Creato da giglio.alfredo il 31/03/2013
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« IL RICCIO DI ALFREDO GIGLIONELL'AMOR TUO PERDUTO D... »

RACCONTO DI ALFREDO GIGLIO

Post n°200 pubblicato il 16 Ottobre 2013 da giglio.alfredo
Foto di giglio.alfredo

 

   GIORNO DI  PASQUETTA

 

Era il giorno di Pasquetta, un lunedì di inizio aprile, pieno di un sole primaverile, caldo come se fosse  estate, tanto da ricercare l’ombra degli alberi.

Eravamo andati in campagna una ventina di persone, fra amici e parenti: una bella ed allegra comitiva, che si apprestava alla solita scampagnata, secondo una secolare tradizione.

Avevamo trovato un posto splendido, sotto la frescura degli ulivi, in una radura  pianeggiante, ricca di fiori multicolori  e margherite gialle di campo. Avevamo montato un lungo tavolo componibile e disposto attorno tutte le sedie, liberando così da tanti bagagli i cofani delle auto, stracarichi.

Sul tavolo avevamo disteso due tovaglie abbastanza lunghe ed avevamo poggiato tutte le vettovaglie, alla rinfusa, mentre io avevo portato le bottiglie delle bevande, dal vino alla Coca, nel vicino torrente, perchè si mantenessero fresche, dal momento che erano appena le dieci del mattino ed il pranzo era previsto per mezzogiorno inoltrato.

Per vincere la monotonia dell’attesa, mentre gli altri raccontavano vicende personali e barzellette, e, qualcuno più affamato e furbo, aveva trovato il modo di arraffare qualcosa, da mettere sotto i denti, mi appartavo per seguire i miei pensieri, camminando lentamente, per fare anche un po’ di moto.

Notavo così che, sotto quegli alberi di ulivi secolari, erano cresciuti, tardivamente, una quantità di asparagi selvatici, di cui andavo ghiotto.

Era per me una manna dal cielo. Cominciavo a raccoglierli, visitando tutti gli alberi, uno per uno, fino ad averne fatto, dopo più di un’ora, un bel fascio.

Li legavo con un filo di giunco ben stretti e, senza essere visto da nessuno, raggiungevo la mia macchina e nascondevo, fuori da sguardi voraci, il frutto della mia faticosa e preziosa raccolta.

Poi, guardando l’orologio, che segnava le undici e quarantacinque, cercavo un posto in disparte dalla folla, che intanto era diventata più rumorosa, essendo arrivate altre comitive, con tanti bambini molto chiassosi; mi sedevo all’ombra di una gigantesca tamerice, lungo la sponda del torrente ed osservavo curioso il rincorrersi veloce delle lucertole.

Alcune lucertole, più grosse, riuscivano a prendere in bocca le più piccole, forse in uno strano rituale d’amore .

Osservavo questa natura festante, che inneggiava al sole, e mi sentivo pervaso come da un sentimento di pace e di serenità interiore, mai provato.

Mi sentivo parte integrante di quel microcosmo, che si era svegliato in primavera, al calore dell’astro fulgente. Due libellule unite nell’atto d’amore, passavano veloci davanti ai miei occhi estasiati.

Mi beavo di tutte queste creature, che vivevano su questa nostra terra, a volte inosservate ed anonime, a volte odiate, a volte vittime dell’ignoranza e delle superstizioni, quando la mia attenzione veniva catturata da una piccola rana, che, impaurita da qualcosa o da qualcuno, con due balzi enormi, sgusciava dall’erba per guadagnare l’acqua del ruscello.

Appariva, all’improvviso, un grosso ramarro, dai colori bellissimi, che andavano dal bianco al grigio, dal verde vivo  al blu più intenso e quasi brillante: era un esemplare meraviglioso!

Era stata la sua vista che aveva fatto scappare la piccola rana. Il ramarro giungeva a circa  quattro metri da me, che rimanevo immobile a fissarlo. Lui  rimaneva totalmente incurante della mia presenza e si fermava su una grossa pietra.

Il sasso, avendo assorbito i raggi del sole,  doveva essere abbastanza caldo da  attrarre quel grosso rettile, che socchiudeva beato gli occhi alla luce.

Restavamo così immobili entrambi, per quasi dieci minuti, in silenzio, fino a quando non decidevo di rompere quell’incanto.

Prendevo in mano, come fosse un sassolino, una scheggia di mattone, piccola ma appuntita, e la tiravo in alto, perché cadesse perpendicolare all’animale e lo facesse andar via. Non vedevo dove era caduta la scheggia, ma da parte del povero ramarro non notavo alcuna reazione: rimaneva sempre immobile.

Mi alzavo e speravo che, vedendomi andargli incontro, scappasse.

Il ramarro sembrava, invece, che dormisse:  rimaneva sulla pietra, fermo. L’osservavo da vicino e vedevo una minuscola, quasi invisibile, macchiolina di sangue sulla testa. Era passato, senza avvedersene, dalla vita al sonno della morte, per il mio gesto stupido ed avventato.

Rimanevo amareggiato ed emozionato, tanto che una lacrima, quasi indispettita, decideva di lasciarmi e, rigandomi il  volto, si perdeva nella polvere.                                          

  Alfredo Giglio                              

 

 
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