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Più forte del male

Post n°3522 pubblicato il 29 Gennaio 2021 da namy0000
 

Io, Joy, più forte del male che ho subìto

Joy, in inglese gioia. Sua madre aveva scelto per lei questo nome perché la sua nascita era stata un dono, una luce in quella stanza poverissima che ospitava la sua famiglia a Benin City, in Nigeria. Un nome che le è stato strappato via. Schiacciato senza pietà, da parte di chi voleva ridurre in pezzi il suo corpo e la sua anima. Eppure, nel calvario che l’ha portata via dall’Africa, attraverso il deserto, i lager libici, la tratta e la schiavitù in Italia, Joy ha difeso con coraggio la sua identità, aggrappandosi a una fede incrollabile.

 

Mariapia Bonanate, giornalista, scrittrice, editorialista di Famiglia Cristiana, un giorno visita Casa Rut e nel New Hope store, il negozio in cui si vendono i manufatti variopinti creati nella sartoria etnica incontra il sorriso di Joy. La storia di quella ragazza le entra nel cuore. E nasce il desiderio di raccontarla in un libro: Io sono Joy. Un grido di libertà dalla schiavitù della tratta (San Paolo edizioni). Joy ci restituisce la sua drammatica esperienza di viaggio, con la semplicità dei testimoni che, raccontandosi, danno voce a Dio: in ogni dettaglio della sua storia, infatti, Dio le è accanto, come un protagonista nascosto, silenzioso, ma non per questo inerte nelle vicende narrate.

Solamente dopo il suo approdo in Italia, Joy ha scoperto di essere stata ingannata e di essere caduta nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Questi percorsi di disumanizzazione sembrano presentare una costante nella loro “genesi”, nel modo in cui hanno inizio: l’essere costretti a lasciare il proprio Paese d’origine, per andare a infoltire le periferie delle grandi metropoli. Dispersi nell’anonimato, questi “invisibili” smarriscono progressivamente quei punti di riferimento identitario che li ancorano alla propria cultura (…). Nel suo cammino verso la libertà, Joy ci indica due realtà fondamentali: anzitutto, la fede in Dio che salva dalla disperazione….

 

Joy accetta. «Ho visto tante donne sulla strada, che soffrono, che hanno perso la loro vita. Cosa posso fare per loro?», spiega. «Io pensavo che la mia vita fosse finita, invece sono rinata. Il mio desiderio è dare una speranza alle altre donne. Anche se morissi domani, sono contenta di aver lasciato qualcosa di buono per gli altri».

 

Joy oggi ha 27 anni. La sua via crucis è cominciata nel febbraio 2016, raggirata in casa da persone a lei vicine: dall’Europa arrivano notizie delle tragedie del Mediterraneo, della fine a cui le migranti africane spesso sono destinate. «Chi vive nei villaggi sperduti non ha modo di informarsi, pensa che l’Europa sia un paradiso. Ma nelle città le notizie arrivano. Il problema è che a ingannarti spesso sono persone molto vicine, magari della tua famiglia. A volte le sorelle mandano le sorelle, le madri chiamano le figlie in Europa. Nel mio caso, è stata una pastora della nostra chiesa che mi ha fatto il lavaggio del cervello e mi ha convinta a partire». In Nigeria, osserva Joy, i diritti umani vengono calpestati. «La donna non vale niente, deve stare relegata in cucina e fare figli. Viviamo come schiavi nel nostro Paese, prede dei trafficanti di esseri umani».

 

Lasciata la Nigeria, Joy si ritrova inghiottita in un vortice infernale: in Libia viene deportata da un campo di detenzione all’altro, abusata dai trafficanti arabi, stuprata tante e tante volte, straziata, comprata e venduta come merce di scambio, schiava del sesso. Poi, la traversata su un barcone, l’arrivo in Italia. A Castel Volturno (Caserta) comincia «una seconda Libia», anche peggiore della prima, perché la persona che qui avrebbe dovuto proteggerla, la madam nigeriana, si rivela un’aguzzina che la ricatta e la manda sulla strada a prostituirsi. Per soggiogare le ragazze i trafficanti nigeriani usano anche l’arma dei riti voodoo. «È la nostra religiosità animista tradizionale», spiega Joy, «radicata anche fra i cristiani. Ma le persone cattive ne abusano per manipolare gli altri».

La madam le affibbia il nome di Jessica. «Non ero più una persona, io non esistevo più». Joy ripercorre quei mesi terribili, gli uomini che si prendono ciò che vogliono e si voltano dall’altra parte quando lei prova a chiedere un aiuto. «Spesso se ne andavano senza pagare. Nessuno di loro ti chiedeva chi sei, perché eri lì sulla strada». Gli uomini: se si tocca questo argomento, lei si rifugia nel silenzio. Troppo profonde le ferite che tanti le hanno inferto. «Quando cammino per la strada sono diffidente, avverto gli occhi su di me e ho paura. Non mi fido. Non so se riuscirò mai a fidarmi di nuovo».

Ma è grazie a un mediatore culturale africano che lei è riuscita a rivolgersi alla polizia, a liberarsi dalle catene della schiavitù, a denunciare. A Casa Rut l’hanno accolta a braccia aperte, guardata con amore, ascoltata, mai giudicata. A piccoli passi Joy ha riconquistato fiducia in se stessa. Lavora e studia. È forte, determinata: «Vorrei studiare psicologia. Fin da bambina ho sempre avuto il dono di aiutare gli altri. Portavo la croce al collo e parlavo alle persone del Vangelo. A un certo punto ho anche pensato di diventare suora: “Aspetta, ci sono tanti modi per aiutare le persone, anche senza prendere i voti”, mi hanno detto. Dio mi ha dato la forza di sopportare tutto. Fin da piccola ho sempre saputo che il mio cammino sarebbe stato sofferto. Ma oggi ho raggiunto ciò che desideravo, sono ciò che volevo essere. Oggi sono felice».

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