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« A Bologna una battaglia ...USCIRE DALL’EURO »

A Bologna una battaglia in difesa della Costituzione. Parte I

Post n°926 pubblicato il 20 Maggio 2013 da VoceProletaria

A Bologna una battaglia referendaria in difesa della Costituzione,   
dei diritti sociali e della democrazia


di Fabio Besia insegnante, Federazione PdCI Bologna
17 Maggio 2013

«La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Articolo 33 della Costituzione Italiana

«Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?

A) utilizzarle per le scuole comunali e statali
B) utilizzarle per le scuole paritarie private»

Quesito del referendum consultivo comunale bolognese del 26 maggio 2013

________________________________________

Ci sono battaglie che, partendo da un ambito specifico e da una dimensione locale, possono assumere, grazie alle loro implicazioni, un carattere generale e strategico, perché riconducono a sé le contraddizioni più profonde del quadro politico-sociale nazionale. Basti solo pensare al movimento No-Tav della Val Susa o, per altri versi, alla lotta condotta dalla Fiom a Pomigliano: conflitti in cui la rivendicazione dei diritti sociali e degli spazi di democrazia trova il proprio fondamento nei principi stessi su cui si regge la nostra Carta costituzionale.

Qualcosa di simile sta avvenendo nelle ultime settimane anche a Bologna, dove il prossimo 26 maggio si svolgerà un referendum consultivo cittadino promosso dal Comitato Articolo 33, con l’obiettivo di eliminare i finanziamenti comunali alle scuole private paritarie, per destinarli invece al finanziamento delle scuole pubbliche. L’iniziativa referendaria del Comitato è stata sostenuta fin dall’inizio dal fronte composito della società civile bolognese (movimenti ed associazioni da sempre attivi a sostegno della scuola pubblica), dalle forze politiche cittadine di sinistra (Pdci, Rifondazione, Sel, Verdi), dal M5S e da forze sindacali come Flc, Fiom e sindacalismo di base. Grazie anche al loro attivo sostegno, il Comitato referendario è riuscito a raccogliere lo scorso autunno, nell’arco di poche settimane, quasi 13mila firme di cittadini bolognesi, ben oltre il limite necessario stabilito dallo statuto comunale.

È a questo punto, con l’indizione del referendum, che la partita è entrata nel vivo, assumendo via via toni sempre più aspri, compattando a sostegno del finanziamento alle scuole private uno schieramento che fino a poco tempo fa sarebbe stato considerato eclettico, ma che oggi appare profeticamente coerente: Pd, Pdl, Udc, Lega Nord, Confindustria, Cisl, Curia, Comunione e Liberazione. In pratica tutti i poteri forti cittadini, a cui va aggiunta la malcelata insofferenza al referendum espressa dalla maggioranza della Camera del Lavoro Metropolitana, in contrasto con la posizione di aperto sostegno assunta dalla sinistra sindacale di classe nella Cgil, assieme alla Flc ed alla Fiom.

Ma come è stato possibile che proprio a Bologna si sia determinata una situazione simile? Per comprenderlo occorre fare un salto all’indietro di circa vent’anni.

Il “laboratorio Bologna” e la liquidazione del patrimonio storico-ideale del Pci

Come è noto, la storica sezione della Bolognina è stato il proscenio per lo scioglimento del Pci e l’avvio della svolta occhettiana. Ma a metà degli anni Novanta, il gruppo dirigente dell’allora Pds, che a Bologna amministrava con la giunta del sindaco Walter Vitali, ritenne che, sciolto il Pci, era ormai giunto il tempo di un ulteriore passo in avanti e che la città dovesse ancora una volta diventare il laboratorio politico per sperimentare in loco, prima di lanciarlo a livello nazionale, l’accordo tra ex-comunisti ed ex-democristiani. E la giunta Vitali ritenne che il terreno di sperimentazione dovesse essere, non casualmente, proprio la scuola, da sempre considerata strategica dalla forze cattoliche.

Nel settore scolastico tutte le giunte bolognesi a guida comunista avevano massicciamente investito, dal dopoguerra fino agli anni Settanta, costruendo una rete di istituti comunali di ogni ordine e grado, dagli asili-nido fino agli istituti tecnici superiori. Il fiore all’occhiello del sistema di istruzione pubblico comunale era rappresentato dalle scuole dell’infanzia, per l’eccellenza della loro elaborazione pedagogica (riconosciuta anche a livello internazionale) e per la capillarità dell’offerta, estesa su tutto il
territorio cittadino.

Nel 1994 il sindaco Vitali decise consapevolmente la fine di questo modello virtuoso di intervento pubblico, in nome del “superamento di antichi steccati ideologici” sostenendo la convenzione che diede vita al cosiddetto modello integrato pubblico-privato, fondato ovviamente sui finanziamenti comunali alle scuole private, in specie quelle materne cattoliche. Negli anni immediatamente successivi alla stipula dell’intesa, diventarono evidenti gli effetti di questo radicale cambiamento di strategia: progressivo smantellamento dell’apparato scolastico comunale (ridotto unicamente agli asili-nido e alle scuole dell’infanzia) e continuo incremento della quota di finanziamento alle scuole private paritarie, in aggiunta alla quota già garantita sia dalla Regione Emilia-Romagna, sia (grazie all’azione del ministro Luigi Berlinguer) dallo Stato italiano.

È utile ricordare che la stessa giunta Vitali si rese protagonista in quegli anni di un’altra decisa rottura con il “modello” bolognese ereditato dalle passate amministrazioni a guida comunista, ovvero la privatizzazione delle Farmacie Comunali, un’azienda che produceva un cospicuo utile e la cui dismissione venne affidata all’allora assessore al bilancio Flavio Delbono, professore universitario di area cattolica, che ritroveremo sindaco della città per una brevissima quanto infelice stagione politica caratterizzata da scandali e cattiva gestione dei fondi pubblici. Dettaglio non trascurabile: la privatizzazione delle Farmacie Comunali fu portata a termine nonostante il parere contrario espresso dalla cittadinanza attraverso un referendum popolare consultivo che vide i comunisti bolognesi protagonisti di quella importante battaglia. La scusa addotta fu la scarsa affluenza alle urne (36% degli aventi diritto), che secondo la giunta rendeva l’esito “non politicamente significativo” .

Sta di fatto che il laboratorio bolognese aveva prodotto i risultati sperati. In quella che una volta era considerata la “roccaforte rossa” si privatizzava il welfare locale e si finanziavano con fondi pubblici comunali le scuole private cattoliche, un messaggio forte e chiaro di affidabilità che l’allora Pds lanciava ai suoi interlocutori a livello nazionale. Peccato che il messaggio non fosse evidentemente gradito ai cittadini bolognesi: le elezioni amministrative del 1999 furono infatti vinte dal candidato berlusconiano Giorgio Guazzaloca, a fronte di un astensionismo da record. Per riconquistare Palazzo d’Accursio i Ds furono costretti a schierare nelle successive elezioni comunali una figura nazionale quale Sergio Cofferati, che si rivelò tuttavia ben presto un corpo estraneo, mai integratosi nella vita pubblica cittadina, tanto da rinunciare volontariamente alla ricandidatura.

Seguì il breve intermezzo del sindaco Delbono che ha rapidamente portato al commissariamento della città. La buona politica e la buona amministrazione che avevano contribuito a creare, da Dozza in avanti, un modello sociale e politico ammirato in tutto il mondo (e particolarmente studiato dalla sinistra nordica, che ha mutuato gran parte del suo modello da quello emiliano e bolognese), in poco meno di tre lustri finiva ingloriosamente con un commissariamento e la scomparsa di amministratori di alto livello e competenza.

Il filo conduttore delle tormentate vicende politiche bolognesi degli ultimi vent’anni, qui sommariamente ricordate, emerge evidente: la progressiva liquidazione del patrimonio storico e ideale delle amministrazioni a guida comunista del secondo dopoguerra, perseguita in maniera esplicita e coerente, alla pari della giunta Guazzaloca di centrodestra, dall’apparato locale Pds-Ds-Pd. Il terreno ideale su cui operare lo “strappo” è stato identificato, in ossequio alla vulgata liberista (tra l’altro egemone a livello accademico anche nell’Ateneo bolognese) e all’ormai consolidato asse con i poteri forti cittadini, nel finanziamento pubblico alle scuole private cattoliche e nella privatizzazione di pezzi sempre più ampi e significativi di welfare comunale.

 

 

 
 
 
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