Messaggi del 02/11/2020
Post n°3437 pubblicato il 02 Novembre 2020 da namy0000
padre Pier Luigi Maccalli. Missionario della Società delle Missioni africane, tra Costa d’Avorio e Niger, ha sempre avuto un’attenzione particolare per le donne vessate, la salute dei minori denutriti e l’istruzione dei ragazzi e giovani. Nato a Madignano, poco distante da Crema. Dopo due anni di prigionia in Niger, è stato liberato l’8 ottobre in Mali. Il giorno successivo è arrivato a Roma e da lì a Madignano, suo paese natio, dove il parroco e il sindaco hanno organizzato per lui un giro su un’auto decapottabile perché la gente potesse vederlo e salutarlo ai bordi della strada. A mezzogiorno il suono delle campane di tutte le chiese a festa. Qual è stata la prima cosa che ha fatto da uomo libero? «Piangere di gioia». Oggi come si sente? «Direi bene, sereno dopo la tempesta. Ma ho bisogno di tempo per rielaborare pensieri ed emozioni che tanto mi hanno scosso». Come è avvenuto il rapimento? «Era la sera del 17 settembre 2018, le 21,30 circa. Ero già in pigiama nella parrocchia di Bomoanga, in Niger, dove prestavo la mia opera, quando ho sentito dei rumori dietro la finestra dell’ufficio. Ho chiesto chi fosse, nessuna risposta. Assicurando io il servizio di distribuzione farmaci per le urgenze notturne, ho pensato che qualcuno avesse bisogno di medicine. Sono uscito. Davanti a me tre fucili. D’istinto ho fatto un balzo indietro e mi sono ritrovato con le mani legate dietro la schiena. Sono stati attimi convulsi». Ha capito il motivo del rapimento? «Quante volte mi sono fatto questa domanda! Mai ho offeso o parlato male dell’islam né fatto gesti irriverenti od oltraggiosi. Rapporti sempre amichevoli e cordiali con tutti. Anche la Missione è stimata per la vicinanza alla gente: nelle carestie ricorrenti distribuiamo cibo senza distinzione di appartenenza religiosa. Avevo aperto un centro per bambini malnutriti. Le mamme si fermavano per settimane con i figli malati e facevano la loro preghiera musulmana. Credo ci sia una politica di espansione jihadista dal Mali verso sud, con il progetto di estendersi a tutta l’Africa occidentale». Come ha vissuto la prigionia? «I primi sei mesi sono stato in totale solitudine tra le dune di sabbia del Sahara e pregavo. Non avevo niente da leggere. Né materiale per scrivere. Mi facevo del tè e cucinavo qualcosa con un pentolino. Giornate lunghe. Poi mi hanno messo insieme a Luca T., giovane padovano rapito nel dicembre 2018 in Burkina Faso, e dopo con Nicola C. di Napoli, sequestrato in Mali nel febbraio 2019, mentre andava in bicicletta verso Timbuctu. Ci sostenevamo a vicenda». Come l’hanno trattata i carcerieri? «Generalmente bene. Mi chiamavano shebani, che vuol dire vecchio. La mia lunga barba bianca doveva fare colpo su questi giovani imberbi. Le parole, invece, erano a volte offensive verso la mia fede. Per loro un cristiano non è un benedetto da Dio, ma un condannato all’inferno». Sapeva dove si trovava? «I trasferimenti erano continui, ma tutti nel Sahara maliano. Ho visto la varietà di questo immenso deserto». Cosa l’ha sostenuta? «La preghiera. Ripetevo le parole della consacrazione del pane eucaristico: “Questo è il mio corpo offerto, Signore, non ho altro”. Recitavo le preghiere imparate da bambino, spezzoni di salmi che ricordavo a memoria e il rosario». Nella preghiera ha invocato qualcuno in particolare? «Con il rosario invocavo Maria che scioglie i nodi e con la sequenza di Pentecoste invocavo lo Spirito santo. La Missione di Bomoanga è sotto il patrocinio dello Spirito santo e Pentecoste è la nostra festa patronale. Sul muro della nuova chiesa di Bomoanga è appeso un foglio di compensato su cui ho tradotto in lingua locale la sequenza della Pentecoste. Con la comunità la recitavamo ogni giorno. Maria e lo Spirito consolatore sono stati la mia forza e il mio sostegno». La fede ha mai vacillato? «Si è rafforzata. Per nulla al mondo sono disposto ad abbandonarla: anzi, ero pronto a tutto». Come rilegge questi due anni? «Ho fatto l’esperienza del deportato di guerra, sentendomi in comunione con le vittime innocenti di violenza e conflitti. Noi missionari siamo sovente facili bersagli di vendette e persecuzioni. Ma siamo testimoni di un mondo di fratellanza in cui lo Shalom trionferà sul male. Crediamo che “giustizia e pace si baceranno e verità e amore si incontreranno”». Si è sentito missionario anche in catene? «Mi sono sentito in comunione con gli apostoli Paolo e Pietro. San Pietro in Vincoli, poi, è il patrono di Madignano: tale padre, tale figlio! I miei piedi erano incatenati, ma non la mia fede e nemmeno la missione. Che è di Dio e lui continua a condurla nel tempo e nella storia». Durante la prigionia c’è chi si è convertito all’islam. «Una conversione di facciata, per convenienza. Un modo per tutelarsi e non rischiare il peggio. Anche con me ci hanno provato fino alla sera prima della liberazione. Quello che parlava francese mi ripeteva: “Quando saremo davanti ad Allah ci chiederà conto di te. Avete preso un miscredente e non gli avete detto di farsi musulmano?”». Hai mai pianto? «Spesso durante i primi sei mesi di grande silenzio e solitudine». Ha avuto paura di morire? «Ci ho pensato, ma più i giorni passavano e più mi convincevo che non era quello l’obiettivo del rapimento». Cosa prova verso i rapitori? «Molta tristezza. Sono giovani indottrinati da video di propaganda che ascoltano tutto il giorno. Li perdono perché non sanno quello che fanno! Anche verso coloro che hanno pianificato il mio rapimento non porto rancore. Ho pregato per loro e continuo a farlo». Ripartirà in missione? «La mia vita è donata a Dio e all’annuncio del Vangelo per il mondo. Sarò sempre in missione perché non è una questione di geografia. Per capire il passaggio di Dio in questa sofferta esperienza ho bisogno di tempo e silenzio. Una cosa, però, ho intuito: credevo mi avessero “rubato” due anni di missione, ma mi rendo conto che Dio ha reso fecondo il “mio ministero da prigioniero” ben oltre ogni mia aspettativa» (FC n. 44 del 1 novembre 2020). |
Post n°3436 pubblicato il 02 Novembre 2020 da namy0000
2020, Avvenire 31 ottobre. L'immunologa. Viola: «Contagi in famiglia il vero rischio, dovremo convivere col virus»Antonella Viola, ordinario di Patologia generale all’Università di Padova: il Covid è tra noi e ci resterà, l’inizio della risalita ha coinciso con le vacanze d’agosto Anche le chiusure esigono un metodo scientifico. «Non si può passare di lockdown in lockdown all’infinito, e nemmeno penalizzare i luoghi che non sono fonte di contagio». Che fare, allora, di fronte a cifre ormai fuori controllo? «Dati alla mano, bisogna risalire a quanti malati di Covid la primavera scorsa si sono infettati al ristorante, o dal parrucchiere, sul metrò, al mercato, in palestra o al museo, e agire con chiusure mirate in quei luoghi lasciando aperti gli altri». Anche perché, chiarisce subito Antonella Viola, professore ordinario di Patologia generale all’università di Padova, «questo virus ormai è tra noi e ci resterà. Dobbiamo ragionare come se rimanesse per sempre e puntare a strategie che portino a una situazione accettabile». A nove mesi dall’esordio della pandemia, che cosa abbiamo imparato dal punto di vista dell’immunologia? E ad oggi che cosa ne sappiamo? Asintomatici e paucisintomatici (94%) possono contagiare? Quanto è mortale rispetto al totale dei positivi? Per mesi ci è stato detto che ormai abbiamo i farmaci. Vaccino: realtà o utopia? «I lockdown all’infinito non servono. Adesso bisogna chiudere gli impianti di sci ed eliminare gli sport da contatto. I trasporti pubblici? A luglio avevamo poche decine di casi in tutta Italia. Chi “assolve” le vacanze estive sostiene che i positivi di oggi non si sono certo infettati in agosto. Ma allora saremo presto punto a capo... Dopo l’eventuale calo, i casi risaliranno. Ha un senso parlare di immunità di gregge? |
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il 08/09/2024 alle 08:55
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