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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

 

Le battaglie di Gabriella

Post n°4019 pubblicato il 29 Maggio 2024 da namy0000
 

2023, novembre

Le battaglie di Gabriella S. per i diritti dei detenuti

Per 24 mesi ha ascoltato – prima con incredulità, poi con sconcerto, infine con indignazione – le denunce dei detenuti del carcere romano di Rebibbia. Le parlavano di latte allungato con l’acqua, di fondi di caffè utilizzati più volte, di frutta e verdura marce, di scatole di provviste scadute. Poi ha scritto un dossier di 170 pagine e l’ha consegnato alla procura della Repubblica. Nell’incontro con i magistrati, ha portato con sé una confezione di salsicce, acquistate a caro prezzo, come sopravvitto, da un detenuto: per il 90 per cento erano composte di grasso, tinto con un colorante rosa per somigliare alla carne.

Romana, 62 anni, Gabriella S. è stata per sei anni la garante dei diritti delle persone private della libertà nella capitale. L’aveva nominata, nel giugno 2017, la giunta della sindaca Cinquestelle Virginia Raggi, scegliendola tra ventotto candidati. Se da un anno la magistratura romana indaga sul vitto servito nelle carceri, il merito è suo. E si deve a lei se lo sconcertante prezzo d’appalto (2,39€ per fornire colazione, pranzo, cena a ogni detenuto) è stato aumentato a 3,90€.

Al carcere, Gabriella S. si dedica da anni. Delle sue due lauree – in lettere e in scienza dell’educazione – una la concluse scrivendo una tesi su “il carcere come regolatore della società”.

Atleta con una lunga storia di competizioni e di vittorie, maratoneta che ha cinto la fascia azzurra nelle Universiadi di Zagabria, prima donna alla guida di una federazione sportiva, ha anche organizzato la prima corsa in un carcere nel 1994, a Rebibbia. Racconta: «Lavoravo per l’Uisp (Unione italiana sport per tutti), che ogni anno teneva una gara, il Vivicittà. Mi scrisse da Rebibbia un ragazzo che anni prima correva con me aui campi dell’Acqua Acetosa: entrato nelle Brigate Rosse, per qualche anno era fuggito all’estero e nel 1983 si era costituito. Non aveva mai smesso di allenarsi, mi disse, neppure in cella, e mi chiese di organizzare Vivicittà a Rebibbia. Questo è matto, pensai. Ma andai a parlare col direttore del penitenziario, che a sorpresa accettò. Così lo sport fece ingresso ufficialmente nelle carceri italiane».

Ma «il carcere vero», Gabriella l’ha incontrato («respirato», dice) da garante: «Per 6 anni non c’è stato giorno che non entrassi nell’una o nell’altra struttura, compresi il minorile e il Cpr, il Centro di permanenza per i rimpatri. Ho ascoltato centinaia di detenuti, raccolto centinaia di reclami. I più diffusi? La salute. E subito dopo, il vitto».

Quando la notizia dell’inchiesta aperta dopo le denunce di Stramaccioni è diventata pubblica, una mattina lei è entrata in carcere e i detenuti l’hanno salutata con un applauso. «Dottore’ – le ha urlato qualcuno – oggi, per la prima volta, abbiamo bevuto un latte che sapeva di latte».

Il 13 gennaio 2023, alle 7 del mattino, quaranta agenti della Guardia di Finanza hanno bussato al portone principale di Rebibbia e sono andati dritti nelle cucine. Due mesi dopo, a marzo, il mandato di Gabriella è scaduto; il Comune di Roma non glielo ha rinnovato.

Lei si è subito lanciata in una nuova avventura: entrata nel direttivo della Fondazione Perugia-Assisi sta organizzando un percorso della pace, 1000 chilometri di corsa, da Comiso ad Assisi, «contro l’assuefazione alla guerra».

 
 
 

Sono in crisi

Post n°4018 pubblicato il 22 Maggio 2024 da namy0000
 

2024, FC n. 20 del 19 maggio

Caro don, sono in crisi. Perché sono al mondo? Qual è il mio scopo nella vita? - Ludovica

Cara Ludovica, la nostra vita e il suo senso è un mistero che si dischiude solo strada facendo. In fondo, e passami la tautologia, il vivere stesso è lo scopo della nostra vita. E se essa è iniziata con un atto d’amore umano, questo già ci rivela una gran cosa: che siamo chiamati ad amare. Dall’amore veniamo e verso l’amore andiamo. Accompagnati dall’amore. Non è uno scioglilingua e neanche una romanticheria da cioccolatini. È il senso della vita, il suo scopo. Senza amore non c’è vita. Perché? Perché solo l’amore resta, perché le civiltà si estinguono, i popoli e le potenze umane passano, ma l’amore ha un potere eterno che va oltre la morte. Per questo vivere è amare e per amare veramente bisogna saper morire a noi stessi. Come ci ha insegnato Gesù sconfiggendo la morte con la sua Risurrezione. Come, dove, quando, e chi amare te lo dirà solo il tempo. Devi avere pazienza e perseverare, stando attaccata a quello che il Signore ti chiede ogni giorno: famiglia, scuola, amici… Scoprire il senso della vita passa sempre per la valle oscura del dubbio, della paura, delle delusioni, del pianto, della tentazione di mollare. Devi rimanere sul pezzo e aver fiducia che il progetto su di te si realizzerà, chiedendo a Dio che ti illumini giorno dopo giorno. Il Signore non ci abbandona per strada ma ci segue, ci orienta, ci rialza se cadiamo. Questa è l’esperienza che Egli fa con ciascuno di noi. Migliaia di testimoni della fede sono lì a dircelo. Buon cammino!

 
 
 

Aziz e Maoz

2024, Avvenire 18 maggio

Aziz e Maoz hanno fatto pace

Ebreo uno, palestinese l'altro, hanno raccontanto la loro storia di dolore sul palco veronese. Dopo la strage del 7 ottobre hanno perso genitori e parenti, poi un messaggio li ha fatti incontrare

Si erano conosciuti dieci anni prima, per una manciata di minuti al massimo, a una conferenza. Sulla carta, i punti in comune erano tanti. Entrambi giovani imprenditori, entrambi decisi a trasformare il turismo in uno strumento di conoscenza tra i popoli. Una voragine storica, però, in apparenza, li divideva. L’uno, Maoz Inon, era israeliano. L’altro, Aziz Abu Sarah, era palestinese. Non hanno avuto il tempo di parlarne quella volta. Lo avrebbero fatto dopo. E a lungo.

A farli reincontrare, la carneficina peggiore che abbia insanguinato Israele nei suoi quasi ottant’anni di esistenza. Il 7 ottobre 2023, il kibbutz Nir Am, dove viveva la famiglia Inon, è stato uno dei tanti attaccati da Hamas: i genitori di Maoz, Bilha e Yacovi, sono fra le 1.200 vittime del massacro. Sentita la notizia, Aziz, a cui il conflitto ha strappato il fratello Tayseer, morto mentre era in custodia delle autorità israeliane, ha voluto scrivergli su WhatsApp: «Sono così dispiaciuto per i tuoi genitori. Il mio cuore è spezzato. È così terribile, non ho parole. È stata un’azione da vigliacchi. Ti invio tutto il mio sostegno e affetto». Il gesto di solidarietà ha aperto una strada nuova su cui Maoz e Aziz camminano insieme, con lo sguardo fisso su un orizzonte di pace possibile fra i rispettivi possibili. E insieme sono arrivati ad Arena di Pace 2024 per dire che il Medio Oriente non è condannato a una guerra senza fine.

«Ho scritto a Maoz di impulso. Ero rimasto molto colpito dalla sua prima dichiarazione pubblica dopo il massacro. Aveva detto di soffrire non solo per i genitori assassinati ma anche per il popolo di Gaza, dilaniato dalle bombe. Quanta forza ci vuole per dire una cosa simile all’indomani del 7 ottobre? Quanto sarebbe stato più facile esigere rivalsa. Ho capito quanto Maoz fosse coraggioso. Io ci ho messo anni e anni per trasformare il dolore per l’uccisione di mio fratello di 19 anni da parte dei soldati israeliani in motore di riconciliazione. All’inizio pensavo la vendetta fosse l’unica scelta possibile. È stato solo quando ho cominciato a studiare ebraico insieme agli immigrati giunti in Israele che ho compreso di avere altre opzioni. Potevo smettere di somigliare a coloro che avevano ammazzato mio fratello. Potevo decidere io chi volevo essere, così mi sono messo all’opera», racconta Aziz che, da allora, è diventato un attivo costruttore di pace in vari teatri del mondo con il Center for world religions, diplomacy and conflict resolution, con il programma radio All for peace e con Mejdi, una compagnia che offre tour per ebrei, cristiani e islamici interessati a conoscere “l’altra metà della storia”. «La parte mancante. È sempre in questo vuoto che si annida il conflitto cruento. L’ho constatato negli oltre settanta Paesi in guerra dove sono stato. Per questo, credo nel valore cruciale della parola condivisa» sottolinea.

«Aziz è stato uno dei primi palestinesi a farmi le condoglianze. L’ho molto apprezzato. Ha voluto essermi vicino nel momento peggiore. Gli ho chiesto dunque se potevamo parlarci. Qualche tempo dopo ci siamo visti online… Dopo la morte dei miei genitori ero in pezzi. La notte ho fatto un sogno. Vedevo i volti delle vittime del massacro. Erano feriti, sofferenti. Dai loro occhi scendevano grosse lacrime che arrivavano fino alla terra, intrisa di sangue. Al cadere, le lacrime pulivano il sangue, facendo comparire un sentiero. Quando mi sono svegliato ho capito: da tutta quella sofferenza, le atrocità perpetrate, l’angoscia inflitta, doveva nascere un nuovo corso. Una vita per la pace» gli fa eco Maoz.

I due imprenditori sono tra i testimonial di fronte a papa Francesco e al pubblico di Arena 2024 del tavolo su “Economia, lavoro e finanza”, uno dei cinque pilastri per la costruzione di una convivenza nonviolenta – accanto a “Migrazioni”, “Ecologia integrale e stili di vita”, “Democrazia e diritti”, “Disarmo” – individuati da oltre duecento organizzazioni, movimenti e gruppi di cittadine e cittadini di tutta Italia che, per oltre un anno, hanno riflettuto su come “disarmare” il sistema economico. «In realtà, il metodo per fare impresa sociale è il medesimo di quello per portare avanti un processo di pace - afferma Maoz -. Lo so per esperienza. Ogni volta che ho messo su un’attività mi sono basato su cinque principi: avere un sogno, agire in base a dei principi, creare alleanze, elaborare un piano strategico e metterlo in atto. Sono le stesse fondamenta su cui si costruisce la pace. È questa la nostra impresa più urgente ora. Lo devo ai miei genitori. Quando li ho seppelliti, ho compreso che mi avevano cresciuto per questo momento. Sono loro a ispirare i miei gesti e le mie parole. Mia madre era un’artista. Dipingeva soprattutto i “mandala”, l’universo secondo le tradizioni induiste e buddiste. In tutta la sua vita, me ne ha regalato solo uno. E vi ha scritto sopra: “Qualunque sogno può essere raggiunto se abbiamo il coraggio di inseguirlo”».

 
 
 

La responsabilità è nostra

Post n°4016 pubblicato il 19 Maggio 2024 da namy0000
 

Educazione di Edith Bruck, scrittrice e poetessa ungherese sfuggita ai campi di sterminio

E se il futuro non fosse
figlio del passato e del presente?
Ma orfano, tabula rasa
Per i novi nati.
Da educarli al buono,
al bello, al rispetto
di ogni prossimo di qualsiasi etnia e fede.

Non dire mai ai propri figli
che sono i più belli
ma che tutti i bambini
sono belli.
Educarli a dividere
a scuola durante la pausa
la propria merendina
con chi non ha niente,
i giocattoli di chi ne ha tanti.
La condivisione fin da piccoli
è creatrice di pace,

di un mondo nuovo
che non è mai esistito.
Potrebbe mai essere?
Dipende solo da noi,
senza pregare Dio,
la responsabilità
di tutti i mali del mondo
è nostra.

 
 
 

1200 chilometri a piedi

2024, Avvenire 16 maggio

Cile. I 1.200 chilometri a piedi di Camila per salvare suo figlio

Camminare più di 1.200 chilometri per salvare il figlio. È l’impresa di Camila Gómez, infermiera cilena di 32 anni, che sta attraversando il suo Paese a piedi per raccogliere 3,5 miliardi di pesos (circa 3,5 milioni di euro) e sensibilizzare sulla causa dei pazienti con malattie rare. Una cifra importante necessaria a comprare un farmaco salvavita per suo figlio Tomás. Il tempo è poco. Il piccolo ha cinque anni e soffre di distrofia muscolare di Duchenne, malattia che colpisce i muscoli e ne causa il progressivo deperimento. Gómez è partita il 28 aprile da Ancud, nel sud del Paese e, secondo il programma, dovrebbe riuscire ad arrivare il 28 maggio davanti al Palacio de La Moneda di Santiago, sede del governo cileno. Una marcia e una battaglia che Gómez sta percorrendo insieme a Marcos Reyes. È il presidente della Corporación Familias Duchenne en Chile e padre di due adolescenti affetti dalla stessa malattia. Il luogo di arrivo non è stato scelto a caso. Gómez e Reyes stanno lottando per i loro figli, ma non solo. «Camminiamo per tutti i bambini e le famiglie che soffrono di questa malattia», ha raccontato Gómez. Il loro obiettivo è che il presidente cileno Gabriel Boric presenti al Congresso un progetto di legge che permetta di migliorare la copertura delle malattie rare. In Cile, infatti, la distrofia di Duchenne non è inclusa nella legge Ricarte Soto del 2015 che finanzia cure mediche ad alto costo.

La malattia è scatenata da un gene difettoso che porta all'assenza di distrofina, una proteina utile a mantenere integre le cellule del corpo. Chi ne soffre può sviluppare problemi nel camminare e nel correre, affaticamento, difficoltà di apprendimento e problemi cardiaci e respiratori a causa dell’indebolimento dei muscoli. «È nato sano, senza alcun problema o complicazione, fino a quando, a quattro anni, ci siamo resi conto che aveva difficoltà a salire le scale e a svolgere alcuni tipi di attività fisica», ha spiegato Gómez sui social media. «Fino a quel momento non c'era cura, ma da alcuni mesi abbiamo una speranza: negli Stati Uniti è stato approvato il primo farmaco il cui obiettivo è fermare la progressione della malattia». Questo farmaco, venduto con il nome commerciale Elevidys, viene somministrato per via endovenosa solo nei pazienti che hanno tra i quattro e i cinque anni, età in cui l’efficacia si è dimostrata maggiore. Tomás ne compirà sei a ottobre. Ma Gómez mantiene viva la speranza. Contro il vento e la pioggia, continua a camminare indossando la pettorina gialla su cui è stampata la faccia sorridente di suo figlio. E condivide, giorno dopo giorno, il suo viaggio su Instagram. Nell’ultimo video Gómez ha raccontato: «Sono molto molto felice, perché abbiamo raggiunto il 70% dell’obiettivo». La solidarietà è stata enorme. C’è sempre una fila di persone schierata ai bordi delle strade che percorre. Qualcuno si ferma per salutarla e incoraggiarla, qualcuno per farle un piccolo dono. «Non ci saremmo mai aspettati tanto appoggio. Le persone stanno empatizzando molto con la nostra storia, piangono come se fossero loro i genitori di nostro figlio».

 
 
 

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