I racconti di Prometeo e Pandora ("tutto dono"), o quelli di Adamo ed Eva, ci dicono con linguaggi diversi che gli esseri umani sono incapaci di edificare la propria civiltà sul dono libero. Ma ci dicono anche che esiste un rapporto profondo tra dono e disobbedienza, tra gratuità e autorità, tra libertà e gerarchia. Nell’Eden la sottomissione della donna all’uomo, radice di ogni altra subordinazione sociale, è frutto della loro comune disobbedienza: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà» (Genesi 3,16). Dal fallimento del primigenio rapporto di reciprocità nasce la prima relazione gerarchica di dominio. E così la gerarchia diventa la principale risposta all’insuccesso della gratuità libera, la sua prima alternativa, il suo primo nemico.
Esiste, infatti, una tensione radicale tra la gerarchia e il dono. La gerarchia mangia i doni dei sudditi, li consuma sotto forma di sacrificio: i re, i faraoni, i sacerdoti, pretendono le primizie, vogliono sempre la parte migliore (Zeus condanna Prometeo perché gli offre la parte peggiore del toro squartato). Ma la gerarchia teme più di ogni altra cosa il dono libero e non orientato ai suoi obiettivi perché non orientabile. Cercare di trasformare il dono-gratuità in cose simili ma innocue è la tendenza-tentazione invincibile di ogni gerarchia, che fa di tutto per togliere dal dono la sua eccedenza ingestibile, il suo pungiglione velenoso perché libero.
Anche i governi delle organizzazioni hanno bisogno della creatività della libertà e del dono, ma vorrebbero solo quella che può (e che deve) rimanere dentro i confini stabiliti e custoditi. E così, nei momenti di crisi vera, quando la gratuità libera sarebbe la prima cosa veramente necessaria, ci si ritrova indigenti proprio di questo essenziale.
Sta quasi tutta qui la tragedia del dono nelle imprese e nelle istituzioni. Questa tragedia si manifesta a vari livelli. Le comunità e i movimenti della società civile, non di rado anche le imprese, nascono anche, e in molti casi soprattutto, dalle passioni, dai desideri, dall’eccedenza, dalla nostra voglia di vita, di futuro, di infinito. Quindi dalla nostra gratuità. Queste forme associate del vivere sono generate perché qualche persona, almeno una, un giorno vede spazi tutti nuovi e interminati per esprimere fino in fondo la propria personalità e i propri sogni. Vede che c’è un luogo, e quello soltanto, dove gli ordinari limiti che ci sono altrove sono scomparsi, dove le barriere sono cadute, o non si vedono più. Tutto diventa possibile. E parte verso l’infinito, anche quando tutto si compie in un sottoscala, o in un villaggio in mezzo alla foresta.
Poi con lo scorrere del tempo gli ideali e le passioni diventano pratiche, nascono le prime proto-istituzioni, si definiscono i responsabili, si scrivono le regole. Quindi i contratti, i regolamenti, e presto si forma l’inevitabile gerarchia. E così quelle comunità-movimenti diventano via via associazioni, organizzazioni, cooperative, imprese, che per poter funzionare e crescere hanno bisogno di gestire, normalizzare, eliminare e bandire quelle pratiche spontanee e quelle eccedenze che erano state all’origine della prima esperienza. Al fine di poterla gestire e incanalare dentro le regole di governo, per poter coordinare e orientare le azioni verso gli obiettivi istituzionali, diventa necessario uniformare e standardizzare i comportamenti. E muore la prima libertà dei primi doni. I soli doni che restano sono i sacrifici per nutrire la gerarchia e i suoi obiettivi, per sfamare la sua fame. Tutto ciò accade non perché il management sia cattivo o ottuso, ma per la stessa natura e vocazione della gerarchia, che per svolgere il suo compito deve incoraggiare le componenti più ordinarie, gregarie e addomesticate della creatività e della libertà, e quindi combattere le dimensioni più sovversive e destabilizzanti della gratuità, quelle che però sarebbero essenziali soprattutto nei momenti più importanti e delicati (crisi, cambi generazionali, prove…).
È questa una delle dinamiche più importanti delle istituzioni: una volta che la nostra gratuità ha generato organizzazioni, la dinamica intrinseca e necessaria del loro governo finisce per negare l’espressione e la pratica di quei doni liberi che l’avevano fatta nascere. L’organizzazione "figlia" mangia il dono "padre". È così che terminano molte tra le creazioni collettive più belle, perché il corpo generato dalla gratuità spegne lo spirito originario creativo e libero, il solo soffio che la vita conosce..... (Luigino Bruni, Avvenire 25 marzo 2017).
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