Creato da giglio.alfredo il 31/03/2013
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IL RICCIO DI ALFREDO GIGLIO

Post n°199 pubblicato il 10 Ottobre 2013 da giglio.alfredo
Foto di giglio.alfredo

 

                                                

 

 

 

 

 

                                         IL  RICCIO


Durante una mattinata di caccia dell’ultima domenica di settembre, mentre il sole picchiava più caldo che mai e l’aria era diventata irrespirabile per l’afa e per un nugolo di moscerini voraci e fastidiosi, che non mi davano tregua, volteggiando dinanzi ai miei occhi ed in filandosi persino nelle orecchie, cercavo riparo all’ombra di un leccio secolare e mi sedevo, su un masso di roccia, per riprendere fiato.

Alle mie spalle, si estendeva una lunga fila di rovi spinosi e sulla mia sinistra, un ramo spezzato di recente, giaceva in terra e sembrava volesse dirmi: ancora esisto, …. ma non vivo più!

Avevo messo il fucile in sicura ed ascoltavo l’abbaiare di una muta di cani lontano, lanciata all’inseguimento di qualche volpe, che si era attardata a rientrare nella tana. Osservavo di rimpetto a me, ad una sessantina di metri, un rigoglioso vigneto, carico d’uva matura, che, di lì a poco, attendeva d’essere raccolta. Ne gustavo il profumo, mentre lo sguardo si perdeva in quei lunghi filari ordinati, che lo percorrevano per tutta la sua lunghezza.

Improvvisamente, venivo richiamato alla realtà dal grido disperato, come una richiesta d’aiuto, di un povero passero, che, nello spiccare il volo da terra, nei pressi del rovo, era stato ghermito dagli artigli grifagni di un gheppio. Imbracciavo, istintivamente, il fucile per prendere la mira, ma desistevo subito, perché l’idea di sparare m’appariva folle: avrei ucciso due uccelli, invece di  salvarne uno!

Rimanevo così seduto non so per quanto tempo; mi piaceva riposare all’ombra, osservando delle farfalle gialle che si rincorrevano nell’aria, come fluttuanti in una danza elegante, di cui solo loro conoscevano il significato. Avevo camminato un paio d’ore, al mattino presto, per salire su una collina ricca di alti eucalipti, dove speravo di trovare appollaiati dei colombacci. Non mi ero sbagliato: i colombacci c’erano ed erano in gran numero, ma non avevano alcuna intenzione di farsi ammazzare da me, e così volavano via anzitempo. Ad un certo momento, mi alzavo e mi avvicinavo al vigneto, con le sue viti ad albereto, piantate diritte, da fare invidia ad una compagnia di reclute in esercitazione.

Percorrevo lentamente un sentiero, tra un filare di viti e l’altro, perché mi era sembrato che, alla fine del vigneto, si fossero posate due tortore, forse per bere al torrente che vi scorreva vicino.

Camminavo lentamente, tenendo in mano il fucile, pronto all’imbracciata rapida, necessaria per i tiri a selvatici in volo, quando la mia attenzione veniva catturata da rumori di foglie secche, che ricoprivano un leggero avvallamento del terreno. Le osservavo con attenzione e le vedevo muovere, come se qualcosa si nascondesse sotto. Pensando ad una tartaruga, sollevavo le foglie con la punta dello stivale e, a sorpresa, scorgevo un riccio adulto e ben nutrito, con due riccetti più piccoli, che vedendomi e temendo il peggio, si appallottolavano, drizzando tutti gli aculei, in segno di difesa.

Un’emozione indicibile mi assaliva: non avevo mai visto una famigliola di ricci da vicino. Alla mente mi tornavano i ricci ammazzati sulle strade dalle auto in corsa, e la pena che questo animaletto suscitava in me saliva vertiginosamente. Pensavo alla morte atroce che i nostri padri avevano riservato, dalla notte dei tempi, al povero riccio, prima che finisse in padella: doveva morire soffocato, perché la pelle rimanesse intatta e si potesse gonfiare con una cannuccia, infilata sotto la cute di una zampetta posteriore, per poterlo privare dei peli e degli aculei, con un vecchio, ma affilato, rasoio. Una morte veramente atroce!

Mi piegavo e prendevo in mano uno dei piccoli, tenendolo come una pallina spinosa nelle mie mani, quando la madre, si distendeva tutta e veniva verso di me. Giunta a pochi centimetri dai miei stivali, si alzava sulle zampette posteriori ed appoggiava quelle anteriori alla mia gamba destra e, guardandomi con decisione, emetteva uno squittio, che era una preghiera accorata di restituirgli il piccolo. Posavo delicatamente a terra il minuscolo riccio e, subito la famigliola si rimetteva in marcia lungo il filare di viti.

Ad un tratto, la mamma si voltava a guardarmi un attimo e poi riprendeva il cammino, seguita dai suoi piccoli, per sparire alla mia vista, dopo pochi metri. Forse, in cuor suo, aveva voluto dirmi: grazie!

Dopo questo episodio, decidevo di appendere il fucile al chiodo. Gli animali dovevano avere il diritto alla vita, quanto gli uomini.

                                                                                     


                                                          Alfredo  Giglio

 

 
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