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Un mondo nuovo

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Messaggi del 12/05/2019

La vita è uno sballo

Post n°3023 pubblicato il 12 Maggio 2019 da namy0000
 

C’è cascata, Giorgia B., vent’anni fa. aveva 16 anni e la spensieratezza dell’adolescenza: ‹‹Cosa vuoi che sia una mezza pasticca di ecstasy?››. Quella mezza pasticca le ha mandato in tilt la vita: epatite fulminante, la corsa in ospedale, il fegato in necrosi, il trapianto come unica possibilità di salvezza. La sua vita resta in bilico per settimane: ‹‹Sono stata per un mese e mezzo in terapia intensiva. In quei giorni parlavo con il Signore e gli chiedevo di darmi forza per andare avanti. Era un dialogo serrato e disperato. La mia fede, fino ad allora quasi routine, ha assunto un significato diverso, più profondo››. La situazione, lentamente, migliora. ‹‹Se esco viva da qui giuro che andrò di scuola in scuola a dire ai ragazzi che la droga fa schifo, qualsiasi droga fa aschifo e può uccidere anche se si prende una sola volta, come è successo a me››.

È stata di parola. Da 12 anni Giorgia gira scuole, comunità di recupero, chiese, carceri. Ogni anno incontro qualcosa come 20.000 persone, soprattutto giovani. La vita da trapiantato è un equilibriscmo sottile, basta poco per precipitare. La morte si sconta vivendo. Giorgia lo sa bene e lo ha raccontato in due libri: Vuoi trasgredire? Non farti (San Paolo, 2010) e Io non smetto – La vita è uno sballo (Piemme, 2018) e in un film, uscito di recente, La mia seconda volta, distribuito da Dominus Production. ‹‹Non voglio fare la morale a nessuno››, racconta Giorgia, ‹‹il mio obiettivo è triplice: informare, far riflettere ed emozionare. Ai ragazzi non dico mai: non fatevi, ma li faccio ragionare››. Funziona? ‹‹Sì, sui social mi arrivano 400 messaggi al giorno. Chi mi incoraggia ad andare avanti e chi mi racconta la sua storia››.

‹‹CONVINTI DI SAPERE››. Giorgia ha un cruccio: ‹‹I ragazzi sulla droga sono informati poco e male, però sono convinti di sapere e con la saccenteria tipica degli adolescenti finiscono per sbagliare. A volte si può rimediare, altre no››. Esempi? ‹‹Quando chiedo di indicarmi quale paese abbia eventualmente legalizzato la marijuana per scopi ludico-ricreativi rispondono l’Olanda. Falso, è stata solo depenalizzata. Come in Spagna. Molti ragazzi italiani vanno a Barcellona, arrivano gli spacciatori sulla rambla, ti propongono stupefacenti e poi ti portano nei cannabis social club dove si fumano gli spinelli. Questi ragazzi pensano che sia legale, invece no. O meglio, è legale solo per i residenti, per gli stranieri no››. Giorgia nelle scuole è un ciclone: ‹‹Gli adolescenti di oggi hanno bisogno di essere ascoltati e questo richiede tempo. A volte gli rispondo sui social e alcuni restano scioccati. Un ragazzo mi ha scritto: “È bellissimo che tu da adulta non ti sei dimenticata quando si è giovani e come si parla ai giovani”››.

La droga è solo la punta dell’iceberg. Sotto covano disagi, incapacità di accettare i propri limiti, difficoltà nelle relazioni: ‹‹Io non giudico mai nessuno, e in una società che predica la perfezione, gli dico che non esiste e che la vita consiste nell’accettare e valorizzare i propri limiti trasformandoli in punti di forza››. La riprova che Giorgia fa breccia? ‹‹Mi ascoltano in silenzio; i più scettici, che all’inizio volevano andarsene, sono quelli che alla fine mi fanno un sacco di domande››.

‹‹BISOGNA PARLARE››. Ogni anno vengono immessi sul mercato oltre 50 nuovi tipi di droghe: ‹‹L’unica soluzione è parlarne››, dice Giorgia. Ma ha senso la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti? ‹‹Ai ragazzi dico sempre: che male può fare uno spinello? Anch’io lo pensavo, ma i medici mi hanno spiegato che droghe leggere e droghe pesanti hanno in comune la stessa parola: droga. Se prendi una pasticca di ecstasy puoi anche morire subito; se fumi marijuana non muori subito ma cominci a soffrire di attacchi di panico, tachicardia e magari finisci in ospedale. Alla lunga subisci danni gravissimi››.

LA VESTE BIANCA DI FEDERICO. Federico, un giovane cresciuto in una famiglia di Testimoni di Geova, che si è rifugiato nelle sostanze a 12 anni. Tutto è iniziato con le prime canne e con l’abuso di alcol arrivando presto a droghe pesanti e a vivere in funzione dell’eroina, della trasgressione, dei rave party. Ha venduto tutto, ha perso ogni cosa, ha rischiato più volte di morire. Quando ha chiesto aiuto a un amico è entrato in una comunità di Nuovi Orizzonti del Nord. Il cammino è stato faticoso e continua tutt’oggi. Federico ha ritrovato Dio grazie al percorso di guarigione del cuore proposto da Chiara A.. A ottobre mi ha chiesto di ricevere il Battesimo, Cresima e Comunione, perché sentiva che stava perdendo qualcosa di grande. Con la dovuta preparazione li ha ricevuti nella notte di Pasqua. Oggi è iniziata per lui una nuova vita, insieme ad altre 120 persone, con diversi vissuti, s’impegna a essere testimone dell’amore misericordioso di Dio! (FC n. 18 del 5 maggio 2019).

 
 
 

Dialoghi in città

Post n°3022 pubblicato il 12 Maggio 2019 da namy0000
 

2019, Avvenire 11 maggio. Giovani. Con il Sermig Bergamo diventa capitale della pace

Migliaia dall'Italia e dal mondo, duecento volontari. Nei «Dialoghi con la città» tanti testimoni, tra cui il direttore di Avvenire, in ascolto delle domande dei giovani

In piazza, tante voci si stanno unendo per un unico grido: «Basta guerre, facciamo la pace». E Bergamo, terra di papa Giovanni, per un giorno è capitale della pace, grazie al sesto Appuntamento internazionale dei Giovani della Pace organizzato dal Sermig.

Sono in migliaia e arrivano da tutta Italia e anche dal resto del mondo; duecento circa i volontari, soprattutto giovani: «Una testimonianza che è possibile costruire la pace – aveva spiegato l’organizzazione presentando l’evento -. Un pomeriggio di speranza con al centro le storie dai conflitti di ieri e di oggi, i progetti di bene dei giovani, la musica del Laboratorio del Suono, i volti e le voci del mondo». Alle 15, anticipata dalla “marcia di Felicizia” dedicata ai bambini, in piazza Vittorio Veneto si apre la manifestazione vera e propria: oltre a Ernesto Olivero, fondatore del Sermig, sul palco si alterneranno testimoni, rappresentanti delle istituzioni e della società civile.

Nei «Dialoghi in città» le domande dei giovani

Questa mattina, dopo la veglia di preghiera di silenzio e preghiera di ieri, Bergamo ha inoltre ospitato i “Dialoghi in città”: in diversi luoghi simbolici, tanti testimoni si sono messi in ascolto delle domande dei giovani, rispondendo con esempi concreti. Tanti i temi: dalla lotta alla droga alla resistenza nella Terra dei fuochi, dai conflitti alla speranza.

Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, nella cornice della chiesa di San Bartolomeo, i giovani hanno chiesto soprattutto le indicazioni per decifrare la realtà ai tempi delle fake news: «Informarsi vuol dire conoscere e sapere ciò che accade, e conoscerlo in profondità. Non bisogna limitarsi alla “buccia” – è la metafora utilizzata dal direttore -, che spesso è un ingannevole involucro messo attorno alla verità dei fatti. Le informazioni vanno verificate: la vera informazione porta con sé la fatica di verificare le cose. E capire come davvero stanno le cose ci porta nella direzione giusta: le ingiustizie finiscono quando le vediamo».

Di disarmo, invece, si è parlato nel dialogo tra Nello Scavo, inviato di Avvenire, e Vito Alfieri, ex produttore di mine che ha chiuso l’azienda di famiglia per diventare sminatore nei Balcani.

 
 
 

Speranza di riabbracciare

Post n°3021 pubblicato il 12 Maggio 2019 da namy0000
 

1942, Campagna di Russia. «Partimmo da Busca e ci fermammo a Milano-Lambrate, dove ebbi la sorpresa e la gioia di poter salutare la mia fidanzata», ricorda l’anziano ufficiale, mentre stringe, con affetto, la mano della donna che ha conosciuto nel 1941 e sposato nel ’52 e dalla quale ha avuto tre figli.

«Diedi cinque lire alla guardia e così riuscii a passare, portandogli un grosso sacchetto di caramelle per il viaggio», ricorda Maria Luisa (Marisa) Stradella, ex-insegnante di disegno e storia dell’arte, che il prossimo 11 ottobre entrerà nella cerchia dei centenari e, mentre il marito racconta, tratteggia su un’agenda il ritratto di don Carlo Gnocchi, l’indimenticato cappellano della Tridentina. Un’affinità, quella con santi e beati, di casa nella famiglia Razzini-Stradella: Marisa è cugina di santa Gianna Beretta Molla e Marco è secondo cugino del venerabile Marcello Candia.

«Quando arrivò l’ordine di ripiegare – ricorda Razzini – noi della Cuneense puntammo su Valuiki, dove ci scontrammo con i sovietici il 27 gennaio ’43». Accerchiati e rimasti senza munizioni, gli alpini dovettero arrendersi e anche il tenente Razzini fu fatto prigioniero e, con gli altri ufficiali italiani, inquadrato in una delle famigerate marce del “davai”, espressione che significa “avanti” e che i russi utilizzavano per spronare i prigionieri, affamati e stremati dalla fatica e dalle privazioni, ad avanzare più velocemente nella sterminata steppa ghiacciata. La maggioranza non sopravviverà a quel trattamento disumano.

«Dei 52 ufficiali del battaglione Dronero siamo tornati a casa soltanto in sei e della mia 17esima compagnia, solo io e un altro ufficiale», ricorda Razzini, elencando a memoria i nomi dei compagni morti e ricordando anche alcuni episodi della prigionia, durata ben tre anni e mezzo.

«Una sera – racconta Razzini e la voce quasi si spezza – trovo nella baracca uno dei miei alpini intento a cucinare una specie di brodaglia in un pentolino improvvisato. Guardo meglio e vedo galleggiare in superficie un pezzo di carne o qualcosa che le somigliava molto. Scopro così che, per la disperazione, quell’alpino aveva staccato un brandello di coscia da un compagno appena morto e se la voleva mangiare. “Siamo uomini, siamo alpini, non cannibali”, ho urlato, prendendo a bastonate quel povero alpino, ormai ridotto a uno scheletro».

Da tutto questo orrore, Razzini riuscirà ad uscire soltanto nella primavera del ’46, facendo rientro a Milano il 16 luglio. Ma alla Stazione Centrale non c’era la sua Marisa ad aspettarlo, trattenuta al liceo scientifico di Luino, in provincia di Varese, da un preside particolarmente insensibile al richiamo del cuore. Già, perché per tutto il tempo della prigionia, ogni settimana, la giovane era andata alla stazione con la speranza di leggere, tra i nomi dei rientrati, anche quello del suo alpino. E ignorando i “consigli” di chi le diceva di lasciar perdere, «che tanto il tuo Marco non torna». Invece, lei lo ha aspettato con pazienza e fiducia e, alla fine, è riuscita, finalmente, ad abbracciarlo. Coronando una storia d’amore e alpinità, sbocciata sotto le bombe e fiorita all’alba della nuova Italia liberata. Che anche gli alpini come il tenente Razzini (e tanti altri) hanno costruito forte e bella.(Avvenire, 11 maggio 2019)

 
 
 

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