un abbandono dunque, o nel mio caso più probabilmente di una fuga.

E infatti, sempre più spesso forse a causa dell’età, senza spazio e senza tempo nel presente, mi lascio fluttuare nell'indeterminatezza, nel virtuale, per usare termini più attuali ma forse anche più abusati.

Ciò che riesce a lenire il mio senso di costrizione insomma, null’altro è se non una copia di una realtà fortunatamente, per me e per chi mi ama, intoccabile.

Forse è per questo che devo ammettere, peccando di poca umiltà, che fotografare mi riesce discretamente.

A volte credo davvero di poter vedere quell'aura che intreccia spazio e tempo, che mi allontana dal reale e nello stesso tempo permette il continuo cambiare della mia fotografia, dal colore al bianco e nero, dai paesaggi ai ritratti, dal glamour alla vita di strada, dal nudo all’architettura, dalle istantanee alle foto di posa.

Come mi piacerebbe, come sanno fare i grandi veri fotografi, riuscire anch’io a leggere ogni fotografia al di là del solo reale, al di là del filtro, dell'azzardo fotografico, nel silenzio chiuso-di un ritratto, o di piano all’infinito.

 

 

 

P., novembre 2013

 
 
 
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