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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Luglio 2024

Imparare a camminare e imparare ad amare

2024, don Maurizio Praticiello, 20 luglio

Wilma, Mario e la lezione di vita al loro funerale

La celebrazione del funerale giunge a termine. È stato un momento forte, impregnato di commozione, emozioni, dolore, preghiere. Prima della benedizione finale, sorretto da un confratello, un anziano sacerdote, sale sull’Altare per dire una parola. È il confessore di Wilma e Mario, i coniugi salernitani che, qualche giorno prima, hanno perso la vita in un orribile incidente stradale. Erano due avvocati ancora giovani, impegnati nel sociale e nella lotta per i diritti dell’uomo. In città erano stimati e benvoluti. La loro morte, fulminea, devastante, ha scosso l’intera comunità. Le famiglie sono distrutte. La chiesa è gremita. Sul sagrato, coloro che non hanno trovato posto tra le navate, attendono la fine della Messa per l’ultimo saluto. Il vecchio prete fa fatica a parlare. È malato, deambula sorreggendosi a un carrello, ma, soprattutto, si nota che è emotivamente coinvolto. Non era un semplice amico dei defunti. A lui, Wilma e Mario, per anni, hanno aperto l’animo, permettendogli di scendere in quegli abissi dove essi stessi non avrebbero potuto. Il rapporto che si crea tra il penitente e il padre spirituale non si può facilmente raccontare. I due sono – come dire – legati a un doppio filo. Il penitente sa di poter, a qualsiasi ora del giorno e della notte, bussare alla sua porta e riversare sul suo cuore i peccati, i dubbi, le ansie, le paure che lo affliggono. Il confessore sa di dover essere attento alla voce dello Spirito per consigliare, indirizzare, discernere. Di suo, don Antonio non dice molto. Sceglie, invece, di far parlare loro, i defunti. Mario stava combattendo contro il cancro. Era stato operato. Pochi giorni prima di morire, scriveva: «Don Antonio caro, la malattia mi ha scatenato un’ostinazione, tirando fuori tutta la forza nascosta. Dentro il tunnel della tac, della bet, della risonanza magnetica, ho avuto come luce Gesù. Dopo l’operazione ho dovuto imparare di nuovo a respirare, mangiare e camminare. Mi sono sentito, a un tratto, vulnerabile, scalfito nelle mie certezze». Gesù, luce nel tunnel. “La tua Parola è lampada ai miei passi, luce sul mio cammino”. Gesù, datore di forza e di speranza. “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” La malattia portatrice di sconforto e di dolore ma anche ostinata cercatrice di forze nascoste. “Anche se vado in una valle oscura non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”. Ma come vive Wilma il doloroso calvario che l’amato sposo sta salendo? In che modo riesce a condividerne la sorte? Eccola, ancora una volta, fare ricorso al prete di cui si fida: «Caro don Antonio, sento il bisogno, in questo periodo, di riposare, non il corpo, bensì il cuore. La malattia di Mario mi ha completamente assorbito. Mi sembra di essere diventata madre di un figlio cresciuto in anni ma ritornato bambino». Continua, lei che non ha potuto gustare la gioia della maternità: «Non so come siano i dolori di una madre che partorisce, in questo periodo l’ho imparato… Probabilmente Mario ti ha detto che ha dovuto imparare a camminare, a mangiare, a muoversi. Io ti dico che ho imparato ad amare. Sono due cose semplici, imparare a camminare e imparare ad amare, quando ci s’ impegna. Io ho voluto impegnarmi perché penso sia la cosa più bella quella di amare». Che lezione di vita. Imboccando, sabato mattina, l’autostrada per Salerno e poter prendere parte al funerale di questa coppia, parente di un caro amico, chissà, magari avrò pensato di dover compiere un dovere. Il dovere di un prete che corre a dare conforto a un amico sul quale si è abbattuta una tragedia immane. Forse come me tanti altri presenti alla celebrazione avranno pensato la stessa cosa. Non sapevamo, non potevamo sapere, invece che stavamo andando a prendere parte a una altissima lezione di vita. Wilma e Mario hanno lasciato a tutti, parenti e amici, il loro testamento spirituale. Rileggiamolo. Meditiamolo. Facciamone tesoro. Mettiamolo in pratica.

 
 
 

La profezia di don Piero Tubino

2024, Scarp de’ tenis, Aprile

La profezia di don Piero Tubino, (1924/2012) (88 anni), “fondatore” della Caritas genovese. 

A 100 anni dalla nascita.

Don Piero, a partire dall’adolescenza, vissuta durante la seconda guerra mondiale, fino agli ultimi istanti della sua vita, ha creduto fermamente nella costruzione della pace, anche e soprattutto attraverso l’educazione dei più giovani che ha sostenuto nella scelta dell’obiezione di coscienza al servizio militare, indicando loro l’impegno fra gli ultimi come modo efficace di difesa del territorio.

C’è un filo rosso che accompagna la sua vita: dal bombardamento del 1941 durante il quale sono morte la zia e due cugine, al dialogo con tutti nella parrocchia operaia di Borzoli, dagli interventi nelle emergenze alla ricerca di dialogo negli anni di piombo, dal sostegno alla lotta dei pacifisti genovesi contro la mostra navale bellica, a “Mir Sada”, la marcia su Sarajevo durante la guerra nei Balcani. E infine… finito l’incarico di direttore Caritas, continuò a organizzare viaggi in luoghi in cui fossero evidenti le ferite della guerra.

I giovani del Campobase Caritas hanno scritto: “Caro don Piero… tu sei stato fratello del fratello che soffre, non ti sei mai fermato e ci hai insegnato a fare lo stesso. La tua testimonianza è presente oggi in coloro che si impegnano a valorizzare, in tanti modi possibili, il racconto di una vita autentica. Grazie per averla donata a tutti noi”.

Nel 2012 don Piero ha concluso la sua esistenza terrena. 

don Piero individuava i segnali di un’aurora risvegliata nella denuncia delle situazioni di ingiustizia e nella solidarietà di chi non si rassegna

Il presente momento storico sembra ancora più drammatico tra strascichi della pandemia, disuguaglianze economiche e sociali, “terza guerra mondiale”; diventa urgente svegliare l’aurora, dare voce ai segnali di nonviolenza, di fraternità, di costruzione di possibili alternative.

“Che cosa impedisce di vedere la ‘novità’ della pace in un giovane che sceglie il servizio nonviolento? Che cosa fa scartare a priori i tentativi dei pacifisti per aprire nuove strade di intesa alternative al solo confronto delle armi?” Queste domande sono state poste da don Piero Tubino in un editoriale di Caritas Notizie del giugno 1993.

Si era ancora nel pieno della sanguinosa disintegrazione della “ex Jugoslavia”; dopo pochi mesi, nel 1994, per la seconda volta una carovana di pace cercò di raggiungere Sarajevo per testimoniare solidarietà agli assediati e ribadire il no alla guerra. Mir Sada (Pace subito) era lo slogan. Don Piero era tra loro.

Per accettare un immigrato dal Terzo Mondo o un uomo senza fissa dimora di appena 35 anni o un tossicomane che non ce la fa a decidere di non “bucarsi”, o il detenuto che entra ed esce di carcere, bisogna riuscire a... riconoscersi in loro; essi rappresentano una parte che è pure in noi; sono una faccia della nostra umanità, scoperta, nuda, senza
difesa, senza facciata e senza ipocrisia. Essi mi portano la verità della loro povertà che è pure la mia e nell’offrire loro un po’ di ragioni per vivere mi confermo che la vita e la speranza

Don Pstate scritte da don Piero Tubino – “fondatore” della Caritas Genovese – nel lontano 1987.

«Ci facciamo una chiacchierata?». Quando vedeva un vuoto di umanità da colmare, un valore da far crescere, una povertà da accompagnare, don Piero Tubino ti cercava e ti rivolgeva questa domanda. E così, nel corso di una vita, don Piero ha saputo coinvolgere generazioni di genovesi, con particolare cura verso i giovani, aiutando la chiesa a superare la carità come elemosina e la città a stringere nuove relazioni di solidarietà.

I poveri, gli emarginati, i malati, la pace come tensioni fondamentali. Il Vangelo sempre alla fonte di mille proposte in grado di coinvolgere e rispettare anche i non credenti. Una spiritualità asciutta, profonda e concreta e il sopracciglio quasi sempre alzato su uno sguardo capace di essere al tempo stesso austero ed intimo, immerso nel quotidiano e profetico.

Per tutto questo e molto di più, Genova lo ricorda a 100 anni dalla nascita con una serie di iniziative promosse dall’associazione che ne porta il nome. Tra queste, in particolare, un’associazione a lui dedicata che è nata un anno dopo la sua morte.

Don Piero è stato fondatore e primo direttore della Caritas diocesana di Genova, membro di presidenza della nascente Caritas Italiana sotto la direzione degli amici. Ancora prima, e poi contestualmente, don Piero è stato direttore della Fondazione Auxilium…

Don Piero ebbe con don Giuseppe Siri, divenuto poi arcivescovo di Genova, un rapporto di obbedienza e conflitto e così fu anche con il primo direttore di Auxilium: «Tubino fa di testa sua», lo avvertì Siri quando questi lo volle comunque al suo fianco nel 1957. I cambiamenti maturano anche grazie alle scelte di chi non li ha ancora compresi: «Monsignor Cicali mi affidò responsabilità e fiducia ma aveva una visione assistenzialistica dell’intervento caritativo», ricorda don Piero «mi strattonava un po’. Non fu facile. Gli scontri con Cicali non erano che l’avvisaglia di un cambiamento in corso di cui avevamo tutti una vaga percezione».

Don Piero Tubino fu appunto al centro di questo cambiamento… don Piero fu al centro del cambiamento senza porsi al centro, anzi esercitando la capacità di far crescere la partecipazione, l’impegno, le esperienze di comunità…

Verso i giovani don Piero ebbe una particolare attenzione, come padre e compagno di viaggio. Insieme a tutta la Caritas nazionale, li accolse e li promosse come obiettori di coscienza e come volontarie dell’anno di volontariato sociale, quando la società e la chiesa li rifiutavano. Li accompagnò in numerosi viaggi nei Paesi poveri, come educazione alla Giustizia e alla Mondialità, in pellegrinaggio ai campi di concentramento e di sterminio nazisti, palestra di memoria e di corresponsabilità per il presente, nei campi di solidarietà con i Paesi colpiti da guerre, specie dei Balcani, nelle grandi calamità, le alluvioni genovesi, i gemellaggi con Venzone in Friuli e Colliano in Irpinia colpite dai terremoti.

Li sostenne nelle proteste che portarono alla fine della mostra navale bellica a Genova. Condivise il loro percorso, quale che fosse il loro punto di partenza. E oggi molti di loro, credenti e non, ne portano l’eredità nelle scelte di vita, spesso in ruoli di pubblica rilevanza.

 
 
 

La biblioteca Ostinata

Post n°4040 pubblicato il 17 Luglio 2024 da namy0000
 

2024, Scarp de’ tenis, Aprile

Biblioteca Ostinata

La sfida di Paolo: spazio gratuito e aperto a tutti

Nell’era della digitalizzazione sfrenata, c’è chi punta ancora sul valore che la lettura di un libro può avere, sia in termini culturali sia sociali. A farlo è Paolo Prota Giurleo, ex amministratore delegato di Autogrill, da sempre appassionato di libri. Da molti anni desiderava condividere parte del suo ricco patrimonio librario con la comunità della sua città, Milano, ma non riusciva a concretizzare questo sogno.

Fino al dicembre 2022, quando proprio nella via dove abita, in via Osti a pochi passi dall’università Statale, si rendono disponibili due locali. È l’occasione giusta per dare finalmente concretezza al suo progetto. Nasce così la biblioteca Ostinata, un luogo dall’atmosfera calda e accogliente che offre cultura e socialità. Curiosando sul sito, colpisce il claim “una biblioteca libera e aperta a tutti” dove sono a disposizione del pubblico 4.000 libri. Alla biblioteca Ostinata, però, non si troveranno sempre gli stessi libri: i volumi presenti saranno ciclicamente sostituiti con altri non ancora esposti. L’offerta della biblioteca Ostinata quindi non sarà mai definitiva, ma in continuo divenire.

Perché questa definizione?

Perché riflette appieno lo spirito con cui l’ho creata. La libertà è intesa sia come apertura a chiunque voglia avvicinarsi al piacere della lettura sia ai contenuti dei libri in essa raccolti. Qui è possibile trovare infatti materiale di diversa tipologia e di autori molto differenti tra loro che trattano di filosofia, letteratura, storia, poesia scienze sociali. Nei primi tempi dell’apertura, i libri riflettevano soprattutto il mio modo di essere e il mio gusto personale. Poi però, ci siamo accorti che le persone avevano bisogno anche di altro e ci siamo così adeguati alle loro richieste. Per esempio mancava la sezione per i bambini, oggi diventata molto importante. Un’altra sezione che abbiamo sempre più arricchito è quella dei romanzi. Accanto a quelli di autori classici abbiamo affiancato alcuni autori contemporanei per esaudire le tante richieste dei nostri lettori.

Che pubblico frequenta la biblioteca Ostinata?

Abbiamo quasi 2000 iscritti di diverso tipo, ma anche senza iscrizione si può accedere per leggere, studiare o lavorare. Una buona parte è formata da donne, a loro va il primo posto come appassionate lettrici. Abitano per lo più nella zona, hanno un’età over 65 e sono sole. Questo pubblico conferma il dato statistico che dice che a Milano il 30% dei nuclei famigliari è costituito da una persona sola e anziana, spesso donna. Qui, nella nostra biblioteca, trovano un punto di riferimento, non solo per coltivare la passione della lettura, ma anche per poter socializzare e colmare un vuoto esistenziale. Possiamo quindi dire che la biblioteca Ostinata favorisce la coesione sociale.

Ci può spiegare meglio?

Abbiamo firmato con il Comune il cosiddetto Patto di lettura che ci impegna a tutelare tre fasce deboli presenti in città: bambini, anziani e nuovi cittadini (i migranti). Per i giovani migranti abbiamo già istituito, finanziandoli quasi integralmente, corsi di lingua italiana (L2). Sono mandati qui dalle varie cooperative che si occupano della loro accoglienza. L’altra fascia debole a cui, come detto, teniamo molto, è quella degli anziani. Per loro organizziamo anche laboratori e corsi in cui riscoprono sia la propria capacità di imparare sia di creare. Per esempio hanno avuto un grande successo i corsi di lingua araba e inglese. Inaspettatamente sono stati molto apprezzati anche due laboratori manuali: quello per creare libri d’artista e quello per imparare a lavorare all’uncinetto. Nei prossimi mesi vorremo proporre loro un corso di abilitazione alle competenze digitali. Infine per i bambini abbiamo organizzato vari laboratori, in particolare degli incontri di lettura di favole teatralizzate. Sono piaciuti moltissimo, tanto che abbiamo deciso di aprire la biblioteca anche il sabato per andare incontro alle esigenze dei genitori.

Ostinata perché per diffondere la cultura del libro a 360 gradi e in modo trasversale, ci vuole perseveranza, oggi più che mai. «Per raggiungere questo obiettivo serve infatti determinazione. La nostra mission è far leggere chi ancora non legge o far leggere di più chi già legge – dice Paolo Prota – bisogna essere ostinati e non gettare mai la spugna. Ecco perché abbiamo scelto di dare il nome di Ostinata alla nostra biblioteca: non solo perché richiama la strada in cui è situata, ma soprattutto perché rispecchia appieno il nostro spirito. Uno dei nostri motti che amo moltissimo è di Marguerite Yourcenar “Fondare biblioteche è come costruire granai pubblici; ammassare riserve contro l’inverno dello spirito, che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Credo infatti molto nei valori che la lettura veicola. Ci aiuta a migliorare, a comprendere di più noi stessi e soprattutto gli altri».

Biblioteca Ostinata, via Osti 6. Aperta dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 18, e il sabato dalle 10 alle 13.

 
 
 

Per i bimbi malati di tumore

2024, Avvenire, 15 luglio

Bologna. Muore sul Bianco Michele Raule, dall’Ac alle scalate per i bimbi malati

Il 50enne ingegnere stava compiendo l'ascesa per raccogliere donazioni a favore dei piccoli pazienti oncologici.

«Il 12 luglio (meteo permettendo) tenterò un’impresa per me “estrema”: dal mare alla vetta del Monte Bianco senza dormire, con il solo uso delle gambe. Partirò alle 5 di mattina da Genova con la bici, che lascerò in fondo alla Val Veny, per proseguire a piedi fino alla vetta. Mi sono allenato parecchio (75.000m D+ da inizio anno), ma non è sicuro che ce la farò. La mia motivazione, già non piccola, sarà rafforzata da una buona causa in cui credo molto: raccogliere fondi per Ageop, associazione di Bologna che aiuta i bambini malati di tumore. Di seguito il link per fare una donazione, anche un piccolo contributo sarà molto gradito».

Così scriveva qualche giorno fa sulla sua pagina Facebook Michele Raule. In questa avventura ha trovato la morte domenica pomeriggio, a soli 50 anni, cadendo in un crepaccio sul Monte Bianco, per cause ancora da accertare, quando ormai mancava poco alla meta, il Rifugio Gonella. Raule lascia la moglie e tre figli.

ll suo progetto “Quattro vette per cinque Stati” era nato nel 2022 e si sarebbe concluso nel 2025, con la scalata delle cime più alte d'Italia e dei quattro Paesi confinanti – Francia, Svizzera, Slovenia, Austria – percorrendo con la bicicletta i chilometri dal mare più vicino alla meta. Nello stesso punto dell'incidente di Raule era morto un alpinista tedesco il 26 giugno.

L’Associazione lo ricorda attraverso le parole della ex presidente diocesana Donatella Broccoli come persona «dal grande cuore», sempre disponibile a dare una mano in parrocchia. Il comparrocchiano Daniele Binda lo definisce proprio nella sua generosità: «Ha raggiunto la pienezza della vita, facendo ciò che più amava. Grande appassionato ed esperto di montagna, sfidava i suoi limiti, e lo faceva sempre con uno sguardo all’ambiente, di cui era grande difensore, e uno ai più deboli». Come dimostra la nobile causa che stava perseguendo con questa ennesima sfida.

 
 
 

Altro che stellato dovresti essere

2024, Scarp de’ tenis, aprile

Chef Wild. La scelta di Davide: Cucino nei boschi, così sono felice

Davide Nanni, noto sui social come lo Chef wild, ha fatto della propria terra e dei legami familiari la sua forza, e il successo. Nella natura selvaggia c’è nato, in particolare a Castrovalva, un borgo fortificato abruzzese, di media montagna, piccolo piccolo, che conta quindici abitanti e si affaccia da uno sperone roccioso a ottocento metri di altitudine. A Castrovalva, Davide ha deciso di prendere in gestione l’agriturismo di famiglia: La locanda Nido d’Aquila. E nei boschi che circondano il paese cuoce le sue ricette in mezzo agli alberi: dalla pasta fresca ai dolci da forno, tutto sulla brace di fortuna che allestisce insieme al padre Mario, personaggio d’altri tempi. Tutto questo è diventato un libro, A sentimento. La mia cucina libera, sincera, selvaggia, edizioni Mondadori. Il libro conduce il lettore alla scoperta dei piatti tipici della tradizione abruzzese – cuore della cucina di Davide Nanni – imparati dal nonno Angelo quando insieme portavano al pascolo le pecore.

«A 13 anni ho cominciato ad andare via da Castrovalva. Frequentavo l’istituto alberghiero a Villa Santa Maria, in provincia di Chieti. Vivevo là da lunedì a venerdì e tornavo a casa nel fine settimana. Finita la scuola, nel 2010, sono andato a Londra, ho lavorato anche Locanda Locatelli, ma poi sono tornato. Ho vissuto per qualche anno fra l’Abruzzo e Roma, lavoravo in vari ristoranti. Ma chiedevano orari pieni con uno stipendio molto basso. A un certo punto, nel 2019, ho deciso di partire per l’America, in Florida, in una città che si chiama Longboat Key. Lì ero chef in due ristoranti italiani. Avevo un ottimo stipendio, però facevano delle richieste assurde: la panna nella carbonara oppure la polpetta sopra l’amatriciana. Litigai ci proprietari e tornai a Castrovalva. Poi venne il Covid. Andai in depressione perché non sapevo che fare, dopo 10 anni in cui avevo girato il mondo, lavorando sempre, mi ritrovavo in un paese vuoto, senza una prospettiva di futuro. Mia madre era stufa di vedermi in quello stato. I miei genitori avevano un agriturismo, coltivavano i prodotti, allevavano gli animali, preparavano le cene e l’accoglienza. Un giorno, esasperata, mia madre mi disse: “Davide, perché non provi a lavorare con noi? Fai le tue ricette con i nostri prodotti. Male che vada ritorni all’estero”. Ci provai in estate e la sala era sempre piena. Però, finito il periodo delle vacanze, per tutto l’inverno non venne nessuno. Che ci stavo a fare lì? Ero solo, i miei amici erano andati via. Il mondo era da un’altra parte. Tornai a Roma. Ma non lavoravo. Me ne stavo sul letto, al massimo andavo in palestra. La depressione si riaffacciava. Fu sempre mia madre a prendere in mano la situazione. Un giorno mi disse che a trent’anni stavo buttando via la vita. Fu molto dura. Mi offesi, ma mi resi anche conto che mi aveva colpito nel vivo. le risposi che avevo bisogno di tempo per decidere cosa fare. Dopo due settimane chiamai mio padre e gli proposi di andare nei terreni di nonno Angelo, nel bosco, a cucinare. Lui venne, ma mi prendeva per matto. Gli proposi di girare dei video mentre cucinavo, li postai su Facebook per vedere quale reazione avrebbero suscitato. Mi accontentò. La gente apprezzava molto questo nostro rapporto, ironico, leggero, affettuoso. Ma anche la vita nella natura, il senso di libertà.

Mi sono appassionato alla cucina sin da piccolo, quando tornavo da scuola restavo con le nonne: coi fazzoletti in testa impastavano chili e chili di pane e di biscotti per l’agriturismo di mamma e papà. Già allora volevo mettere le mani dentro la pasta soffice e da allora non ho più smesso di mettere il naso in cucina. Per me è una filosofia di vita: sono cresciuto allo stato brado qui in paese, a contatto con la montagna dura, aspra. Mio nonno Angelo era un pastore e un agricoltore, una persona meravigliosa, mi ha insegnato il rispetto della natura, gli animali, e anche per il cibo. Cucinare nei boschi mi ha ridato il sorriso, mi sentivo libero, non ero più schiavo del sistema, realizzavo qualcosa che mi faceva stare bene. Poi è arrivato anche il calore delle persone sui social, mi ha fatto molto bene. Da Pasqua al agosto, il ristorante dei miei genitori dove lavoro, è sempre sold out. E ora in televisione. (…) Gli autori della trasmissione È sempre mezzogiorno mi hanno notato; è piaciuto il format. Mi hanno chiesto se volevo fare un provino. È andata bene, mi dissero: “arrivi dritto al cuore, per quello che dici e come lo dici. Per come vivi la vita”.

Adesso sono qui a Castrovalva, apprezzo il silenzio e la tranquillità, sto bene con me stesso e vivere qui mi rende felice. Se voglio vedere gli amici vado a Roma, a Milano vado per la trasmissione in Rai e per vedere la mia fidanzata, Giulia. Finalmente è arrivato anche l’amore. Non posso chiedere di più. La mia solitudine a Castrovalva me la vivo in grazia di Dio. La mia identità parte dalla tradizione, dal cuore abruzzese, quello che aggiungo sono le mie esperienze, anche le più lontane. Alla Locanda facciamo in casa l’87% dei prodotti. Dal vino al formaggio, dall’olio alla carne, dai salumi agli ortaggi. Così, diventa semplice creare un piatto: rinnovi la tradizione o la riprendi laddove era venuta meno. Cerco sempre di dare valore anche alle mie esperienze vissute all’estero.

Oggi ho incontrato un amico, avevamo studiato insieme all’istituto alberghiero, non lo vedevo dal 2010. Da due anni non fa più il cuoco, stipendi troppo bassi e orari ingestibili per una famiglia. Dei 26 studenti che eravamo in classe, solo in 6 siamo cuochi. La ristorazione italiana ha un problema serio con il lavoro, non riesce a valorizzare le persone. Molti se ne vanno. Sicuramente vieni pagato meglio, ma non sempre sei felice.

Molti, quando mangiano all’agriturismo mi dicono: “Altro che stellato dovresti essere!”. E a me fa più piacere così, che siano le persone a riconoscere il lavoro, la cura, la passione, non un titolo stellato che fa spendere molti soldi sia ai clienti che a me. Contengo i prezzi perché voglio dare l’opportunità di vivere una bella esperienza anche a quelli che non possono permettersi di spendere 200 euro a persona per una cena. Certo, non ci saranno i camerieri in guanti bianchi, però se le persone riescono a percepire “la stella” mangiando alla Locanda, io sono felice. Non chiedo altro».

 
 
 

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