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Messaggi del 07/06/2023

La conversione di Banine

Post n°3871 pubblicato il 07 Giugno 2023 da namy0000
 

Incontrare Gesù nel «disgusto di vivere»: la conversione di Banine

Il diario della scrittrice azera-francese, appena riproposto in Italia, racconta il suo cammino di conversione dall’islam e dall’ateismo «nonostante le meschinità della Chiesa»

«Le conversioni dal materialismo sono le più difficili: l’anima deve sollevare, col peso delle ostruzioni spirituali, anche il carico delle cose materiali; e la moneta, se pure è di carta, pesa; e i cibi onerano la coscienza; e i vizi snervano lo spirito». Così, in un libro divenuto celebre – ma oggi pressoché introvabile – intitolato I grandi convertiti, Igino Giordani, anima del movimento dei focolarini, descriveva uno dei processi più intimi che toccano l’anima umana tracciando una sorta di tipologia della conversione e facendo il profilo di numerosi convertiti, fra cui i francesi Péguy, Huysmans e Maritain e gli italiani Pitigrilli e Pasquale Villari. Una disamina che si incentrava principalmente nel mondo della letteratura e della cultura in generale, ma toccava anche i businessman: è a loro infatti che si riferisce la frase riportata all’inizio.

Parlando di conversioni famose, sempre guardando al mondo d’Oltralpe, in tempi recenti si sono registrati i casi di André Frossard, Maurice Clavel, Olivier Clément, Fabrice Hadjadj, Eric-Emmanuel Schmitt, solo per citarne alcuni. Conversioni, anche clamorose, di taglio intellettuale come era accaduto per Agostino, o dopo un lampo, come per Paul Claudel ascoltando il Magnificat nella Messa di Natale a Notre-Dame. Una conversione maturata dopo anni di crisi intima profonda fu invece quella di Banine, scrittrice amica di Ernst Junger e di Nikos Kazantakis, che avvenne negli anni Cinquanta a Parigi e di cui è rimasta traccia nel diario autobiografico Ho scelto l’oppio, edito in Francia nel 1959 e in Italia tradotto dalle edizioni Massimo nel 1966, volume che ora viene riproposto per i tipi di Magog (pagine 178, euro 15,00), per cura di Fabrizio Sabbatini e con un’introduzione di Davide Brullo.

Ecco cosa scrive il 21 agosto 1956: «La mia natura non si è affatto ammorbidita da quando vivo sotto la suggestione del Cristianesimo. Non è avvenuto nessun miracolo. Ma una specie di piccolo miracolo ha avuto luogo lo stesso: la quasi totale sparizione della sinistra e fedele compagna di sempre, la malinconia. La mia vita non è più generosamente condita del sapore di cenere. Non rivango più, tra sussulti, gl’insuccessi e le calamità, ma al contrario rendo grazie al Cielo delle numerose fortune che mi sono capitate. Basterebbe che la mia conversione, per quanto imperfetta, mi avesse fruttato anche solo questo cambiamento, per potermi già considerare soddisfatta. E difatti lo sono». Il 23 dicembre, lei nata in Azerbaigian e cresciuta nella religione islamica, riceverà il battesimo dopo anni di combattimento spirituale. Così, il giorno precedente, descrive nel diario il suo «stravagante destino di musulmana affrancata dalla rivoluzione. Senza mestiere fisso, ne ho esercitati una quantità…! Professoressa di musica e di russo, indossatrice, commessa nella haute couture, segretaria traduttrice, romanziera, giornalista, e anche distinta signora della borghesia di Tolosa! Ho voluto essere libertina».

E poi aggiunge: «Passando sulla Senna rievocavo tutta la mia vita dal giorno in cui, con le mie diciotto primavere come unica ricchezza, sbarcavo a Parigi, estasiata di speranza e di esaltazione; rievocavo la lenta maturazione interiore che, attraverso ostacoli e al di là delle cadute, mi ha condotta a piedi di Cristo. Ero meravigliatissima. Lo sono ancora mentre scrivo queste righe. Mi sento felice, piena di una felicità che solo lui, Cristo, Dio, può dare». Era giovanissima in effetti Umm-El-Banine Assadoulaeff, nata a Baku il 18 dicembre 1905, quando sbarcò a Parigi dopo aver rifiutato un matrimonio combinato. Suo era stato ministro ma la repubblica azera era stata fagocitata dall’Urss. Nella capitale francese entrò in contatto con i tanti intellettuali russi fuggiti dalla rivoluzione bolscevica, fra cui la poetessa Marina Cvetaeva e i filosofi Lev Šestov e Nikolaj Berdjaev. Nel 1942 conobbe Junger, che frequentò in varie occasioni e al quale avrebbe dedicato tre libri, mentre nel 1946 pubblicò da Gallimard il suo libro più famoso, Jours caucasiens, ed ebbe un non scontato successo nel mondo letterario.

«Delusa – annota Brullo - dal rapporto con Junger, astrale, astratto, estraneo alla vita, Banine finisce per votarsi a Dio. Nel suo testo, J’ai choisi l’opium, scrive di questo “amore assurdo, impossibile, che ha preso in me il posto del mito, della religione, della vita”. Il tormento porta Banine ad abiurare l’islam e diventare cattolica». È il noto motto di Marx - “La religione è l’oppio dei popoli” - a essere evocato nel titolo. La sua è stata una conversione lenta ma inesorabile. Schiacciata dal peso dell’esistenza, inizia a entrare in chiesa, quella di Notre-Dame du Saint Sacrament di rue Cortambert, vicino a dove abita, e a sedersi su una panca ad ascoltare. Le preghiere e le omelie dei sacerdoti. Che non sempre le piacciono anzi a volte la deludono, ma non è della perfezione che va in cerca, semmai di una risposta alla sofferenza che le strazia il cuore.

È una vera malattia dell’anima che l’assale e il 19 agosto del 1952 le fa scrivere: «Sono una vecchia frustrata, destinata a morire in solitudine, senza amore. Dovrei uccidermi, ma dove potrei trovare il coraggio di farlo? Anche il coraggio per vivere non so da dove attingerlo. Non ne posso più. Il disgusto di vivere mi avvelena ogni minuto». Alla soglia dei 50 anni, comincia a fare un bilancio e, per quanto abbia ricevuto tante soddisfazioni, capisce che il successo e la ricchezza non bastano. «Benché non creda nell’esistenza di Dio – dice il 26 marzo 1953 – con la ragione, il mio cuore si rivolge a lui a mia insaputa». Le letture spirituali e la frequentazione degli ambienti ecclesiali la indirizzano sempre più verso il cristianesimo.

Nonostante le miserie che riscontra. «Contrariamente a Simone Weil – si legge il 21 aprile 1956 – la meschinità della Chiesa, i suoi errori, le sue banalità, e anche i suoi peccati, invece di preoccuparmi mi rassicurano. Se essa fosse soltanto santa, come potrei entrarci?». Nel libro si incontrano piccoli riferimenti a Péguy e Claudel, Mauriac e Guardini, il cardinale Newman e Teilhard de Chardin, indicativi del clima che respira in questi anni in cui matura l’avvicinamento a Cristo, nonostante «l’espandersi dell’ateismo e la tiepidezza degli stessi cattolici» (6 dicembre 1954).

Difatti due giorni dopo afferma: «La Chiesa mi si rivela sotto un altro aspetto, il miracolo della sua durata. Che cosa sarebbe Parigi, la nostra Sodoma e Gomorra, senza le innumerevoli case di Dio?». E ai primi di gennaio dell’anno seguente: «Ormai non posso più fare a meno, non dico di Dio, ma di cercarlo». Comincia a conoscere Gesù e non le va a genio chi ne vuole fare «un illuminato fondatore di una religione» o chi come Tolstoj vuole solo umanizzarlo o ridurre il cristianesimo a una morale; piuttosto, si ritrova nelle famose parole di Kafka riferite a Cristo: «È un abisso di luce davanti al quale bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi», ma lei stessa specifica di voler «perdersi in quest’abisso».

Sarà il cardinale Daniélou, nell’avvertenza all’edizione francese del libro di Banine (che morrà nel 1992 a Parigi; l’anno precedente aveva scritto un racconto filosofico su Maria), a dichiarare di essere stato avvinto dalla lettura del manoscritto, letto tutto d’un fiato: «Il suo pregio è la sincerità spietata. Credo che proprio per questo possa colpire anche quelle anime che rimangono un po’ disgustate dall’insipidezza e dal tono falsamente commosso di molti racconti analoghi. In questo diario, invece, l’azione della grazia risulta di una chiarezza impressionante».

 
 
 

Il mio capitalismo

Post n°3870 pubblicato il 07 Giugno 2023 da namy0000
 

2023, Avvenire 6 giugno

Cucinelli: «Il mio capitalismo umanistico per dare dignità al lavoro»

A Solomeo splende la luce. Quella reale della primavera che illumina questo borgo umbro sede dell’azienda di Brunello Cucinelli e quella ideale dei tanti progetti. Lui, il “re del cashmere”, mescola il debutto nel mondo dei profumi e un’intesa con Chanel sul Lanificio Cariaggi e amalgama il tutto con il tocco che gli deriva da esperienze che non lo hanno disincantato e da quell’approccio umanistico che è il suo dna d’imprenditore.

 

Cucinelli, lei si è descritto come un giovane che studiava poco e passava lunghe ore al bar. Cosa è stato quel “qualcosa” che è scattato e l’ha fatta diventare un imprenditore noto in tutto il mondo?

Nel mio caso, una certa qual percezione di ingiustizia: vedevo mio padre con gli occhi lucidi, tornava vessato dal lavoro e mi sono detto che, qualsiasi cosa avessi fatto, l’avrei fatta per la dignità dell’essere umano. Credo ci sia una differenza tra l’avere un sogno e il coltivarlo con pazienza e perseveranza. E a farla è anche il poter condividere quel sogno con “anime pensanti” a te simili, come a me è capitato a Solomeo.

Qual è stata la “sliding door” della sua vita?

Fu quando, giovane con entusiasmo e poche certezze, ebbi da un direttore di banca un prestito di 500mila lire per avviare l’attività col cashmere. Non era solo un prestito: era un nobile atto di fiducia nell’essere umano e io ho sempre custodito una grande gratitudine per quel direttore. Proprio per questo ho fiducia nei giovani: oggi in azienda la media d’età è sui 38 anni. E quando li vedo mi emoziono, mi rivedo in loro.

Lei è cresciuto nella miseria, senza luce. Cos’è per lei la ricchezza?

Miseria non direi; la mia era una famiglia che lavorava sodo la terra e aveva tutto l’essenziale. Mio nonno ci ha dato una grande lezione: destinava il primo sacco di grano alla comunità, pensando a chi aveva più bisogno. La civiltà contadina mi ha insegnato il rispetto di chi lavora, senza differenze. Per questo la ricchezza la vedo certo come un notevole aiuto, che rischia però di essere meno bello se non è accompagnato dal senso di giustizia sociale e dalla consapevolezza dei sacrifici.

Qual è il problema principale oggi per il mondo produttivo?

Il nodo del futuro non sarà tanto a chi vendere i nostri prodotti, ma a chi farli produrre e lavorare. Quello dei modi di produzione è un gran tema, di mezzo c’è la questione della dignità. La mia visione del mondo si basa sulla via che chiamo del capitalismo umanistico e della umana sostenibilità. Se vogliamo che le cose che produciamo siano belle, non possiamo ignorare il come vengono fatte, in quali luoghi e in quali condizioni. Ma non sono preoccupato, credo molto che la nostra epoca ci riserverà grandi cose anche sul piano umano e spirituale.

Cosa ne pensa della proposta di un liceo del made in Italy?

A Solomeo già cerchiamo di valorizzare le sapienti mani artigiane, che meritano stipendi leggermente più alti. Abbiamo una Scuola delle arti e mestieri, che stiamo potenziando, per dare il giusto peso alla formazione e trasmissione dei saperi.

Perché un modello come il suo, alla Olivetti, non attecchisce di più?

Non trovo efficace in genere esportare modelli, ma voglio che i miei collaboratori possano lavorare “per bene”. Per questo servono però le condizioni: un certo modo di produrre, un luogo confortevole, l’armonia. L’auspicio più vivo è che altre realtà imprenditoriali, pur diverse da Solomeo, possano fare una loro scelta di custodia della bellezza e di promozione della dignità umana.

E come convincerebbe un collega?

Gli direi quello che mi ripeteva mio padre: «Sii sempre una persona per bene». Se un tale valore divenisse comune, il bene del singolo diverrebbe bene di ognuno.

Dice che non trasferirà mai fuori Italia la sede. Ma cosa vorrebbe vedere di diverso in questo Paese?

La nostra bella Italia ha tanti valori altissimi. E quanto essa può fare ancora di più non ha limiti. Ritengo che coltivare al meglio l’autostima sia fondamentale, ne vedo poca in giro. In generale mi piacerebbe che un po’ tutti si tornasse a credere in una politica amabile e nella condivisione di uno spazio che promuova la cultura della partecipazione.

Parla molto di giovani, a loro ha scritto anche una lettera.

Sì, abbiamo vissuto troppo a lungo con la convinzione che i giovani o studiano o vanno a lavorare. Il lavoro è stato percepito quasi come una punizione e tutti, oggi, siamo chiamati a fare qualcosa perché non sia più così. Anche la politica è bella se lavora per dare fiducia ai giovani e loro, sentendosi gratificati, sono certo che sapranno donare creatività al mondo di domani.

Ha lasciato le redini a due Ad più giovani: gestioni aziendali troppo lunghe sono un danno?

Non mi sono messo da parte, ma ho sempre pensato che, a un certo punto della vita, sia proficuo diradare la presenza, ma stando accanto a chi ha bisogno di sentire che ci sei. Come Riccardo Stefanelli e Luca Lisandroni, pieni di una gran passione.

Avrà fatto anche lei degli sbagli?

Ognuno ne compie e trovo vero quello che fa notare in maniera illuminata Buddha quando dice: «Facile a scorgere è l’errore altrui, difficile è invece il proprio». Però conta quello che ne può derivare quando si ha la forza di apprendere dall’esperienza fatta.

Ci conia una sua frase che possa identificarla?

Ci provo: «L’essere umano è veramente tale se e solo se viene rispettato nella sua dignità, libertà, coscienza morale e spiritualità». Ah, e aggiungo che mi piacerebbe che - un domani - sulla mia lapide si legga: «È stata una brava persona».

Incontra tanti personaggi. Ce ne dice un paio che l'hanno colpita?

Non è facile. Certamente, di recente, l’incontro con re Carlo III d’Inghilterra che mi ha coinvolto nel suo “Progetto per l’Himalaya”, ho visto quanto grande e sincero sia il suo amore per il Creato. E il mio stimatissimo papa Francesco, che sta operando il bene in mille modi.

Cosa le piace di più e di meno dei tempi che stiamo vivendo?

Di meno non ho dubbi: la troppa connessione ad apparati digitali toglie serenità, monopolizza energie, mortifica la creatività e ci distrae da affetti e passioni. Quello che invece mi piace di più è che sento comunque una grande rinascita spirituale in atto, grazie alla quale sono sicuro che i giovani saranno delle sentinelle dell’umanità a venire.

Parla spesso di anima. Ma esiste un qualcosa che le “ruba” l’anima?

Sono fortunato perché riesco, anche grazie alla rilettura dei miei amati classici, a portare avanti quotidianamente un personale “esercizio spirituale”. Ho presente la profonda lezione di sant’Agostino: «L’anima non è tutto l’uomo, ma la sua parte migliore». Senza etica non può esserci sana economia, non può esserci nessuna azione dell’essere umano. Proprio però in quanto siamo portati a una qualche forma di spiritualità, mi piace pensare che i popoli alla lunga possano dialogare tra di loro su alcuni punti fermi. Che cominciano con la pace e proseguono con il rispetto delle scelte più umanamente sostenibili per tutti.

 
 
 

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