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Vita da homeless. Jean Claude: l’egoismo è la vera povertà

Una vita vissuta in strada, errante, tra l’Europa e l’Australia. Decine di lavori svolti e centinaia di persone incontrate, conosciute, con cui condividere momenti, amicizie, con curiosità e rispetto. «Io vivo per instaurare rapporti con le persone, senza giudizi o pregiudizi», dice Jean Claude sorridendo, uno sguardo intenso e una voce squillante. Originario della Savoia, nei suoi 61 anni ha vissuto in vari Paesi, in molte città e metropoli, rapportandosi con culture, stili di vita differenti, ma sempre sulla base di una convinzione personale: «Avere rapporti sani e veri, parlare con il cuore». Ciò che continua a fare coerentemente da qualche anno a Torino. Privo di una dimora fissa, per scelta, Jean Claude vive la strada svolgendo le sue attività e per questo si rapporta con persone di ogni genere, sempre con un sincero approccio filantropico riconosciuto da tutti, quasi disarmante nella sua semplicità.

Incontri molte persone in strada…

Io non dormo in strada ma ci vivo, mi piace incontrare le persone, stabilire contatti umani. La città è fatta per questo, non si vive da soli, ma con le altre persone, io vivo per instaurare rapporti senza giudizi o pregiudizi. Una vita vale come l’altra, la debolezza economica non deve essere penalizzante, la si può vivere anche con dignità. Ognuno ha il diritto di esistere, è molto importante che ognuno sia riconosciuto come persona.

Tra le persone che frequenti e conosci, molte sono senza dimora: chi sono?

Molti vivono in strada perché non vogliono dipendere da nessun tipo di struttura, anche perché è difficile vivere con le altre persone, non avere la propria privacy, avere usi e abitudini diversi. All’aria aperta non c’è questo problema, perché puoi decidere di allontanarti, di fare altre cose. C’è poi chi ha dipendenze o usa sostanze, dipende. Ho visto e vedo tanti tipi di persone. Nelle mense trovi chi ci va perché non vuole cucinare, oppure non vuole spendere soldi. Si può vivere in strada in modi diversi, circondato da persone oppure senza nessuno intorno, sono scelte personali. Ma alla fine siamo sempre soli con noi stessi: nessuno sa meglio di noi cosa passa nella nostra testa, il perché si prendono certe decisioni e si vive in un certo modo. Per questo è importante mettersi a disposizione, ascoltare.

Ed è così che ti poni…

Sì. Conoscere le persone in senso filantropico, parlare di cose interessanti, costruttive, di argomenti validi. Io non uso alcun tipo di sostanze, quindi sono consapevole di ciò che posso fare con le altre persone, trovo interessante condividere un rapporto in piena lucidità, avere relazioni sane, vere, non deformate. Poi ritengo importante parlare sinceramente, con il cuore.

Spesso agisci quasi da “operatore pari”: perché lo fai?

Sai, in inglese si dice jungle brothers, fratelli di giungla. Possono essere rapporti molto profondi, intensi. I miei fratelli e le mie sorelle sono le persone che incontro ogni giorno. Per me la famiglia di origine è come un albero, i rami seguono strade diverse, spesso si ha in comune solo il punto di partenza, si è fratelli di sangue ma non di vita. Parlando varie lingue riesco a empatizzare con persone di diversi Paesi, quando si parla la stessa lingua si riescono a stabilire rapporti più profondi, ci si sente più a proprio agio. Io parlo con tutti, perché si può sempre dare un po’ di gentilezza, di solidarietà. È importante poter portare un po’ di gioia, anche solo per qualche minuto. Questa è la mia filosofia di vita, poter far stare meglio qualcuno fa stare meglio anche me. Siamo sullo stesso Pianeta, condividiamo quello che c’è da condividere, facciamo qualcosa di utile.

Ti senti in qualche modo un mediatore?

Penso di sì. Lo faccio secondo un’idea di catena umana, posso giocare un ruolo come mediatore per evitare una marginalizzazione, facendo capire che una persona è valida come un’altra e che non va penalizzato nessuno. Non siamo seduti su un piedistallo, non siamo mica divinità. Sentirsi superiori ad altri ci riporta al Medioevo… e forse un po’ ci stiamo tornando. Oggi il punto di partenza è molto debole, c’è molta precarietà e poche certezze.

Come ti mantieni?

Io sono vegetariano e ho una vita molto semplice, non mi serve molto per vivere. Do lezioni di inglese perché mi piace, ma chiedo alle persone di darmi quanto possono, anche niente, dipende dalle possibilità. Con una pinza smontabile che mi sono fabbricato con elementi di un vecchio aspirapolvere, cerco nei cassonetti e trovo piccoli oggetti, vestiti, ombrelli, scarpe, borse che hanno una storia, roba abbastanza pregiata che riesco a recuperare, riparare e vendere a una rete di acquirenti. Si può lavorare in modo nitido, professionale, anche in questo campo. Naturalmente devi andare dove ci sono i soldi, lì trovi cose. In alcuni mercati anche cibo di qualità: fare la spesa diventa un lusso, i mercati non riescono a smaltire tutto e lasciano lì molta roba, frutta e verdura soprattutto.

Come ti vedi in prospettiva?

Non ho più voglia di viaggiare. Mi trovo bene dove sono. Ora vivo in una pensione, ma per il futuro devo valutare altre sistemazioni. Sono molto aperto sulle forme di alloggio, non c’è solo la casa intesa in modo tradizionale. Quando hai poco devi far funzionare di più il cervello, devi gestire quello che c’è. Credo, come si dice, che la casa è dentro il tuo cuore, la felicità è dentro ad ognuno di noi.

Cos’è per te la povertà?

Essere povero è una questione mentale: una mente povera è una mente che non accetta la diversità e le avversità della vita, la vera povertà è l’egoismo. La povertà non va confusa con una debolezza economica, perché la vita è come uno yo-yo, le cose vanno su e giù, non si conosce il proprio destino. Credo dipenda molto da ciò che i genitori e la famiglia hanno insegnato, trasmesso: con principi sani si riesce a comprendere l’importanza del volontariato, la devozione, una cosa che non ha prezzo. Questa è la vera ricchezza, la bellezza della vita.

 
 
 

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