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Che fare dell'Euro? - Parte II

Post n°916 pubblicato il 19 Marzo 2013 da VoceProletaria

Che fare dell'Euro? - Parte II

di Mimmo Porcaro,  19.03.2013

8. Mercantilismo antieuropeo
Più che l’astratto “potere padronale”, più che l’inafferrabile “neoliberismo” è quindi il meccanismo dell’euro a schiacciare tutti i lavoratori europei e gli stessi lavoratori tedeschi, pei quali la crisi è solo parzialmente attenuata dalla condizioni di partenza e dall’intervento di stato.
La deflazione deprime i salari, la Bce disarma gli stati, la stabilità monetaria inchioda il debitore e dà, soprattutto in tempo di crisi, un altro colpo ai redditi da lavoro. La moneta unica aumenta la divaricazione fra territori e quest’ultima, dando luogo ad un mercato del lavoro duale, fa aumentare la divaricazione fra classi: due diseguaglianze che si alimentano a vicenda.
Questo è l’effetto complessivo dell’euro, e la difficoltà, l’impossibilità di immaginarne un altro sta tutta nel fatto che esso è coerente con le esigenze dello stato economicamente più forte. Come strumento per tener bassi i prezzi dello stato esportatore e per acquisire a buon mercato materie prime, l’euro è infatti la perfetta espressione della politica mercantilista della Germania, ed assicura un surplus costante a Berlino. Ma assicura anche la disintegrazione europea perché predicare il mercantilismo a tutti è un assurdo logico, dato che in un gruppo di paesi connessi è impossibile che tutti siano contemporaneamente in surplus: chi lo è dovrebbe invece farsi carico di aumentare la domanda interna, e quindi le importazioni, proprio quello che Berlino non vuol fare. Sul mercantilismo non si può fondare un’unione economica, e tanto meno politica. E nemmeno si può fondare quel ruolo globale dell’euro, alternativo al dollaro, che molta sinistra ha immaginato.
Una vera Unione europea ed una vera funzione di coordinamento monetario mondiale richiedono una politica di riequilibrio fra creditori e debitori, cosa del tutto estranea alla logica dell’euro.

9. Perché conviene deprimere le economie del sud?
Quella dell’euro, è infatti, la logica del creditore, la logica del detentore di capitale monetario. I paesi che si trovano stabilmente in surplus inondano coi propri capitali i paesi in deficit, nei quali aumenta, in tal modo, la domanda finanziata a debito. Ciò, se all’inizio dinamizza l’economia, a lungo andare ne accentua gli squilibri perché aumenta ulteriormente il volume delle importazioni a scapito delle esportazioni e perché dà luogo ad una inflazione da domanda “drogata” che stabilizza le differenze di inflazione coi paesi in surplus e rende ancor più scarse le esportazioni dei debitori. Così sopraggiunge la crisi e a quel punto i debitori, poiché non posseggono il controllo della valuta in cui è denominato il loro debito, non possono attenuare il debito con la svalutazione e devono ridurre le spese statali, pagare a più caro prezzo il ricorso al mercato finanziario, e svendere il patrimonio. La rigidità dell’euro consente quindi ai creditori sia di evitare il “rischio di cambio”, sia di aumentare la dipendenza finanziaria dei debitori, sia di mettere le mani sul patrimonio altrui. Così si spiega il comportamento apparentemente illogico del creditore nord europeo: perché, infatti, incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord? Per ben due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, spesso terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. Non sarà bello dirlo, ma la logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in un mare di mano d’opera a basso costo. La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe.

10. La riforma impossibile
E’ possibile “migliorare” questa situazione? Allo stato attuale la risposta è: no, non è possibile.
Tutte le proposte avanzate al riguardo non intaccano il perverso meccanismo europeo. Una più attiva politica della Bce lascerebbe comunque intatti i differenziali di inflazione tra nord e sud, che sono una delle più importanti concause dello squilibrio. La possibilità di non considerare gli investimenti produttivi nel computo deficit pubblico sarebbe comunque poca cosa vista la costante diminuzione delle risorse disponibili. L’emissione di Eurobond non risolverebbe il problema della dipendenza degli stati dal mercato finanziario. Gli investimenti comunitari (…ma l’Unione ha recentemente ridotto il proprio bilancio, invece di aumentarlo come sarebbe logico in tempi di crisi) avverrebbero comunque all’interno di squilibri strutturali non sanati.
Inoltre ciascuna di queste scelte dovrebbe essere compensata, agli occhi di Berlino e Francoforte, da un indurimento delle restrizioni fiscali e dell’esautoramento degli stati nazionali: si toglierebbe quindi con la vanga e si darebbe col cucchiaino. E poi, soprattutto, chi sarebbe il protagonista di questa nuova politica? Hollande? Una Merkel rinsavita? Una nuova coalizione rossoverde in Germania? Non sarebbe affatto impossibile, in linea di principio, che le aziende esportatrici tedesche imponessero una difesa dell’euro ad ogni costo e dunque un qualche significativo allentamento della, peraltro immutabile, scelta deflazionista.
Ma come diceva il vecchio Lenin, la nostra tattica, se pur deve tener conto della possibile trasformazione delle tendenze in atto, è pur sempre su tali tendenze che deve basarsi. Ed esse ci dicono che nessuna delle forze in questione intende realmente deflettere dalla direzione intrapresa.
Non Hollande che accetta il Fiscal Compact e mercanteggia qualche sconto sul rientro dal deficit (problema francese) ma non sul rientro dal debito (problema italiano).
Non Angela Merkel, che deve vedersela con un nuovo partito apertamente anti-euro. Non i socialdemocratici o i verdi tedeschi che hanno sui Piigs la stessa idea della Merkel e che, come deve ammettere a denti stretti la stessa ala sinistra del nostro Pd, sono anch’essi di ostacolo ad una interpretazione “progressiva” dell’euro e dei suoi corollari. Non gli esportatori tedeschi che, recentissimamente, hanno addirittura cominciato a chiedere un ridisegno della zona euro, preoccupati della potenziale instabilità della moneta.
Nemmeno può farlo, infine, un solido movimento continentale per l’Europa “sociale”, movimento che semplicemente non esiste, che non sembra potersi costituire in tempi politicamente ragionevoli e che in ogni caso patirebbe al proprio interno di gravi assenze, come si è notato nel pur importante sciopero europeo che ha visto coinvolti, guarda caso, quasi solo i lavoratori dei Piigs: frutto, questo, della già ricordata dualizzazione del mercato del lavoro.
E allora?

11. Trasformare la crisi dell’euro nella crisi di “lorsignori”
Allora gli scenari più probabili sono due: o un parziale allentamento di alcuni vincoli, bilanciato da un accentramento autoritario del potere decisionale, tale da sterilizzare gli effetti delle scelte elettorali dell’Europa del sud (ipotesi che si limiterebbe a rallentare la corsa di una macchina diretta comunque al baratro); o una rottura dell’area euro a causa del mix tra insoddisfazione dell’elettorato tedesco (colpito anch’esso dalla deflazione salariale, ma incline a darne la colpa agli sfaccendati meridionali) e rivolta dell’elettorato sudeuropeo, quest’ultima espressa al momento da formazioni politiche che nel migliore dei casi hanno orientamenti vaghi, ma che proprio per questo sono destinate a crescere.
Come deve comportarsi una forza di sinistra, e in particolare una forza comunista di fronte a questi scenari?
Prima di tutto deve assumere fino in fondo il fatto che l’euro è una delle più importanti forme del dominio del capitalismo sui lavoratori europei. Poi deve rendersi conto che l’euro non è riformabile per linee interne e che la stessa lotta per l’Europa “sociale”, qualora vittoriosa, porterebbe necessariamente alla fine dell’euro, imponendo a chiunque se ne faccia portatore di definire da subito ipotesi di diversi assetti sia per l’economia nazionale che per quella continentale. Poi, continuiamo, prima ancora di scegliere se agitare o meno la parola d’ordine dell’uscita immediata dall’euro deve comprendere che la fase attuale è in ogni caso la fase del tramonto dell’euro stesso, e che ciò consente alla sinistra di ridefinirsi e di tornare sulla scena trasformando la crisi dell’euro nella crisi di quelle classi nazionali e sovranazionali, che ci hanno condotto al disastro.

12. Il vincolo esterno e la sinistra radicale
L’adesione incondizionata all’euro è stata infatti la modalità principale dell’egemonia del grande capitale nostrano, il modo di imporre, con la forza del vincolo esterno, quella disciplina interna che i partiti non sapevano più far accettare.
I prodromi di questa strategia stanno nell’ormai famoso “divorzio” tra la Banca d’Italia ed il Ministero del Tesoro (1981) che già metteva il debito pubblico nelle mani della finanza internazionale (facendone immediatamente aumentare il peso) ed usava l’indipendenza della Banca centrale come arma per imporre politiche fiscali pro-business sotto forma di “neutre” politiche monetarie, e riportare (già prima dell’avvento dell’euro) la quota dei salari sul PIL a livelli precedenti a quelli definiti dalle lotte degli anni ’60-’70.
Uno strumento di vendetta di classe, insomma. Strumento che è successivamente divenuto addirittura base del semi-stato europeo, e ha consentito alle classi dominanti italiane di impedire qualunque vera dialettica sociale e politica grazie alla preminenza del vincolo esterno.
Purtroppo, come si è accennato, la stessa sinistra radicale ha accettato integralmente questo nuovo spazio politico. Ha sposato la causa dell’europeismo incondizionato, lo ha fatto con qualche buona ragione e certo con le migliori intenzioni: ma oggi ne sta morendo, giacché proprio L’Europa è il regista nascosto di tutte le sue sconfitte. Per favorire l’ingresso nell’euro la sinistra radicale ha appoggiato il primo governo Prodi, accettando i sacrifici da questo imposti ai lavoratori italiani nell’illusione che dopo, una volta integrati nel nuovo spazio continentale, si sarebbe potuto cambiare marcia e finalmente riscuotere: il naufragio dell’ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro mostrò subito quanto tutto ciò fosse illusorio.
Altra illusione è stata quella di poter condizionare, grazie alla forza del grande movimento altermondialista italiano, le scelte del secondo governo Prodi, non comprendendo che questo rispondeva a Bruxelles più che agli elettori italiani, e quindi avallando provvedimenti finanziari addirittura più rigorosi di quanto richiestoci dall’Unione europea, che hanno contribuito non poco all’infausto ritorno di Berlusconi ed al fiasco dell’Arcobaleno.
Infine il fallimento di Rivoluzione Civile è stato anche effetto della completa mancanza di chiarezza sull’avvenire dell’euro, logicamente connessa all’atteggiamento ondivago nei confronti del Pd. Così le tendenze anti-euro sono oggi intercettate da forze la cui incertezza e confusione ci espongono al rischio della gestione avventurista di una fase delicatissima. Forze che rendono di fatto difficile la nostra permanenza nell’euro senza predisporre valide alternative. Perché uscire dall’euro è, per l’Italia, tanto necessario quanto difficile.
Necessario perché la spirale debito/recessione, che è il tributo pagato all’euro, impedisce qualunque pur parziale risposta alla crisi. Difficile per le immediate conseguenze negative, per il probabile connesso peggioramento della crisi mondiale, per la necessità di accompagnare l’uscita con quello che non c’è ancora, ossia con una profonda modifica dell’industria, del ruolo del lavoro, dello stato e della sua politica estera, senza le quali una momentanea svalutazione servirebbe solo a ribadire i rapporti sociali e le carenze produttive attuali, e segnerebbe un’uscita “a destra” dalla moneta unica.

13. Pensare il socialismo come esigenza del paese
Uscire a destra dall’euro significa promuovere una rottura, provocarla indirettamente, o comunque prenderne atto, senza approntare, in ogni caso, gli strumenti necessari a far sì che essa non peggiori, invece di migliorarla, la situazione dei lavoratori italiani. Una rottura che consistesse, infatti, semplicemente nella svalutazione, produrrebbe (per tacere degli effetti dell’inflazione sui quali, peraltro, il parere degli economisti non è univoco) un’ulteriore svalorizzazione delle imprese italiane e quindi favorirebbe, invece di ostacolarla, la politica semi-coloniale del nord Europa.
Essa produrrebbe, inoltre, una crisi dei debitori privati i cui debiti fossero denominati in euro: e questi debitori sono essenzialmente le banche, che così verrebbero fagocitate da acquirenti esteri. Produrrebbe un immediato peggioramento della situazione del debito pubblico che, anche se probabilmente non sarebbe così grave come alcuni temono, sarebbe naturalmente pagato dalle classi popolari. E causerebbe infine un’inevitabile ulteriore sottomissione del paese agli Usa che, se forse ostacolerebbero con durezza una nostra autonoma scelta di exit, potrebbero invece prendere atto di una rottura da noi subìta, per lucrarne vantaggi strategici.
Per evitare questo possibile scenario è necessario elaborare da subito una politica che preveda, in caso di exit, il rigido controllo dei capitali, la momentanea e parziale sospensione del mercato comune, la nazionalizzazione di tutte le banche e dei settori strategici, l’imposizione di forti tassazioni sul capitale, l’avvio di una politica estera basata su un’autonoma proiezione mediterranea dell’Italia, su nuove relazioni coi Brics e sull’ipotesi di un’immediata ricostruzione confederale dell’Europa, o quantomeno della sua area meridionale. La crisi dell’euro prepara le condizioni per un drastico peggioramento della situazione del paese, ma contemporaneamente fa sì che le soluzioni semi-socialiste, che spesso evochiamo solo retoricamente, si presentino come soluzioni imposte dalla durezza dei fatti e dalle necessità vitali del paese.

14. Eroi ed opportunisti
Bene. Ma che fare, adesso? Proporre immediatamente l’exit? Insistere sull’ Europa “sociale”?
Tentare una soluzione interlocutoria (euro a due velocità, Eurosud, Sme rivisitato)?
Si possono fare tre ipotesi.
La prima è l’ipotesi “eroica”: un soggetto politico popolare unisce progressivamente una gran parte dei cittadini sull’obiettivo dell’exit, giunge al governo, apre un negoziato ultimativo con l’Unione, ed infine esce dall’euro attuando le draconiane misure di cui si è detto. Ipotesi improbabile, per la momentanea assenza di un tale soggetto e per il fatto che esso si troverebbe di fronte, dato il suo carattere indipendentista, due nemici in un tempo solo, ossia i paesi europeisti e gli Usa, senza avere la forza di reggere lo scontro, e senza che si intravedano tra gli avversari contrasti tali da schiudere spazi di manovra. Questo soggetto potrebbe forse fare comunque il bene del paese, liberandolo da un giogo, ma molto probabilmente morirebbe insieme all’euro.
La seconda è l’ipotesi “opportunista”: attendere che qualche forza esterna o qualche forza interna interclassista o di destra promuovano o comunque provochino l’uscita dall’euro, attendere il momento in cui questa forza interna inizia a pagare gli immediati effetti negativi dell’exit, presentarci infine come soggetto della soluzione progressiva. L’ipotesi è più probabile della prima, ma vi sono due “ma”: potrebbe l’intermittente polemica anti-euro dei Grillo e dei Berlusconi dare vita a questo processo? E se sì, chi ci dice che un appoggio Usa, in questo caso assai più probabile, non consentirebbe a queste forze di apparire infine come le salvatrici del paese e di assumerne la guida per lunghi anni?

15. Un’ipotesi realista
Resta un’ipotesi migliore, che non a caso chiamo “realista”.
Un partito popolare, orientato alla difesa dei lavoratori (partito che può costituirsi proprio nel corso del processo di cui parlo, come trasformazione dei partiti esistenti o come soggetto del tutto nuovo), prende atto della crisi irreversibile dell’euro, si attrezza, anche culturalmente e programmaticamente, a gestire la fase post-euro e per intanto produce, via via, parole d’ordine variabili, commisurate al mutare dei rapporti di forza e degli orientamenti di massa, che leghino ogni volta le rivendicazioni di natura interna ad una forzatura del meccanismo dell’euro, tale da costringere i paesi egemoni a cambiare politica (cosa assai improbabile) o a svelare apertamente il proprio gioco. Tale partito potrebbe costituirsi nel corso di campagne di massa centrate, ad esempio, sulla necessità di risolvere subito la crisi occupazionale attraverso un intenso intervento pubblico, e potrebbe presentare come conseguenza necessaria di tale proposta la cancellazione del Fiscal Compact e qualche forma di flessibilizzazione dell’euro.
La razionalità di questa ipotesi sta nel fatto che essa non si basa su “frasi scarlatte”, su parole d’ordine estreme che potrebbero inizialmente allontanare una gran parte dei cittadini, ma su obiettivi che rendano via via più evidente l’inadeguatezza dell’euro, facendo in modo che sia proprio “l’esperienza delle masse” (ebbene sì…è ancora Lenin) a richiedere l’exit.
Tale ipotesi potrebbe quindi consentirci di accumulare progressivamente le forze (che devono essere ingenti) per un’uscita a sinistra dall’euro, prevedendo anche la rottura degli attuali schieramenti della sinistra politica. Tale ipotesi, infine, non escluderebbe affatto la possibilità di prendere la strada prevista dalla prima o dalla seconda ipotesi, se le condizioni lo richiedono e i tempi della crisi si accelerano.
In ogni caso, qualunque sia la strategia adottata, il soggetto che se ne farà portatore dovrà dire a sé stesso ad ai suoi elettori che l’euro è una forma storicamente superata di gestione dell’economia continentale e di quella italiana. E che l’Unione europea può essere ricostruita solo sulle ceneri della moneta unica e della governance continentale, solo come Confederazione di stati dotati di sovranità monetaria, uniti da meccanismi che assicurino una progressiva convergenza economica, e soprattutto uniti da una comune visione sociale e geopolitica.

 

 

 

 
 
 
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