2 passi tra le righe

Frasi rubate qua e là... di VILMA REMONDETTO

Creato da Vilma66 il 16/09/2012

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Giugno 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
          1 2
3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 21 22 23
24 25 26 27 28 29 30
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 1
 

Ultime visite al Blog

Vilma66venere_privata.xjoefalchetto62mamatemonhyponoiaansa007lubopor1ck1lacey_munrolumil_0LORD_DEVID_2013GiuseppeLivioL2Stolen_wordsil_pablo
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

"Un gentiluomo a Mosca" di Amor Towles

Post n°50 pubblicato il 13 Marzo 2019 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

 

"Aleksandr Il'ic Rostov, dopo aver preso in considerazione la sua testimonianza, possiamo solo presumere che lo spirito perspicace che scrisse il poema "Dov'è ora?" si sia irrevocabilmente arreso alle corruzioni della propria classe sociale e che adesso costituisca una minaccia per quegli stessi ideali che un tempo aveva abbracciato. Su questa base, saremmo inclini a farla portare fuori da questa sala e metterla al muro. Ci sono alcuni rappresentanti anziani del Partito, però, che la considerano tra gli eroi della causa prerivoluzionaria. E' quindi opinione di questo Comitato che lei debba fare ritorno all'albergo che tanto le piace. Ma non faccia errori: se mai dovesse mettere piede fuori dal Metropol, sarà fucilato."

Con occhio assorto il Conte s'accostò alle finestre dell'angolo della suite esposto a nord-ovest. Quante ore aveva trascorso lì davanti? Quante mattinate con indosso la veste da camera e la tazza di caffè in mano, aveva osservato i nuovi arrivi da San Pietroburgo, spossati e stropicciati dopo il viaggio notturno in treno, sbarcare dai tassì? Quante sere d'inverno aveva guardato la neve scendere piano, mentre un'ombra solitaria, bassa e tarchiata passava sotto un lampione?... Girò i tacchi e si mise a camminare per le stanze. Ammirò le dimensioni del grande salone e i due lampadari. Ammirò i pannelli dipinti della piccola sala da pranzo e l'elaborato meccanismo in ottone che permetteva di chiudere le doppie porte della camera da letto. In breve rivisitò gli interni come avrebbe potuto fare un potenziale acquirente che stesse visitando le stanze per la prima volta... il Conte fece un rapido inventario di tutto quello che sarebbe stato lasciato dietro... E' buffo, il Conte si ritrovò a riflettere mentre era sul punto di abbandonare la suite, fin dalla più tenera età dobbiamo imparare a dire addio agli amici e alla famiglia... E' meno probabile che l'esperienza ci insegni come dire adieu alle nostre proprietà più care... Le portiamo da un luogo all'altro, spesso a costi e disagi considerevoli... Fino a che immaginiamo che queste proprietà accuratamente conservate possano darci autentico conforto a fronte di un compagno perduto.

Un'ora più tardi, mentre rimbalzava un paio di volte sul suo nuovo materasso per identificare la chiave delle molle del letto (Sol diesis), il Conte ispezonò con lo sguardo il mobilio che gli era stato ammassato attorno e si rammentò di come, da giovane, avesse ardentemente desiderato viaggiare fino in Francia in battello a vapore e fino a Mosca col treno notturno. Perchè? Perchè le cuccette erano così piccole! Che meraviglia era stato scoprire il tavolo che si piegava e scompariva senza lasciare tracia; e i cassetti inseriti alla base del letto; e le lampade a parete, larghe quel tanto da illuminare una pagina. Quell'efficienza del designe era musica per una nuova mente. Testimoniava una precisione di intento e la promessa dell'avventura. Tali, infatti, avrebbe dovuto essere gli alloggi del Capitano Nemo quando percorreva le sue ventimila leghe sotto i mari. E un qualsiasi ragazzino con un minimo di inziativa non avrebbe forse barattato un centinaio di notti in un palazzo con una sola a bordo del Nautilus? Bene, Eccolo lì, finalmente.

Alle tre e mezzo del mattino il Conte si inerpicò ondeggiando su per le scale, virò in direzione della sua stanza, attraversò barcollando il suo armadio, svuotò le tasche sulla libreria, si versò un brandy e con un sospiro di soddisfazione si lasciò cadere sulla poltrona. Mentre dal suo posto sulla parete Elena lo contemplava con un sorriso tenero, d'intesa. "Si, si" ammise " è un pò tardi e sono un pò ubriaco, ma a mia discolpa si può dire che è stata una giornata ricca di eventi." Come a dimostrare quell'affermazione, il Conte all'improvviso si alzò dalla poltrona e si strattonò uno dei risvolti della giacca. "Lo vedi questo bottone? Voglio che tu sappia che me lo sono cucito da solo." Quindi lasciandosi ricadere sulla poltrona, il Conte prese il brandy, lo sorseggiò e riflettè ... Il Conte sospirò e poi condivise un concetto con la sorella. Fin da quando ha avuto inizio la commedia umana, spiegò, la Morte si è rivolta agli ignari. In questa o quella storia arriva silenziosa in città e prende alloggio in una locanda o si mette in agguato in un vicolo o indugia in un mercato, in modo furtivo. Poi, quando l'eroe ha un momento di respiro dalle sue faccende quotidiane, la Morte lo va a trovare. Tutto questo va bene, ammise il Conte, ma quel che di rado viene raccontato è il fatto che la Vita è in tutto e per tutto subdola come la Morte. Anch'essa può indossare un cappuccio. Anch'essa può arrivare silenziosa in città, mettersi in agguato in un vicolo o aspettare nel retro di una taverna. Non aveva forse fatto una visita del genere a Miska? Non era andata a trovarlo mentre lui si nascondeva dietro i suoi libri, non gli aveva teso un agguato fuori dalla biblioteca e non l'aveva forse preso per mano in un angolo appartato sulla Neva?

Da giovanotto, il Conte s'era fatto un vanto dell'essere sempre un passo avanti. La comparsa tempestiva, l'espressione appropriata, l'anticipazione di un bisogno; per il Conte quelle erano state le autentiche caratteristiche dell'uomo ben educato. Date le circostanze, però, scoprì che l'essere un passo indietro aveva dei meriti indiscutibili. In primo luogo, era assai più rilassante. L'essere un passi avanti nelle questioni romantiche richiedeva una vigilanza costante. Se si ha intenzione di portare avanti un approccio di successo, si deve essere consapevoli di qualsiasi parola pronunciata, gesto fatto e prendere nota di ogni sguardo. In altre parole, essere un passo avanti in una storia romantica è stremante. Essere un passo indietro invece? Essere sedotto? Bè, bastava appoggiarsi allo schienale della sedia, sorseggiare il vino e rispondere a una domanda con il primo pensiero che passava per la testa. Inoltre, per assurdo, se essere un passo indietro era più rilassante che essere un passo avanti, era anche più eccitante. Dalla sua posizione rilassata colui che è un passo indietro immagina che la serata con la nuova conoscente si svolgerà come ogni altra: una chiacchiera qui, una chiacchiera lì e una amichevole buonanotte sulla porta di casa. A metà della cena, però, c'è un complimento inatteso e dita che accidentalmente sfiorano una mano; c'è una tenera ammissione e una risata soffocata; poi all'improvviso, un bacio. Da quel momento in poi le sorprese non fanno che crescere in potenza e opportunità. Come quando si scopre (mentre la camicetta cade sul pavimento) che una schiena è adorna di lentiggini come lo sono i cieli di stelle. O quando (dopo essere scivolati con pudore sotto le lenzuola), le lenzuola sono gettate da parte e ci si ritrova sulla schiena con un paio di mani che premono sul torace e un paio di labbra che emettono istruzioni ansimanti. Se ciascuna di queste sorprese ispira una nuova condizione di meraviglia, nulla può essere paragonato a quella sorta di sgomento che si prova quando, al mattino, una donna proferisce senza possibilità di essere fraintesa, girandosi su un fianco: "Mentre te ne vai, fà in modo di tirare le tende."

Mentre il caffè veniva versato, il Conte si chiese se quello fosse l'inizio o la conclusione della giornata del vecchio. In entrambi i casi s'immaginò che una tazza di caffè fosse perfetta, perchè che cosa c'è di più versatile? Tanto a casa, in una tazza di stagno, che in una tazza di porcellana di Limoges, il caffè è in grado di dare energia all'industrioso all'alba, calma al riflessivo a mezzogiorno o sollevare lo spirito dell'uomo assillato dai problemi nel bel mezzo della notte.

Mentre invecchiamo siamo propensi a trovare conforto nella nozione che ci vogliono generazioni perchè un modo di vivere svanisca. Ci sono familiari le canzoni che i nostri nonni amavano, dopotutto, anche se non abbiamo mai danzato noi stessi con il loro sottofondo. Durante le feste, le ricette che tiriamo fuori dai cassetti sono vecchie di decenni e in alcuni casi persino scritte di proprio pugno da un parente morto da tempo. E gli oggetti nelle nostre case? I tavolini da caffè orientali e le scrivanie  consumate tramandate da una generazione all'altra? Nonostante siano "fuori moda", non solo aggiungono bellezza alle nostre vite di ogni giorno, ma prestano credibilità materiale alla nostra supposizione che il passare di un'era sarà glaciale.

Il principio consiste nel fatto che una nuova generazione deve una certa quantità di gratitudine ad ogni membro della generazione precedente. I nostri anziani hanno seminato i campi e combattuto in guerra; hanno fatto progressi nell'ambito delle arti e delle scienze e in generale hanno fatto sacrifici per noi. Grazie ai loro sforzi, quindi per quanto umili, si sono guadagnati un poco della nostra gratitudine e del nostro rispetto.

Quando leggeva seduto sulla sua sedia, nessuna interruzione poteva essere considerata un disturbo. In effetti, preferiva leggere con un pò di baccano sullo sfondo: come le grida di un venditore ambulante per lastrada; o le scale di un pianoforte in un appartamento vicino, o, meglio di tutto, il rumore di passi sulle scale, passi che, dopo essere saliti rapidi per due rampe, all'improvviso si fermavano, seguiva un colpo alla porta e un'affannata spiegazione che due amici in carrozza con tiro a quattro erano in attesa per strada. (Dopotutto non è per questo che i libri hanno le pagine numerate? Per facilitare il ritrovamento del segno dopo una giusta interruzione?) Quanto al possesso delle proprie cose, non gliene era mai importato un baffo. Era il primo a prestare un libro o un ombrello a un conoscente (non importa se nessun conoscente dai tempi di Adamo avesse mai restituito un libro o un ombrello). E le abitudini? S'era sempre vantato con orgoglio di non averne... A quanto pareva, però, non era più così... L'arrivo non annunciato di un pacco di quasi quattordici chili gli aveva strappato il velo dagli occhi. Senza che nemmeno se ne accorgesse, senza che l'avesse ammesso, immesso o permesso, l'abitudine si era insediata nella sua vita quotidiana... "Mia nipote" spiegò il Conte, mentre Sof'ja si guardava intorno con stupore... Quando Sof'ja ebbe completato l'ispezione dei paradossi del Piazza, sembrò capire d'istinto che un simile ambiente meritava criteri di comportamento, perchè all'improvviso tolse la bambola dal tavolo e la sistemò sulla sedia vuota alla sua destra; quando il Conte fece scivolare il tovagliolo da sotto le posate d'argento per metterselo sulle ginocchia, Sof'ja ne seguì l'esempio, stando bene attenta a non far stridere forchetta e coltello...

E' risaputo che tra tutte le specie sulla Terra l'Homo sapiens è fra le più adattabili. Metti una tribù di queste creature in un deserto, e si avvolgeranno in stoffa di cotone, dormiranno in tende e viaggeranno a dorso di cammello; mettila nell'Artico, e queste creature si avvolgeranno in pelli di foca, dormiranno in igloo e viaggeranno su slitte trainate da cani. E se le metti nell'ambiente Sovietico? Queste creature impareranno a fare conversazioni cordiali con sconosciuti, mentre aspettano in fila; impareranno ad accatastare con ordine gli indumenti nella loro metà d'armadio; impareranno a disegnare edifici immaginari nei loro album. Ovvero, si adatteranno. Di certo un aspetto dell' adattamento di quei russi che avevano visto Parigi prima della Rivoluzione era l'accetttazione del fatto che avrebbero rivisto Parigi mai più...

 
 
 

"La dama e l'unicorno" di Tracy Chevalier

Post n°49 pubblicato il 07 Marzo 2019 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

Nicolas des Innocents                                                                                                               Non dorme più con suo marito, ho pensato. Gli ha dato delle figlie, la sua parte l'ha fatta. E neanche troppo bene: niente maschi. Ora lui l'ha allontanata da sè, e per lei non è rimasto nulla. Non era mia abitudine muovermi a compassione per le signore dell'aristocrazia, con la pancia piena, al calduccio accanto al focolare, fra damigelle pronte a servirle. Però in quel momento Geneviève de Nanterre mi faceva pena. Perchè pensavo a come sarei stato io nel giro di dieci anni, dopo lunghi viaggi, inverni rigidi, malattie, da solo in un letto freddo, pieno di acciacchi, le mani deformi ormai non più capaci di reggere un pennello. Cosa ne sarebbe stato di me, quando non sarei stato più di alcuna utilità per nessuno? Allora la morte mi sarebbe parsa la benvenuta. Mi domandavo se non fosse per caso questo che aveva in mente la signora.

"L'ho dipinta così in vostro onore, Madame, perchè non volevo che gli arazzi parlassero solo di seduzione, ma anche dello spirito. Osservateli in questo senso, a partire dalla dama che indossa la collana, e potrete seguire il cammino della seduzione dell'unicorno. Ma se fate il tragitto al contrario, vedrete la dama che si congeda da ciascuno dei sensi, fino a togliersi la collana per riporla nello scrigno: l'abbandono della vita materiale. Non capite che l'ho fatto per voi, Madame? Guardando la dama che regge i gioielli, non sappiamo se li sta indossando o se li ha appena sfilati dal collo. Può far sembrare entrambe le cose. Questo è il segreto che ho nascosto per voi negli arazzi". Geneviève de Nanterre ha scrollato la testa. "La vostra dama  dunque è indecisa, non sa prendere partito tra spirito e seduzione. Io invece ho fatto la mia scelta e, purtroppo, qui non la vedo rispecchiata con sufficiente chiarezza. Tiens, è meglio che questi arazzi rappresentino la seduzione dell'unicorno, in fondo sono destinati a mia figlia. A lei la seduzione non dispiace di certo". Mi dispiace davvero. Pensavo di essere furbo, ma questa volta la mia furbizia mi aveva giocato un brutto tiro.

Claude Le Viste                                                                                                                                                                          Da un pò di tempo Maman sembra avercela con me, e non riesco proprio a capire cosa sia a infastidirla tanto. Anche lei mi dà sui nervi, non fa che sgridarmi perchè rido troppo o cammino troppo svelta, oppure perchè ho il vestito impolverato o l'acconciatura in disordine. Mi tratta come una bambina, però vorrebbe che mi comportassi come una donna. Non mi lascia uscire quando voglio: dice che ormai sono troppo grande per andare alla fiera di Saint-Germain-des-Pres di giorno e troppo piccola  per poterci andare di sera. Non sono troppo piccola, le altre ragazze di quattordici anni  la sera vanno a vedere lo spettacolo dei jongleurs. Molte di loro sono già fidanzate. Se protesto Maman dice che sono impertinente, che sarà mio padre a decidere quando e con quale uomo mi sposerò. Mi sento così frustrata. Se devo comportarmi come una donna, dov'è il mio uomo?

Con mio grande sollievo, ho visto subito che Maman non era bella quanto me. La sua veste era meno elegante della mia e assai più semplice. E non soffiava alcuna brezza in quel disegno, la bandiera non era increspata, e il leone e l'unicorno sedevano mansueti, invece di ergersi rampanti. Insomma, ogni cosa pareva immobile. L'unico gesto era quello di Maman che estraeva una collana dallo scrigno che una delle sue damigelle le porgeva. Ora non mi importava più che anche lei fosse ritratta negli arazzi, il confronto era di gran lunga a mio favore.

Me lo sono ritrovato addosso senza neppure avere il tempo di rendermene conto. E d'un tratto la sua lingua affondava nella mia bocca mentre con le mani mi strizzava i seni. Che strano, evevo sognato quel momento fin dalla prima volta che l'ho visto, ma ora, col suo corpo sopra il mio, quel turgore che mi sfregava sul ventre con impeto, la lingua umida nell'orecchio, ero soprattutto sorpresa: tutto pareva molto diverso da come l'avevo immaginato. Da una parte mi piaceva: avrei voluto che spingesse ancora più forte e senza tutti quegli strati di stoffa a separarci. Le mie mani volevano toccare ogni parte del suo corpo, stringere quei glutei sodi come ciliegie, misurare le spalle possenti. A un tratto la mia bocca ha incontrato la sua, ed è stato come addentare un fico maturo. Però trovavo un poco scioccante quella lingua bavosa che mi saettava nella bocca, il suo peso che mi schiacciava togliendomi il respiro, le sue mani che toccavano parti di me che nessun uomo aveva mai sfiorato.  Nè mi ero aspettata che avrei pensato così tanto, stando insieme ad un uomo. E invece con Nicolas trovavo parole per ogni cosa: perchè fa così? Ho l'orecchio tutto bagnato. Oppure: la sua cinta mi morde il fianco, e ancora: mi piacerà? Pensavo anche a mio padre, al fatto che eravamo sotto il tavolo del suo studio, al valore che sembrava attribuire alla mia verginità ... "Sei sicuro che dovremmo farlo?" ho mormorato quando Nicolas ha iniziato a mordermi i seni attraverso la stoffa del vestito.

Non avevo mai dormito sulla paglia prima di adesso. Punge e fa rumore e sento la mancanza delle soffici piume del mio letto. Di sicuro papà sarebbe furioso, se vedesse sua figlia giacere sulle stoppie. Quando ero andata da lui nello studio non mi aveva parlato di conventi, mi aveva solo ricordato che porto il suo stesso cognome, chiedendomi di obbedire a Maman in tutto e per tutto. Giusto, ma non credo proprio che mi volesse chiudere dalle monache, a dormire sulla paglia e a spaccarmi i denti con un pane duro come i sassi.

Geneviève de Nanterre                                                                                                                                                                     Dopo un pò hanno bussato alla porta ed è entrata Claude. Aveva gli occhi rossi e mi sono chiesta cosa le avesse detto suo padre. L'avevo pregato di non rivelarle la meta del nostro viaggio, per cui non poteva essere quello il motivo delle sue lacrime. Si è subito avvicinata e si è gettata in ginocchio. "Perdonatemi, Maman, farò qualunque cosa mi chiediate". C'era paura nella sua voce e perfino una certa sottomissione, eppure conservava un sia pur lieve accenno di sfida. Invece di tenere gli occhi bassi, in segno di rispetto, mi guardava in tralice, come un uccellino che cerchi una via di fuga, stretto tra le grinfie di un gatto. Le monache avrebbero avuto il loro bel daffare con lei.

Georges de la Chapelle                                                                                                                                                                Non avevo mi conosciuto un artista così geloso del proprio lavoro. Doveva ben sapere che i disegni cambiano un pò quando il cartonista li ingrandisce su tela o carta per creare il modello. E' inevitabile che un bel disegno perda parte della propria grazia, una volta ingrandito. Ci sono sempre vuoti da colmare: allora bisogna aggiungere qualche personaggio, oppure alberi, riempire gli spazi vuoti del disegno in modo che l'arazzo risulti ovunque ricco e vivace.

Aliènor de la Chapelle                                                                                                                                                                         Loro non potrebbero concepire il mondo senza la vista, mentre per me è esattamente il contrario. Gli occhi per me sono soltanto protuberanze, due cose che possono muovere, come la mascella quando mastico o le narici. Io dispongo di altri mezzi per conoscere la verità. Per esempio, conosco benissimo gli arazzi su cui lavoro. Riesco a sentire ogni sporgenza dell'ordito, ciascun segno della trama... Sento i colori. A volte mi chiedo se la vista renderebbe il miele più dolce, più intenso l'aroma della lavanda, il sole più caldo sul viso. "Mi piacerebbe toccare il vostro volto per conoscervi ancora meglio". Avevo parlato come una sfacciata: non ho mai chiesto neppure a Philippe di lasciarmi toccare il suo volto, eppure siamo cresciuti insieme. Ma Nicolas viene da Parigi, deve essere abituato all'impudenza...Si è infilato senz'altro fra le fragole, schiacciando la menta e la melissa e le fragole ancora acerbe con gli stivali. Mi si è inginocchiato davanti e gli ho posato le mani sulla faccia.

Mi ha adagiata su un'aiuola di margherite, garofani, non-ti-scordar-di-me e aquilegie. Non mi importava di scchiacciarli, solo per i mughetti che mi dondolavano davanti al viso ero dispiaciuta. E' così difficile farli crescere e durano tanto poco, e com'è dolce il loro profumo. Mi sono spostata di lato, allontanandomi dalle campanelle. Sono finita con la testa su un ciuffo di melissa, che mi sfregava la fronte e le guance con le sue foglie fresche e pungenti. Per fortuna, anche se calpestata, la melissa non tarda a risollevarsi. Che buffo, avevo quasi perso la speranza di andare con un uomo, e ora che succedeva stavo lì a pensare  alle mie piante... Ciascuno dei miei sensi era eccitato, tranne uno. Michiedevo come sarebbe stato se avessi anche potuto vedere.

Philippe de la Tour                                                                                                                                                                                    Mia moglie è una donna silenziosa. Non che mi dispiaccia, le donne silenziose non perdono tempo a spettegolare, e difficilmente sono vittime delle maldicenze altrui. Tuttavia mi piacerebbe che parlasse un pò di più, almeno con me. Quando ci siamo sposati ha aperto bocca solo per rispondere alle domande del prete. Non diceva mai nulla del bambino che aveva in grembo, nè di Nicolas. Non mi ha mai ringraziato. Una volta le ho detto che ero felice di averla salvata. "Mi sono salvata da me", ha ribattuto voltandomi le spalle. Non vivevamo ancora a casa dei miei genitori, ci saremmo trasferiti solo alla fine del lavoro. Di notte Aliènor doveva cucire gli arazzi, non poteva certo venire a letto con me. Benchè ci fossimo già inginocchiati davanti al prete di Notre-Dame-du-Sablon, non avevamo ancora mai fatto le cose che avevo imparato da quella puttana, l'estate precedente. Aliènor era troppo grossa e non se la sentiva ancora. Tutto a tempo debito, mi dicevo. 

 

 
 
 

"Il canto della rivolta" di Suzanne Collins

Foto di Vilma66

 "Mi chiamo Katniss Everdeen. E ho diciassette anni. Sono nata nel Distretto 12. Ho partecipato agli Hunger Games. Sono fuggita. Capitol City mi odia. Peeta è stato fatto prigioniero. E' vivo. E' un traditore, ma è vivo. Devo mantenerlo in vita..." 

                                                                                                                                    Quello che vogliono è che io assuma il ruolo che hanno concepito per me. Il simbolo della rivoluzione. La Ghiandaia Imitatrice. Non basta ciò che ho fatto in passato, sfidando Capitol City ai Giochi e offrendo loro un motivo di aggregazione. Adesso bisogna che diventi il loro leader, il volto, la voce, l'incarnazione della rivoluzione. La persona su cui i Distretti - gran parte dei quali è ormai apertamente in guerra con Capitol City - potranno contare perchè indichi loro la via  della vittoria. 

Seguo la strada per abitudine, ma è una pessima scelta, perchè è piena dei resti di chi ha cercato di scappare. Alcuni sono stati completamente inceneriti. Altri invece, forse soffocati dal fumo, sono fuggiti dal grosso delle fiamme e ora giacciono lì, nel fetore dei diversi stadi della decomposizione, carogne per i saprofagi, ricoperti di mosche. "Vi ho ucciso io," penso mentre oltrepasso un ammasso di cadaveri. E ho ucciso voi. E voi. Perchè è quello che ho fatto. E' stata la mia freccia, diretta al punto debole del campo di forza che circondava l'arena, a scatenare questa tempesta di fuoco castigatrice. A far piombare tutta Panem nel caos. Sento nella testa le parole che il presidente Snow pronunciò la mattina in cui stavo per iniziare il Tour della Vittoria. "Katniss Everdeen, la ragazza di fuoco. Lei ha acceso una scintilla che, se lasciata incustodita, può crescere e trasformarsi in un incendio che distruggerà Panem." Non stava esagerando o solo provando a spaventarmi, evidentemente. Forse cercava davvero di assicurarsi il mio aiuto. Ma io avevo già messo in moto qualcosa che non ero minimamente in grado di controllare. 

I circa ottocento superstiti sono sfollati nel Distretto 13, il che, per quanto ne so, equivale a essere esiliati per sempre. So che non dovrei pensarlo, che dovrei essere riconoscente per il modo in cui ci hanno accolti. Malati, feriti, affamati e nullatenenti. Eppure non riesco a ignorare il fatto che il distretto 13 ha contribuito in modo decisivo alla distruzione del 12. Questo non assolve le mie colpe: di queste ne ho abbastanza. Ma, senza di loro, io non avrei fatto parte di una più vasta congiura  per rovesciare Capitol City, nè avrei avuto i mezzi per farlo.

Prima ci sono stati gli Strateghi, che hanno fatto di me la loro star e poi sono stati presi dalla frenesia  di rifarsi per quel pugno di bacche velenose. Poi il presidente Snow, che ha cercato di usarmi per spegnere le fiamme  della ribellione con il solo risultato  di far diventare incendiaria ogni mia mossa. Dopo ci sono stati i ribelli, che mi hanno intrappolata in un artiglio di metallo per prelevarmi dall'arena, mi hanno eletta a loro Ghianadaia Imitatrice e infine sono stati costretti a incassare il colpo di fronte alla possibilità  che non desiderassi affatto quelle ali. E adesso la Coin, con la sua manciata di preziose armi nucleari e la macchina ben oliata del suo distretto, scopre che preparare una Ghiandaia Imitatrice a svolgere il proprio ruolo è persino più difficile che catturarne una. Ma lei è stata la più veloce a capire  che ho un mio piano personale e che quindi  non ci si può fidare di me. Lei è stata la prima a bollarmi pubblicamente come una minaccia.

Comincio a comprendere appieno sino ache punto si è spinta la gente per proteggermi. Ciò che significo per i ribelli. La lotta che conduco tutt'ora contro Capitol City, e che tanto spesso mi è parsa un viaggio solitario, non l'ho intrapresa da sola. Ho avuto migliaia e migliaia di abitanti dei distretti al mio fianco. Ero la loro Ghiandaia Imitatrice  molto prima di accettare quel ruolo. Una nuova sensazione comincia a germogliare dentro di me. Non arrivo a definirla finchè non mi ritrovo in piedi su un tavolo ad agitare le mani in un ultimo saluto verso la roca litania del mio nome. Potere. Dispongo di un tipo di potere che non ho mai saputo di possedere. Snow lo sapeva, l'ha capito non appena  ho tirato fuori le bacche. Plutarch lo sapeva, quando mi ha salvato dall'arena. E lo sa la Coin. Al punto da dover ricordare pubblicamente alla sua gente che non sono io a comandare. 

Solo adesso che l'hanno cambiato apprezzo appieno il vero Peeta. Anche più di quanto avrei fatto se fosse morto. La sua gentilezza, la sua solidità, la tenereza dietro cui nascondeva un ardore inaspettato. A parte Prim, mia madre e Gale, quante persone al mondo mi amano  senza riserve? Nessuna. A volte, quando sono sola, prendo la perla dalla tasca e cerco di ricordare  il ragazzo del pane, le braccia forti che tenevano lontano gli incubi sul treno, i baci nell'arena. Per indurmi a dare un nome a ciò che ho perduto. Ma tanto a che serve? Tutto questo se n'è andato. Lui se ne è andato. Qualunque cosa ci fosse tra noi, non esiste più. Rimane solo la mia promessa di uccidere Snow. Me lo ripeto dieci volte al giorno.

Mio padre. Sembra che sia dappertutto, oggi. Muore nella miniera. Si fa largo cantando nella coscienza confusa di Peeta. Guizza nello sguardo che mi rivolge Boggs mentre mi avvolge le spalle in una coperta con fare protettivo. Non chiedo di unirmi ai combattimenti, e nemmeno me lo permetterebbero. Non ne ho il fegato, comunque, non c'è calore nel mio sangue. Vorrei che Peeta, il vecchio Peeta, fosse qui, lui sarebbe in grado di spiegare con chiarezza perchè è sbagliato spararsi addosso quando qualcuno, chiunque sia, sta tentando di farsi strada con le unghie per uscire dalla montagna. O è la mia storia personale a rendermi troppo sensibile? Non siamo forse in Guerra? Questo non è semplicemente un modo per uccidere i nostri nemici?

Vero o falso? Vado a fuoco. Le sfere fiammeggianti esplose dai paracadute sono schizzate oltre al recinto, hanno attraversato l'aria bianca di neve  e sono atterrate tra la folla... Un ibrido di fuoco conosce un'unica sensazione: l'agonia. Niente più vista, suoni o percezioni, tranne l'implacabile  incendio della carne... Sono la Ghiandaia di Cinna che vola frenetica per evitare l'inevitabile. Le piume di fuoco che mi spuntano dal corpo. Battere le ali non fa che attizzare l'incendio. Mi consumo ma invano. Alla fine le mie ali cominciano a indebolirsi, io perdo quota e la forza di gravità mi attira in un mare spumeggiante ... Galleggio sulla schiena  che continua a bruciare sott'acqua, ma l'agonia si placa sino a diventare dolore. Nel momento in cui sono alla deriva e incapace di tenere la rotta, ecco che arrivano. I morti. Quelli che ho amato volano come uccelli nel cielo sereno sopra dime. Planando, zigzagando, invitandomi a raggiungerli. Io vorrei tanto seguirli, ma l'acqua di mare mi intride le ali, impedendomi di sollevarle. Quelli che ho odiato si sono rifugiati tra i flutti, orribili esseri squamosi che dilaniano la mia carne salata con denti che sembrano aghi. Mordono, ancora e ancora. Mi trascinano sotto la superficie... Intrappolata per giorni, anni forse secoli. Morta, ma senza poter morire. Viva, ma praticamente morta. Così sola che qualsiasi persona, qualsiasi cosa, per quanto ripugnante, mi sarebbe gradita. Ma il visitatore che infine bussa alla mia porta è dolce. Morfamina. Mi scorre nelle vene, allevia il dolore, alleggerisce il mio corpo, permettendogli di risalire verso la superficie e posarsi di nuovo sulla schiuma.... Poco a poco, sono costretta ad acccettare chi sono. Una ragazza gravemente ustionata senza più ali. Senza più fuoco. Nè sorella.

"Mi chiamo Katnis Everdeen. Ho diciassette anni. Sono nata nel Distretto 12. Il Distretto 12 non esiste più. Sono la Ghiandaia Imitatrice. Ho rovesciato Capitol City. Il presidente Snow mi odia. Ha uciso mia sorella. Adesso io ucciderò lui. E finalmente gli Hunger Games saranno finiti per sempre..."

 

 

 
 
 

"Hunger Games -La ragazza di fuoco" di Suzanne Collins

Foto di Vilma66

Ormai l'unico momento che riesco a vedere Gale è la domenica, quando ci troviamo nei boschi a cacciare insieme. E' ancora il giorno più bello della settimana, ma non è più come prima, quando potevamo raccontarci tutto. Gli Hunger Games hanno rovinato anche questo. Continuo a sperare che, col passare del tempo, recupereremo la nostra spontaneità. Ma una parte di me sa che è una speranza vana. Non si può tornare indietro.

Dopo il mio ritorno a casa, mi sono sforzata di recuperare il rapporto con mia madre. Di chiederle di fare delle cose per me, invece di respingere tutte le sue offerte d'aiuto come ho sempre fatto per anni. Di lasciare che fosse lei a gestire i soldi che ho vinto. Di restituirle gli abbracci, invece di limitarmi a tollerarli. Il periodo trascorso nell'arena mi ha fatto capire che dovevo smettere di punirla per qualcosa che non poteva evitare, fra cui la tremenda depressione nella quale era sprofondata dopo la morte di mio padre. Perchè a volte succedono cose che non si è preparati ad affrontare. Come non lo sono io, ad esempio, in questo momento.

Il significato delle sue parole mi colpisce con violenza. Non avrò mai una vita con Gale, neanche se lo desidero. Non mi sarà mai permesso di vivere sola. Dovrò essere innamorata di Peeta per sempre. Capitol City insisterà su questo punto. Probabilmente mi resta ancora qualche anno da passare con mia madre e con Prim, visto che ho solo sedici anni, ma poi... poi... Annuisco. Vuole dire che c'è un unico futuro, per me, se voglio tenere in vita chi amo e restare viva io stessa. Dovrò sposare Peeta... Poteva capitarmi qualcosa di molto peggio di Peeta, certo. Però il punto non è questo. Una delle poche libertà del distretto 12 è il diritto di sposare chi vogliamo o di non sposarci affatto. E adesso mi viene tolto anche questo. Mi chiedo se il presidente Snow insisterà perchè abbiamo dei figli. Se li avremo, dovranno affrontare la mietitura ogni anno. E sarebbe un gran bel colpo vedere il figlio non di uno ma di due vincitori che viene scelto per l'arena, giusto?... Gale è convinto che Capitol City lo faccia apposta, che trucchi i sorteggi per aggiungere emozione a emozione... Visti i guai che ho causato, è probabile che tutti i miei figli avranno un posto assicurato agli Hunger Games.

Rimango lì, sentendomi piccola e meschina, mentre migliaia di occhi sono puntati su di me. C'è un lungo silenzio. Poi, da qualche parte in mezzo al pubblico, qualcuno fischia il motivetto a quattro note con cui Rue riproduceva il canto della ghiandaia imitatrice. Quello che segnalava la fine della giornata lavorativa nei frutteti. Quello che nell'arena voleva dire essere al sicuro. Quando il motivo si conclude, ho individuato la persona che fischia, un vecchio avvizzito in tuta da lavoro e camicia di un rosso stinto. I suoi occhi incontrano i miei. Ciò che accade poi non è per caso. E' troppo ben eseguito per essere spontaneo, si verifica in totale simultaneità. Ogni singolo spettatore si preme sulle labbra le tre dita di mezzo della mano sinistra e le tende verso di me. E' qualcosa che si fa nel distretto 12, è l'ultimo saluto che io ho rivolto a Rue nell'arena. Se non avessi parlato col presidente Snow, questo gesto potrebbe farmi venire le lacrime agli occhi. Ma col suo ordine di calmare i distretti che ancora mi echeggia nelle orecchie, è una cosa che mi riempie di paura. Cosa penserà di questo saluto collettivo alla ragazza che ha sfidato Capitol City? Il significato di ciò che ho fatto mi appare improvvisamente evidente. Non è stato intenzionale - volevo solo esprimere la mia gratitudine -  ma ho provocato qualcosa di pericoloso. Un atto di dissenso da parte della gente del Distretto 11. E' proprio il genere di cose che in teoria dovrei arginare!

"Una rivolta," penso. "Quanto sono stupida." In quel piano c'è un vizio di fondo che io e Gale eravamo troppo ciechi per vedere. Una rivolta richiede di infrangere la legge, di opporsi all'autorità. Noi l'abbiamo fatto per tutta la vita, e così pure le nostre famiglie. Cacciare di frodo, commerciare al mercato nero, deridere Capitol City nei boschi. Ma per la maggior parte degli abitanti del Distretto 12, già fare un giro al Forno per comprare qualcosa era giudicato troppo rischioso. E ora mi aspetto che si radunino in piazza con torce e mattoni? La sola vista di me e Peeta è sufficiente a far sì che la gente allontani i bambini dalle finestre e tiri bene le tende.

Col passare dei giorni le cose vanno di male in peggio. Le miniere sono chiuse da due settimane e metà del Distretto 12 muore di fame. Il numero di bambini che si iscrivono per avere le tessere sale alle stelle, ma spesso non ricevono i loro cereali. Il cibo comincia a mancare, e anche chi dispone di un pò di soldi esce dai negozi a mani vuote. E quando le miniere riaprono, gli stipendi vengono ridotti, le ore di lavoro aumentate e i minatori spediti in zone sempre più pericolose. Il cibo garantito per il Giorno dei Doni, atteso con tanta ansia, arriva guasto e contaminato dai topi. Intorno alle strutture erette in piazza c'è grande movimento, via via che la gente viene trascinata lì e punita per reati sui quali si è chiuso un occhio per così tanto tempo che tutti si erano scordati che fossero illegali.

Il mio cuore batte troppo rapidamente. E se avessero ragione? E' possibile che sia vero? Che ci sia un posto dove scappare, a parte i boschi? Un posto sicuro? Se il Distretto 13 è davvero abitato, forse farei meglio ad andare là, dove potrei essere in grado di combinare qualcosa, invece di aspettare di morire qui. E inoltre... se al Distretto 13 ci sono persone munite di armi potenti... - Perchè non ci hanno aiutato? - dico rabbiosa. - Se tutto questo è vero, perchè ci lasciano vivere così, in mezzo alla fame, alle uccisioni, agli Hunger Games? - E all'improvviso scopro di odiare quell'immaginaria città sotterranea del Distretto 13 e quegli esseri indifferenti che ci guardano morire. Non sono migliori di capitol City.

Nella mia testa risento la voce del presidente Snow: " Nel settantacinquesimo anniversario, affinchè i ribelli ricordino che anche il più forte tra loro non può prevalere sulla potenza di Capitol City, i tributi maschio e femmina saranno scelti tra i vincitori ancora in vita." Si, i vincitori sono i più forti tra noi. Sono quelli che sono sopravvissuti all'arena e si sono sfilati il cappio della povertà che strangola tutti gli altri. Loro sono, o dovrei dire noi siamo, l'autentica incarnazione della speranza là dove la speranza non esiste. E ora ventitrè di noi verranno uccisi per dimostrare che persino quella speranza era un'illusione.

"Se non fosse per il bambino." Ecco. Lo ha fatto di nuovo. Ha sganciato la bomba... la bomba esplode e fa schizzare in ogni direzione accuse di ingiustizia, barbarie e crudeltà. Anche gli spettatori più innamorati di Capitol City, più affamati di Hunger Games e più assetati di sangue non possono ignorare almeno per qualche istante quanto sia orribile tutto questo. Sono incinta. Il pubblico non riesce ad assorbire subito la notizia. Deve colpirli e affondare dentro di loro ed essere confermata  da altre voci prima che gli spettatori inizino a sembrare una mandria di animali feriti che si lamentano, urlano, chiedono aiuto. E io? So che il mio volto è proiettato sullo schermo in primissimo piano, ma non faccio alcuno sforzo per nasconderlo. Perchè per un momento anche io sto rimuginando su quello che ha detto  Peeta. E' la cosa che più mi faceva paura  del matrimonio, del futuro... perdere i miei figli per colpa degli Hunger Games. 

Quando l'inno arriva alle battute finali, i ventiquattro vincitori sono in fila ininterrotta, la prima dimostrazione pubblica di unità tra i distretti dei Giorni Bui. Lo si capisce dal fatto  che gli schermi iniziano ad  annerirsi, uno dopo l'altro. Ma è troppo tardi. Nella confusione  generale, non ci hanno censurato in tempo. Ci hanno visti tutti... Da qualche parte , molto lontano da qui, c'è un posto chiamato Distretto 12 dove mia madre e mia sorella  e i miei amici dovranno vedersela con le conseguenze di quello che è successo stasera. A un volo di hovercraft da qui, c'è un'arena dove domani io e Peeta e gli altri tributi affronteremo la nostra punizione. Ma se anche moriremo tutti, questa sera sul palco, è successo qualcosa che non può essere cancellato. Noi vincitori abbiamo messo in scena la nostra sollevazione e forse - soltanto forse - Capitol City non riuscirà a insabbiarla.

 

 
 
 

"Chiedi alla neve" di Domenico Garofalo

Foto di Vilma66

Quello che davvero preoccupava Aldo era la sensazione che molti avessero covato la speranza di cambiare la loro vita alla casa di riposo dopo l'arrivo di alcune donne. Ci voleva una soluzione, dovevano inventarsi qualche rimedio per tenere tutti impegnati e non sotto pressione, almeno per i prossimi venti giorni. E quale soluzione trovare era diventato il pensiero fisso di Aldo che voleva coinvolgere gli altri rappresentanti della squadra per ricevere un aiuto, un consiglio. 

La primavera decise  di fermarsi stabilmente dalle parti di "Campo Olimpico", quasi a voler festeggiare anch'essa il momento fortunato portando giornate calde e un cielo azzurro. La curiosità degli anziani aumentava con il passare delle ore. Ognuno aveva l'immagine delle donne stampata nella mente, chi si vedeva passeggiare, chi danzare, chi cenare a un tavolino riservato nella sala da pranzo. Alcuni si spingevano oltre immaginando scene un pò osè. Nessuno si vedeva correre sulla pista di atletica seguendo le istruzioni di allenamento. Niente da fare, possiamo parlare di età finchè vogliamo ma la donna non rimane mai indifferente all'uomo, avesse egli pure cent'anni.

Erano tutte molto carine, ognuna con le sue peculiarità. Le classiche brave donne, affabili, sorridenti, valenti lavoratrici.

C'erano tutti i presupposti, infatti, perchè i molti uomini presenti sprigionavano, nonostante l'età avanzata, feromoni e diventavano potenziali mine vaganti per le signore appena arrivate. Per carità, nulla di pericoloso per l'incolumità fisica, ci mancherebbe, non erano queste le mire dei nostri baldi vecchietti. Ma sarebbe potuto iniziare un corteggiamento che avrebbe provocato guai ancora tutti da definire e individuare. Vero è che non avevano fatto nulla per impedire questo scarico ormonale. In fondo, data l'età degli uomini, le signore non pensavano di correre pericoli, ma il rischio di un errore di valutazione era molto alto in quel momento.

Tutti erano consapevoli che davanti evevano la Adele allenatrice, non la bella donna dagli occhi grigi. Lei iniziò a guardare uno a uno, per cercare qualche segno di volontà di mettersi in gioco, ma ben pochi ne vennero mandati dai nostri baldi atleti.

Quella chiamata per allenare sbandati vecchietti era stata accettata proprio perchè, avendo a che fare con coetanei, si riteneva in grado di gestirli bene. Nessuno quindi che le ricordasse suo figlio e del marito non le importava molto...

Tullio le piaceva da morire. Aveva forti muscoli e poi quel suo modo scanzonato e allegro l'aveva ipnotizzata. Era entrato nella sua testa e lei non riusciva a pensare ad altro. A tratti il suo modo libidinoso di proporsi poteva infastidire; a lei piaceva, al punto di aver avuto diverse volte pensieri su di lui che andava aldilà delle semplici carezze ed effusioni. Poveretta Bianca, non avrebbe mai immaginato che, dopo una vita di timidezza e pudore verso l'altro sesso, a quell'età di colpo si sarebbero risvegliate voglie assopite.

Candido non aveva più voglia di competizioni, allenamenti. Solo tranquillità. I suoi ottant'anni iniziavano a pesare. Del resto lui era stato l'artefice di tutto quello che era diventato "Campo Olimpico". Tanto tempo prima, quella casa di riposo era una dimora per anziani con ancora pochi anni da vivere, molti con malanni e problemi fisici. La noia permaeva quelle mura e un grigio silenzio, come anticamera del cimitero, non permetteva il benchè minimo rapporto tra i residenti. Perfetti sconosciuti che come morti viventi si aggiravano nei corridoi, nei viali del parco, tra le sale di ritrovo dove al loro interno, tutti gli altoparlanti diffondevano musica classica.                                                                     Al suo arrivo, Candido aveva conosciuto subito un silenzioso Luca, arrivato due mesi prima e al suo racconto su come si vivesse in quel luogo decise che non potevano aspettare la morte senza provare a vivere fino in fondo i loro giorni. Luca e Candido, quasi settantenni erano, a differenza degli altri ospiti, in salute e ottimisti sul loro futuro, desiderosi di passare mesi, anni al meglio delle loro possibilità. Passeggiando tra quei viali, Candido aveva avuto l'idea di mettere in atto una protesta che potesse anche uscire dai confini della dimora e come  un boomerang ritornare con effetti deleteri per tutti i titolari, amministratori, gestori di quel luogo di morte annunciata.

Basta quell'assurdo modo di concepire l'assistena agli anziani, basta con i giorni tutti uguali, Candido e Luca avevano scoperto il nervo del problema: l'apatia. E modificare il lento, uguale e inesorabile trascorrere delle giornate era possibile con un progetto da elaborare insieme alla direzione...                                                                                   Con stupore di tutti i residenti, di chi aveva inziato la protesta e dei mezzi di comunicazione, cinque giorni dopo un breve annuncio nella bacheca centrale avvisava che, entro un mese, una cordata di nuovi e giovani imprenditori avrebbe sostituito l'attuale amministrazione.

 
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963