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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 20/10/2017

Un Nobel alle donne

Post n°2385 pubblicato il 20 Ottobre 2017 da namy0000
 

Un Nobel alle donne che credono nella pace. Beatrice Fihn, 37 anni, direttrice esecutiva della coalizione internazionale di organizzazioni, oltre 468 gruppi, non governative che chiedono l’abolizione delle armi nucleari, ha ricevuto il Nobel. All’annuncio del riconoscimento ha detto: ‹‹Sono sorpresa e commossa. È un premio importantissimo per tutti coloro che lottano contro le armi nucleari, un tributo ai sopravvissuti di Hiroshima e alle vittime dei test nucleari che ancora si fanno››. A luglio l’Ican ha ottenuto, da parte dell’Onu, l’approvazione del trattato che vieta le armi nucleari, un traguardo storico, ma per renderlo operativo dovrà essere ratificato da 50 Stati. Non sarà facile. Lo sa bene Beatrice Fihn che, consapevole del drammatico momento che stiamo vivendo, ha lanciato un appello: ‹‹Lo spettro di un conflitto nucleare si aggira di nuovo nel mondo, mentre dichiarazioni di fuoco rischiano di condurci facilmente, inesorabilmente verso un orrore indicibile se c’è un momento in cui le nazioni devono dichiarare la loro opposizione senza equivoci alle armi nucleari, quel momento è ora. Tutti dovremmo scendere in campo per condannare una condotta dissennata e illegittima come quella di Donald Trump e di Kim Jong-un››. Le parole coraggiose e forti di questa donna, arrivata a questo importante incarico dopo un lungo impegno nella Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà (Wilpf), riecheggiano quelle delle migliaia e migliaia di donne che operano per la pace, denunciano la tragedia delle guerre in atto, promuovono progetti decisivi per uscire dal buio verso la speranza. Sono le sentinelle che vedono quanto all’uomo sfugge. Sono l’anima di una società civile che, con scelte difficili e controcorrente, cerca di difendere il futuro, in bilico, dell’umanità. Il Nobel assegnato all’Ican va anche a tutte queste donne che non arriveranno mai a Oslo ma che si sentono rappresentate da Beatrice Fihn saranno le donne a salvare il mondo? (Mariapia Bonanate, FC n. 42 del 15 ott. 2017). 

 
 
 

Il lavoro non può finire

Non può finire né ridursi perché è amore e cooperazione. Quando lavoriamo la nostra intelligenza si esalta. E sul lavoro fonderemo ancora la nostra democrazia.

È ormai diventato comune tratteggiare scenari cupi sul lavoro di domani. È urgente discuterli e, possibilmente, arricchirli e rettificarli, perché il lavoro oggi ha bisogno soprattutto di sguardi generosi e di parole realiste ma piene di speranza. Sociologi, filosofi, giornalisti, futurologhi, continuano a ripeterci che di lavoro ce ne sarà sempre meno, che nell’età di internet e dell’intelligenza artificiale dobbiamo rassegnarci a lasciare fuori dal lavoro più o meno la metà della gente in età lavorativa. Saranno le macchine a lavorare per noi, noi semplicemente faremo altro, e sopravvivremo grazie alla grande produttività dei robot che consentirà a tutti di ricevere una somma di denaro sufficiente per vivere. I più abili e formati lavoreranno in sinergia con i computer, e faranno funzionare perfettamente il sistema economico, che sarà talmente perfetto da non aver più bisogno di noi.

In fondo, qualcuno aggiunge, nelle civiltà passate, i lavoratori veri e propri sono stati sempre pochi: la maggior parte della popolazione era infatti composta da cortigiani, nobili, monaci e religiosi, mendicanti, malati, servi, schiavi, o donne che non erano nel 'mercato del lavoro' (anche se hanno lavorato sempre più di tutti). Altri scenari già più positivi immaginano – sempre in un quadro di un lavoro sempre più scarso – che dovremo ridistribuire il lavoro rimasto, lavorando tutti meno per poter lavorare tutti. La settimana lavorativa si ridurrà cosi a 15 o al massimo 20 ore. Lavorare come attività prevalente delle persone adulte, sarebbe stata una fase storica durata più o meno un secolo e mezzo in Occidente, e presto torneremo nella situazione che ha caratterizzato l’umanità per millenni. Una eccezione, una parentesi, una eclisse, una anomalia.

Se questo paesaggio fosse davvero l’unico o soltanto quello più probabile, dovremmo davvero essere molto preoccupati. Ma, grazie a Dio, sulla linea dell’orizzonte ci sono colori meno cupi, che fanno pensare e sperare che il tempo di domani sarà bello. Innanzitutto, dovremmo capire un po’ meglio che cosa è diventato il lavoro in questo secolo e mezzo diverso della traiettoria dell’Occidente. Il lavoro come lo conosciamo oggi non è il frutto di una evoluzione graduale nei secoli passati. No, il lavoro moderno è soprattutto una invenzione, una immensa innovazione arrivata da una congiunzione astrale di molti elementi: l’Umanesimo, il cattolicesimo sociale, la Riforma protestante, il movimento socialista, la cooperazione, i movimenti sindacali, le ferite dei fascismi e delle guerre. Grazie a tutto ciò, in quel breve lasso di tempo il lavoro ha dato vita alla più grande cooperazione che la vicenda umana abbia mai conosciuto nella sua lunga storia. Lavorando, e riempiendo il mondo del lavoro di diritti e di doveri, abbiamo creato una rete sempre più vasta fino a coprire quasi tutto il mondo. I prodotti e i servizi che popolano la nostra vita sono il frutto di una cooperazione di milioni e milioni di persone. Perché io possa scrivere e voi possiate leggere questo articolo, c’è bisogno della cooperazione di decine di migliaia di persone, se non di più – dalla redazione del giornale, alle tipografia, le spedizioni, gli aerei e i treni che trasportano le copie, tutta la rete distributiva, l’energia elettrica, la rete internet, l’industria della carta... Non è una cooperazione romantica né carina: a volte lavorare è duro, durissimo, si muore anche lavorando, e si muore anche perché il lavoro è serio e tremendo come lo è la vita. La democrazia è anche questo, una immensa, implicita, forte, capillare, azione congiunta, che moltiplica le opportunità e la biodiversità economica e civile della terra. Il mercato è questa grande cooperazione, anche quando prende la forma della concorrenza – cooperiamo anche competendo, in modo corretto e leale, sui mercati: uno degli errori teorici e pratici più gravi è contrapporre concorrenza a cooperazione.

Imparando a lavorare, e a lavorare con gli altri, abbiamo orientato le nostre energie e la nostra creatività in modo che potessero fiorire pienamente, e raggiungere e servire un numero sempre maggiore di persone. Noi abbiamo molti modi per esprimere la nostra intelligenza, creatività, amore; ma quando lavoriamo la nostra intelligenza-creatività-amore si esalta, si sublima. Diventa qualcosa di meraviglioso. Mozart ha fatto molte cose nella sua vita, ma quando componeva Mozart era Mozart davvero. Il mio amico Vittorio faceva molte cose, di qualità diversa, ma quando riparava le auto era veramente Vittorio. E io ho imparato a conoscerlo quando ho cominciato a guardarlo lavorare, perché quando lavorava, nella fatica e con le dita nerissime, la sua personalità fioriva, e la sua anima più vera si svelava. Lavorare è anche un modo adulto di amare, un modo serio e vero che abbiamo di contribuire al bene nostro e a quello degli altri. Se un giorno tornasse qualcuno dal passato e mi chiedesse: 'ho solo due ore, mostrami la cosa migliore che avete fatto voi umani in questi secoli', non lo porterei in un museo, né in una chiesa: lo porterei con me in una impresa, in una fabbrica, dove la gente sta dando vita ad una grande azione collettiva generativa (e poi salutandolo gli leggerei una poesia che non conosce: l’arte è una alta forma di lavoro). Abbiamo sconfitto mille malattie, siamo arrivati fino a Marte, semplicemente lavorando, e lavorando molto. E se domani riusciremo a sconfiggere le altre mille malattie, a sfamare tutti, a far studiare bene tutti i bambini e i giovani della terra, lo faremo soltanto lavorando, lavorando molto, lavorando meglio, lavorando insieme. Noi esseri umani, non sappiamo fare di meglio sotto il sole. Se, allora, dovessimo smettere di lavorare, o lavorare troppo poco, il vero rischio è che orienteremo le nostre energie in attività meno appassionanti, serie, responsabili, difficili, sfidanti, del lavoro, e, forse, riprenderemo ad esercitarci troppo nell’arte della guerra.

Non è vero che il lavoro finirà. Chi lo dice sottovaluta l’intelligenza, la creatività e l’amore delle donne e degli uomini. Faremo lavori diversi, molti più servizi e meno catene di montaggio, ma continueremo a lavorare, a cooperare a volerci bene lavorando. E domani benediremo la tecnologia che ci ha liberato da lavori poco interessanti per poterne fare di migliori. Siamo stati capaci di produrre macchine e robot così intelligenti da poter fare (quasi) a meno di noi, perché abbiamo lavorato molto, insieme, e abbiamo messo nel lavoro la nostra intelligenza migliore. Finché ci sarà qualcuno che si inventerà qualcosa per soddisfare il bisogno di un altro, finché creeremo occasioni sempre nuove di mutuo vantaggio, il lavoro non finirà. E la nostra vera ricchezza delle nazioni continuerà ad essere la somma dei rapporti mutuamente vantaggiosi che riusciamo a immaginare e poi a realizzare. Finché ci guarderemo gli uni gli altri come portatori di bisogni e di desideri non ancora espressi, e utilizzeremo la nostra meravigliosa intelligenza e il nostro amore creativo, ci sarà lavoro: per tanti, forse per tutti.

 

Lavoreremo diversamente, ma continueremo a lavorare. Non abbiamo niente di meglio da fare. Continueremo ad esseri fondati sul lavoro, e sul lavoro a fondare la nostra democrazia.  L.bruni@lumsa.it, 19 ott. 2017.

 
 
 

Referendum consultivo

Post n°2383 pubblicato il 20 Ottobre 2017 da namy0000
 

Renato Balduzzi, Avvenire, giovedì 19 ottobre. Il prossimo 22 ottobre gli elettori lombardi e veneti potranno recarsi alle urne e votare, un referendum a carattere consultivo, su due quesiti concernenti una maggiore autonomia. La giustizia, intesa qui come sistema giurisdizionale, ha a che fare con le autonomie regionali, tanto da occuparcene in questa rubrica? La risposta è positiva. Per comprendere i referendum lombardo-veneti è utile la sentenza 118 del 2015 della Corte costituzionale (redatta dalla vicepresidente Marta Cartabia), con la quale la Corte ha precisato che i referendum regionali consultivi non possono mai contraddire l'unità della Repubblica, né interferire con la materia tributaria, né violare i principi costituzionali in tema di coordinamento della finanza pubblica e in particolare alterare gli equilibri della medesima, incidendo sui legami tra popolazione regionale e nazionale.
In quell'occasione la Corte ha fatto salvo, tra i tanti quesiti veneti, solo quello oggetto della prossima consultazione, in quanto verte sulle "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" di cui all'art.116 della Costituzione, senza interferire sullo speciale procedimento ivi previsto (iniziativa regionale, intervento consultivo degli enti locali, intesa tra la Regione interessata e lo Stato, legge approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti), che rimane giuridicamente autonomo e distinto dal referendum, «pur potendo essere politicamente condizionato dall'esito».
Il 22 ottobre non sono in gioco le risorse, nel senso del rapporto tra gettito tributario riscosso in una regione e ammontare della spesa pubblica nella stessa (nonostante l'allusione nel quesito lombardo), né potrebbero esserlo: proprio l'art. 116 precisa che la maggiore autonomia eventualmente attribuita alla Regione deve rispettare i principi dell'art. 119 della Carta, che stabiliscono la solidarietà tra cittadini e territori con minore capacità fiscale. Se amplio, ad esempio, i poteri di una regione in campo sanitario, ciò non significa meno risorse per la sanità delle altre regioni, in quanto tutti i cittadini hanno diritto alla tutela della salute sulla base di una quota capitaria di finanziamento. Ciò chiarito, non bisogna temere la differenziazione, anche nel senso dell'attribuzione di ulteriori competenze alle regioni che se lo possano permettere: la nostra Costituzione ha inserito all'art. 5 l'autonomia come principio e (lo disse il grande costituzionalista Carlo Esposito) l'unità e indivisibilità della Repubblica come limite. Ma se è vero che nei referendum, non solo in quelli consultivi, è frequente lo scarto tra oggetto del quesito e significato politico, è altresì importante che tale scarto tra quesiti (veri) e allusioni (ambigue) sia chiaro all'elettore e ai promotori.

 
 
 

Ius soli

Post n°2382 pubblicato il 20 Ottobre 2017 da namy0000
 

Giacomo Poretti. Non so di «Ius», ma di persone giuste.

«Bisogna essere sicuri che la cittadinanza venga assegnata solo a chi condivide la nostra cultura e i suoi valori? Può darsi, ma questo non ci metterebbe comunque al riparo da pericoli».

Viviamo in un’epoca complicata fatta di parole difficili, e ad aggravare la situazione ogni giorno ne nascono di nuove, misteriose e minacciose. In particolare a me inquietano i prefissi: post, trans, multi, pan, meta, inter... E non è finita: ti svegli un mattino e ti senti dire che devi decidere se ti va bene il Mattarellum – ma cos’è? – o il Porcellum, «Lo gradisci il Porcellum oppure no?», «preferirei il Rosatellum», «a me no grazie, il rosato fa venire il mal di testa...». Ma non avevano detto che era l’inglese la lingua su cui investire per il futuro? Che se non impari l’inglese sei un uomo finito, se i nostri figli non fanno 20 ore di inglese alla settimana finiranno per essere dei derelitti? E com’è che saltano fuori tutte ’ste parole in latino? La cosa è ancor più stupefacente perché mi risulta addirittura che ci siano progetti di legge intenzionati ad abrogare il latino come insegnamento scolastico, e di converso ogni giorno nasce una proposta di legge con il nome in latino.

Ma perché? Per ammansire le astrusità e le nefandezze che potrebbe nascondere i disegni di legge? Secondo me semplicemente perché abbiamo provato a imparare l’inglese ma non ci siamo riusciti. Non che con il latino ce la caviamo meglio... «Cosa ne pensi dello Ius soli? ». «Ma che devo dire? lo accetto obtorto collo, l’importante che non sia sine die ». «Non si preoccupi, lo faranno una tantum». « us soli, una tantum? ». «Ma che vuole, mutatis mutandis, nos italici semper defecare fecimus... ». Devo dire la verità: è un’impresa ardua per ogni italiano avere un’idea chiara su quel che sta succedendo, anche perché spesso non sappiamo di cosa parliamo. Voi credete che sia semplice spiegare a mio figlio cosa significhi Ius soli, io che ho un diploma in Tecniche infermieristiche? La questione si complica ulteriormente perché i promotori della legge hanno precisato che, eventualmente, il nostro Ius si farebbe, sì, ma sarebbe in ogni caso Temperato. Il famoso Ius soli temperato!

Da non confondere con il clavicembalo ben temperato. Del resto non si può pretendere che un politico faccia bene lo ius, è già tanto che gli riesca temperato. Per completezza di informazione dovrei aggiungere che la proposta di legge prevede anche la variante dell’applicazione dello Ius culturae, ma non tocca, al momento, lo Ius sanguinis. Noi italiani siamo fatti così: l’aperitivo preferiamo chiamarlo happy hour, scaricare è provinciale e allora è meglio download, after shave è meglio di dopobarba, bipartisan è chic, condiviso è cheap, benchmark è figo, confronto è roba da vecchi. Noi italiani siamo sempre stati attratti da parole che non comprendiamo. Comunque, se le parole sono difficili figuriamoci i concetti che rappresentano. Prendiamone solo uno. Lo Ius soli 'temperato' che è nella legge presentata al Senato prevede che un bambino nato in Italia diventi automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trova legalmente nel nostro Paese da almeno 5 anni. Se il genitore in possesso di permesso di soggiorno di lunga durata non proviene dall’Unione europea, deve aderire ad altri tre parametri: avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale; disporre di un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla legge; superare un test di conoscenza della lingua italiana.

Scusate, ma 50 anni fa la famiglia del mio amico Pino, che all’epoca della sua venuta a Milano aveva 3 anni, secondo voi viveva in alloggi con requisiti di idoneità? La risposta è sicuramente no, perché anche la stragrande maggioranza dei lombardi – tipo io – vivevamo all’epoca in 4 in una stanza e mezzo, figuriamoci i terroni come il mio amico Pinuzzo. E secondo voi la famiglia di Pino, compresa la nonna Rosalia, avrebbe superato il test di lingua italiana? Per la verità nemmeno adesso, dopo 50 anni, la nonna Rosalia passerebbe l’esame d’italiano senza copiare i compiti di Pino, diciamo che in due si porterebbero a casa un risicato 6 meno. Certo voi direte: ma che esempio è? Pino e la sua famiglia sono sì meridionali ma comunque italiani, non c’è stato bisogno di applicare nessuno Ius, perché loro quando venivano, tra l’altro, non erano mai soli ma spesso accompagnati. Cosa volete che vi dica: noi lombardi siamo da sempre dentro a questa storia.

Questa è una storia di gente che si sposta, di gente che cerca di spostarsi nel posto giusto; ma questa è anche una storia di gente che sta ferma nel suo posto perché pensa che il suo sia il posto giusto. Questa è una storia di immigrazione: senza il flusso – il movimento delle persone che si spostano verso quelle che stanno ferme – non succederebbe nulla. Questa storia parte da lontano per arrivare a Milano. Quelli che partono da lontano non sono milanesi, quelli che stanno fermi sono i milanesi. Si potrebbe dire che l’immobilismo dei milanesi è inversamente proporzionale alla frenesia delle altre etnìe.

I milanesi sono fatti così: ti accolgono volentieri a cena ma devi essere tu a muoverti. E così hanno fatto per secoli, con tutti: con i romani, con i barbari, con gli spagnoli, i francesi, gli austriaci, i filippini, gli equadoregni, gli albanesi, e i terroni. Per farvi capire come sono fatti i milanesi, dovete prendere uno come Giovanni: lui ha la spocchia di dire che stava bene anche da solo, ma in realtà si è fatto visitare da chiunque, anche da Aldo e Giacomo. In effetti ci sarà un motivo per venire così in tanti a Milano, che l’aria non è così salubre, il mare non c’è, la montagna la si vede solo nelle giornate con il cielo terso. Uno può venire a Milano come Modu, che lavora fuori da un supermercato da 21 anni, vende gli incensi, le calze che infeltriscono subito e gli ombrelli da 5 euro che si spaccano alla prima raffica di vento. Se gli dai 3 euro ti porta la spesa a casa, alla mattina scopa i mozziconi fuori dall’ingresso e sistema i carrelli. O quell’altra, di cui nessuno sa il nome, che da 35 anni lavora al semaforo dell’incrocio tra viale Sabotino e via Ripamonti, non ha mai mancato un giorno. Alla fine diventano precisi e stakanovisti come noi milanesi: se non passi un giorno dal semaforo la signora è capace che ti dica «Ieri abbiamo battuto la fiacca, eh?!?». Non lo so quale Ius sia più giusto.

 

Qualche persona più istruita di me ha dichiarato che bisogna essere prudenti ed essere sicuri che la cittadinanza italiana venga assegnata a chi sicuramente condivide la cultura e la comunità italiana nei suoi valori e ordinamenti. Ecco, vorrei solo far notare che questo, quando anche accadesse, non metterebbe sicuramente al riparo la nostra nazione da pericoli di distruzione: ci sono stati italiani di generazioni e generazioni che hanno attentato allo Stato e alla nazione, ci sono italiani che lo sono da sempre eppure sono contro i valori fondanti della nostra Patria, e la loro azione malavitosa perseguita ogni santo giorno mira a conquistare porzioni importanti di potere da contrapporre allo Stato legittimo. Non è necessario essere italiani all’anagrafe per desiderare e operare il bene.( Giacomo Poretti, Avvenire, giovedì 19 ottobre 2017)

 
 
 

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