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Messaggi del 28/06/2017

La colpa è nostra - terza parte

Post n°2258 pubblicato il 28 Giugno 2017 da namy0000
 

Così l’Argentina oggi è di nuovo quel granaio che aveva cercato di lasciarsi alle spalle cent’anni fa, quando alcuni pensarono che non bastava esportare carne e grano e decisero di stimolare l’industria. Oggi, grazie alla soia, siamo di nuovo un enorme campo coltivato e ci rallegriamo di poter vendere qualche limone. Questa riconversione – questo ritorno al passato – è la decisione più importante di tutti questi anni e non ne abbiamo mai parlato, non l’abbiamo mai davvero deciso. Perché farlo? C’era la democrazia.

Senza idee, senza dibattito, senza possibilità di futuro, l’Argentina, nei nostri anni, è diventata un paese reazionario: un paese in cui ogni governo fa così tanti disastri che il governo successivo entra in carica per porvi rimedio. Il governo di Alfonsin è arrivato per rimediare alla rete assassina della dittatura; il governo di Menem per rimediare al caos economico dell’iperinflazione di Alfonsin; il governo di de la Rüa per rimediare alla corruzione menemista; il governo di Kirchner per rimediare al disastro neoliberista antistatale menemista-delaruista; il governo di Macri per rimediare al caos di corruzione  e clientelismo del kirchnerismo. E andiamo avanti così: anche il governo attuale si sta dando da fare. Perché il problema comincia quando finisce la reazione: appena cominciano ad applicare le loro ricette i nuovi governi preparano, con i loro disastri, la reazione successiva. Un paese reazionario è un paese senza progetti, fatto e disfatto con approssimazione, un paese carosello: il nostro.

Siamo, al di là delle maschere politiche, venali. Siamo avidi, pieni di voglie. Ci piacciono troppo certi piccoli piaceri: il televisore più grande, la macchina più lucida, il viaggio da fare invidia. E saliamo su qualsiasi carro che ci offra queste caramelle. Non ci piace più immaginare a lungo termine, darci degli obiettivi, cercare. Forse perché abbiamo visto che quando abbiamo cercato non abbiamo trovato, e allora non cerchiamo più, non troviamo più. Il punto è che siamo diventati un paese di brontoloni innocui: sembra che siamo spietati, che siamo pieni di sacrosanto onore e orgoglio che ci spingono a rifiutare tutto quello che non risponde a non si sa bene cosa. Ma poi passiamo la vita accettando di tutto.

Sempre più spesso, gli atteggiamenti anormali ci sembrano normali: ci sembra normale che molte persone mangino poco, vivano male, muoiano presto; che la violenza, verbale o fisica, sia il nostro modo di essere; ci sembra normale essere ingannati. Un mese fa, in uno stadio di calcio, un ragazzo ha riconosciuto un uomo che, al volante di una macchina lanciata a tutta birra, aveva ucciso suo fratello. Gli ha detto qualcosa: l’omicida, per toglierselo di dosso, si è messo a gridare che il ragazzo era tifoso della squadra avversaria e ha cominciato a picchiarlo. Altri si sono uniti. Emanuel Balbo ha cercato di fuggire ma non ci è riuscito: è caduto, è morto. Ormai cadavere, fermo a terra, i tifosi hanno continuato a insultarlo perché, dicevano, era un tifoso dell’altra squadra. Qualcuno gli ha rubato le scarpe.

Allora due o tre persone hanno detto che era intollerabile, e tutti abbiamo tollerato. Siamo come la rana di una vecchia storia: ci hanno messo a bagno nell’acqua tiepida, poi hanno cominciato a riscaldare quell’acqua e, con il tempo, ci siamo abituati a vivere in un paese che bolle; o bolle quasi, perché non abbiamo abbastanza gas. Siamo come la rana che si è abituata; siamo, in fin dei conti, gente che sbuffa. Sbuffare, diceva qualcuno, serve solo se dopo ci si dà da fare. Altrimenti è uno sfogo. Lo sfogo è l’abitudine più argentina. Abbiamo sbuffato e ci siamo costruiti un paese a immagine e somiglianza dello sfogo; un paese in preda al malumore che grida per la rabbia ma che è così soddisfatto di sé, così ingannato da sé stesso che ha potuto credere a una presidente quando ha detto  che in Argentina c’era meno povertà che in Germania. Un paese che continua a pensare di avere un posto nel mondo. Un paese che non vuole vedere le cose come stanno. Ci viene in aiuto, al massimo, un merito che non ci abbandona: continuiamo a sfornare facce per le magliette di tutto il mondo. Se prima sono stati Ernesto Guevara o Eva Perón e poi Borges o Maradona, adesso è Jorge Bergoglio: la quantità di personaggi globali prodotti dall’Argentina non è proporzionale al suo ruolo nella cultura e nell’economia del mondo. Anche se in questo senso c’è qualcosa che forse ci definisce: siamo dei grandi della maschera.

 

È difficile, per esempio, negare che le persone che hanno avuto più successo della nostra generazione siano quei due cinquantenni che il novanta per cento degli argentini ha votato, un anno e mezzo fa, per farsi comandare. È difficile sopportare che a governarci siano un signore che quando parla non parla e un altro che mente perfino quando tace, e che altri vessilli del paese siano un ex calciatore un tempo straordinario che oggi è diventato un pensionato triste, e un musicista un tempo straordinario che è diventato un pensionato triste. Mauri, Daniel, Diego, Charly. Andiamo forti sulle maschere. E, sempre di più, sui pensionati tristi. Siamo molto mediocri. O quantomeno: le nostre azioni pubbliche sono mediocri, hanno risultati mediocri.

 
 
 

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