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Messaggi del 26/06/2017

La colpa è nostra - una parte

Post n°2256 pubblicato il 26 Giugno 2017 da namy0000
 

“Il 29 maggio ho compiuto sessant’anni. continuano a dirmi che non è grave, che i sessanta sono i nuovi quaranta o venticinque o trentasette e mezzo, ma la verità è che spesso si sentono (e si vivono) come i vecchi sessanta. Ho compiuto sessant’anni e la cosa mi riempie di sorpresa, di una perplessità dovuta alla consapevolezza che i giochi sono fatti: sarà ancora possibile cambiare qualche dettaglio, ma il grosso è andato. Invecchiare è scoprire che non sarai più un altro.

Nella parola “compiere” c’è qualcosa di strano e perentorio che mi mette a disagio. Non mi sembra di aver compiuto molto. Ma il punto, qui e ora, non sono io o la mia persona: a mettermi a disagio è la sensazione che noi non abbiamo compiuto quasi nulla.

Dico noi perché dico me, dico me perché dico noi: noi argentini, i sessantenni argentini, i miei coetanei, la mia generazione, quelli come me. Forse è arrivata l’ora di domandarci come, quando, ma anche cosa e perché: è ora, in sintesi, di cominciare ad assumerci le nostre responsabilità.

Definire una generazione è difficile, è un processo capriccioso, impreciso. Allora diciamo, tanto per stabilire un criterio: quelli che sono nati un po’ prima e un po’ dopo di me, quelli che hanno avuto vent’anni nell’Argentina degli anni sessanta e settanta. All’epoca il generale Perón parlava di “questa gioventù meravigliosa”, e ora è facile pensare che fossimo tutti giovani inquieti, preoccupati per il destino della patria, disposti a vivere (e a morire) per lei.

Si è diffuso un mito: se parlo della mia generazione, molti pensano ai militanti, ai morti, ai desaparecidos e ai torturati. Ce ne sono stati, ma ci sono stati anche tanti altri che non hanno fatto o subìto niente di tutto ciò. Senza cercare troppo lontano, quelli che governano oggi fanno parte della mia generazione e non hanno fatto niente del genere. In quei giorni si stavano preparando – Mauricio Macri, Daniel Scioli, Cristina Fernández, Elisa Carrió e altri notabili – a guadagnare più soldi. E milioni di persone guardavano senza sapere cosa dire, esultavano per i gol di Kempes o canticchiavano le canzoni di Spinetta.

A quelli di noi che invece s’impegnarono è stata data – e si dà ancora -  un’importanza eccessiva. È vero che la storia non è stata fatta dalle migliaia di persone che il 25 maggio 1810 restarono a casa, ma da quelle duecento o trecento che scesero in piazza. A definire una generazione sono i pochi che agiscono e non i molti che non lo fanno? Probabilmente è così, e per tutti gli altri è facile. In ogni caso, il mito ha un suo scopo. Per esempio, un trucco facile: parlare di quello che alcuni di noi fecero negli anni settanta è un modo per non parlare di quello che abbiamo fatto tutti noi nei quarant’anni successsivi.

Eppure voglio cominciare proprio da lì: furono anni, come tutti, strani. Cominciammo le nostre vite in un mondo convulso, pieno di speranze: tutto doveva cambiare, tutto stava cambiando. Qualsiasi ragazzo più o meno perbene sapeva che quell’ordine sociale era ingiusto e che un altro doveva sostituirlo: la questione non era se la società dovesse cambiare, ma come, con quali mezzi, in che direzione. In modi diversi, ci provammo in molti. Perdemmo. Perdemmo brutalmente, ma ci provammo.

Quell’Argentina era piena d’infamie. La gestivano generali pronti a intervenire contro qualunque cosa minacciasse il potere di una borghesia ricca, con i suoi enormi campi e le sue medie industrie, che sfruttava operai e braccianti, che si allineava con gli imperi contro le colonie, che controllava la nazione e lo stato a suo beneficio. Decidemmo, a ragione, di lottre contro quel sistema. Ma nel 1970 gli argentini sotto la soglia di povertà erano uno su trenta, e oggi sono uno su tre: dieci volte di più. All’epoca tutti pensavano che la povertà fosse uno stato transitorio in attesa di una situazione migliore, di un posto in una fabbrica per poter avere una casa, mandare i figli a scuola, guadagnare un po’ di più, essere sfruttato meglio, “progredire”.

Il mito della mobilità sociale continuava a dominare. Era un paese con una classe media ampia e più o meno istruita che ci faceva disperare: un ostacolo per qualsiasi tentativo di cambiamento rivoluzionario. Una classe media che si formava nella scuola pubblica, pensata come uno strumento per omogeneizzare la società e creare basi comuni, dove imparavamo tutti che non eravamo troppo ricchi, troppo bigotti o troppo sciocchi. La peculiarità argentina stava nelle sue scuole statali: il privato era sempre stato una caratteristica delle società latinoamericane. L’Argentina invece era il paese del pubblico. Non lo è più. Cinquant’anni fa solo un argentino su dieci frequentava una scuola privata: oggi sono tre su dieci. È un altro dato decisivo.

Alcuni di noi volevano cambiare quel paese, altri no. Insieme l’abbiamo cambiato in peggio. Siamo la generazione della caduta. Ora, cinquant’anni dopo, il terzo della popolazione più povero si è congelato: vive ai margini, in case precarie, con un lavoro illegale o senza un lavoro, dipendente dallo stato e dalla sua elemosina. È completamente fuori dal sistema e non ha aspettative di rientrarci: vive esposto alle intemperie. Non ha futuro. E tedenzialmente al futuro non ci crede nessuno (continua) (Martin Caparròs, La colpa è nostra, Internazionale n. 1209 del 16 giugno 2017).

 
 
 

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