Messaggi del 14/03/2018
Post n°2564 pubblicato il 14 Marzo 2018 da namy0000
“(...) Non viviamo fuori per scoprire gli altri, ma per scoprire noi stessi. A volte bisogna vivere fuori per guadagnarsi da vivere; a volte viene voglia di farlo per liberarsi delle nevrosi nazionali o perché siamo vinti dalla sensazione di vivere in un paese freddo e feroce, moralmente abietto. Un paese in cui finisce in carcere chi ruba dieci euro, ma non chi ruba dieci milioni. In cui la vita pubblica sembra un letamaio dove grufolano svergognati specializzati nel dare lezioni di etica e bugiardi travestiti da paladini della verità. In cui la televisione fa schifo e pena, mentre le scuole, le università e le librerie fanno solo pena. Un paese di vincitori e di perdenti in cui non sappiamo né vincere né perdere, perché le sconfitte sono attribuite sempre agli altri e le vittorie a noi stessi, e perché i vincitori conoscono solo la strafottenza e i perdenti il rancore. (...) Ma non è vero: non siamo essenzialmente peggiori di altri, anche se a volte lo sembriamo. (...) Quindi, come si suol dire, tutto il mondo è paese, e la Spagna di oggi non è affatto un’eccezione. In effetti, molti stranieri che visitano il nostro paese si stupiscono del fatto che, nonostante la situazione in cui viviamo, le strade siano ancora animate da una gioia di vivere permanente e non ci sia stata un’esplosione sociale, cosa che in parte si deve, come tutti sappiamo, a una doppia ong chiamata famiglia e amici. Lungi da me fare il patriottico, ma questa predisposizione all’allegria tragica e per la compassione reale sono, a mio parere, due notevoli virtù. Anche se forse per apprezzarle del tutto c’è anche bisogno di vivere fuori. Forse per vivere dentro bisogna vivere fuori” (dall’altricolo Vivere fuori, Javier Cercas, El Pais, Spagna, pubblicato in Italia dal settimanale Internazionale, n. 1062 dell’1 agosto 2014). |
Post n°2563 pubblicato il 14 Marzo 2018 da namy0000
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Post n°2561 pubblicato il 14 Marzo 2018 da namy0000
“Per ogni persona che parla, soprattutto quando parla e scrive pubblicamente, deve arrivare il momento in cui chiedersi: "A chi sto, veramente, parlando? Per chi sto, veramente, scrivendo? E che posto ha la verità nella mia parola?". Sentire l’urgenza dell’onestà della parola è una tappa fondamentale nella vita di chi parla e scrive, e quindi praticamente nella vita di tutti; perché è sempre forte la tentazione di usare e strumentalizzare la parola e sganciarla dall’umile e difficile verità, zittire l’unico "spirito" vero per adorare gli spiriti falsi e mortiferi degli idoli. Una tappa decisiva, che può anche non arrivare mai. La lettura onesta di Giobbe è un grande aiuto per far emergere la possibilità di questa tappa. Quando invece questo momento decisivo non arriva, o quando posti davanti al bivio scegliamo di dar voce allo spirito sbagliato, la parola perde la sua forza creativa ed efficace, diventa esercizio formale, tecnica da usare a proprio vantaggio. La parola usata e non rispettata è sempre parola abusata, perché smarrisce la sua natura più profonda e vera, la gratuità È dentro questa "economia" della parola e delle parole che si capisce, con tutta la sua forza scandalosa, il "giuramento"di Giobbe, uno dei capolavori del libro: «E alzando il tono della sua profezia, Giobbe dice: "Per il Dio vivo che mi nega giustizia, e per Shaddai funesto alla mia vita. Finché il respiro mi resterà, finché avrò nel mio naso il soffio di Elohim, le mie labbra non mentiranno. Dalla mia lingua non uscirà impostura. Dio mi guardi dal darvi ragione. Fino alla morte mi dirò innocente. … Il mio cuore non ha vergogna di me. Chi mi è nemico sia condannato. Chi è contro di me sia incolpato"» (27,1-7). Giobbe può fare ora questo giuramento perché ha custodito fin qui la verità delle sue parole. Solo chi è fedele alle parole può chiedere tutto”. (Un uomo di nome Giobbe, Avvenire del 17 maggio 2015). |
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il 08/09/2024 alle 08:55
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