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"PIU' DEL CLAMORE DEGLI INGIUSTI TEMO IL SILENZIO DEGLI ONESTI"

 

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UN'ATTESA LUNGA VENT'ANNI

Post n°558 pubblicato il 29 Marzo 2009 da bargalla

 

“Io devo andare, se tu vuoi, puoi restare. Cerca di dormire ancora un po’. Non dormi da vent’anni e non è solo il lavoro a farti stare sveglio. Ti conosco troppo bene. Nemmeno questa notte hai dormito. Hai inseguito te stesso e la mia ombra seguendo il filo dei ricordi che si dipanano nel tempo”.
Dopo tantissimi anni ci siamo rivisti solo per qualche ora, cara Nadia e ora sono qui a riordinare le idee e a ripetermi che forse ho sognato ad occhi aperti. Non smettevo di guardarti e di stringerti a me, non potevo certo dormire, volevo conservare tutto di te e ora assaporo quegli attimi: sanno di fiele e un po’ ladro d’amore mi sento, sono entrato furtivo nella tua vita; anche tu complice della mia follia hai lasciato che io entrassi nuovamente nella tua vita.
Solo una parentesi, hai detto, so che dopo starai male, ma siamo grandi abbastanza per farcene una ragione anche se tu ancora vivi di rimpianti.
Avevi ragione, cara Nadia, sarebbe stato meglio se non ci fossimo rivisti, si sono riaperte vecchie ferite eppure vorrei rivederti ancora anche a costo di stare peggio. Ora la solitudine assorbe nuovamente i miei silenzi intrisi di nostalgia per quello che poteva essere e non è stato.

So che anche stavolta devi andare. So che non riuscirei a trattenerti. Avrei dovuto farlo un’altra volta, vent’anni fa, quand’ero ancora in tempo, adesso non è più possibile soprattutto perché dici di essere moglie e madre felice. Sei troppo lontana, sei troppo vicina, ma come sai, mi basta guardare l’orizzonte per sentirti nuovamente mia. Sei diversa eppure così uguale alla ragazza di tanti anni fa.
Qualche capello bianco io, qualche capello bianco tu, solo che tu hai le meche per nascondere “i fili stanchi della vita”. Per vent’anni, ogni giorno, ho scavato inutilmente intorno al tuo ricordo vuoti abissali, per separarmi da te, per liberarmi, per riuscire a non illudermi mai più.
A volte mi sembra come se tu fossi partita per un lungo viaggio, vorrei che tu tornassi più spesso a rendere inquieti i sogni e i giorni miei, ma forse non riesci più a trovare la strada del ritorno anche se sai bene dove trovarmi.
Abbiamo parlato come vecchi amici, ci siamo comportati come amanti infedeli.
E’ stato come sognare, fu ebbrezza e tristezza, vertigine, un assalto del cuore.
Fu anima avida e abbandono a un estenuato delirio.
Non avevo età, non avevo storia né nome, non avevo paura, pudore, pensiero del tempo, non avevo parole da dire, avevo solo il silenzio, in silenzio assaporai le tue labbra, abbracciai il tuo corpo di vento.

Non so quanto ti abbia insegnato l’esperienza, gli uomini, il lavoro, le battaglie per i comuni ideali.
Sei andata via con la certezza di rinnovare la tua vita. Ci sei riuscita? Forse sì.
Di certo so che hai cambiato per sempre la mia vita lasciandomi in balia di me stesso; non so come ma sono sopravvissuto alla tua assenza.
Non so quanto ti abbia insegnato la scoperta che non c’è mai nulla di nuovo da nessuna parte. Dejà vu! Lo hai detto tu tante volte, non io. Io non conosco altro luogo che questo, altra vita che la mia.
Non conosco altra terra che quest’angolo di mondo perduto nel vuoto di una storia vissuta a metà.
Abbiamo cercato di fermare l’attimo fuggente, incatenandolo al nostro destino con parole eterne e il tempo si è vendicato di noi, di me che vivo senza amore in balia di me stesso.
Certe notti scruto il cielo, così come d’estate tante volte facevamo insieme, assegnando un nome a stelle, pianeti, costellazioni e galassie. Continuo a fingere che tutto è come prima, continuo a chiedermi dove ho sbagliato. Non sono mai riuscito a darmi una risposta. Vedo che nemmeno tu hai saputo darmene una.
Dopo vent’anni non è più tempo di domande e, soprattutto non c’è più lo spazio per avere delle risposte che non siano quelle suggerite dal Destino di ognuno.
Era altro il tempo in cui avresti dovuto capire quello che ora è indispensabile comprendere, vai ripetendo. Quel tempo ora è passato.

Che cosa hai fatto, dimmi, perché io capissi senza soffrire?
Dimmi che cosa hai avuto tu e quello che io ho irrimediabilmente perduto. Si chiama forse amore?
Per una volta smetti di mentire e dimmi di quel nostro amico, di tuo marito, parlami di un baro che ha giocato con i sentimenti e ha vinto.
Continui a ripetermi: forse non hai saputo crescere. Io soltanto te lo posso dire, quante volte me l’hai ripetuto: forse non hai saputo crescere. “Non vorrei offenderti ancora, ma non hai saputo crescere”.
Si sta facendo tardi
. Forse è tardi anche per riprendere a crescere, meglio restare bambini dentro e guardare la vita con l’incanto dell’innocenza non ancora turbata dalle brutture della vita.
Tutto sommato va bene così, meglio fare buon viso a cattivo gioco e rassegnarsi, farsene una ragione e ripetersi che in fondo è bello vivere da soli anche se sai di ingannare te stesso.
Va tutto bene, il lavoro mi gratifica grandemente, sto benone certo, come si può stare bene quando si è da soli. Però, sai, alla solitudine dopo un poco ci si abitua.
Ti sembra di essere stato sempre solo. Ora lo sono un po’ di più, è vero.
Le delusioni si confondono con i rimpianti, ma lasciami assaporare questi momenti di paradiso.
Tu di cosa potresti parlarmi, io che cosa potrei dirti che già non sai, se non lo faccio è perché non voglio turbare la tua serenità familiare, ci tengo troppo alla tua felicità.
Non servirebbe a niente raccontare di come siamo stati, di cosa siamo stati in questo tempo fatto di memoria e di oblio. Mi basta quello che di me riesci a ricordare, se qualcosa ancora ricordi.
Ci ha messo un bel po’ tuo marito a trovare questa casa al mare, mi hai detto, e ora sembra l’alcova di una concubina, te ne fai una colpa: troppi nodi al cuore asfissiano la ragione, la passione ci travolge e lascia il posto al dolore di un altro addio che si avvicina con l’alba di un nuovo giorno. Io adesso devo uscire, ripeti. E’ tardi, ma se vuoi, tu puoi restare ancora un po’.
Non ti aspettavo più, ma sentivo che mi pensavi.

Cerco di ricordare tutte le tue parole, le metto una dopo l’altra così da fissarle per bene in mente, ho come l’impressione che vorresti quasi chiedermi scusa.
Fragili interrogativi rimasti senza risposta, sospesi in quella vana ricerca di dare un senso alle cose.
Il destino si è messo fra di noi, ha fatto tutto il destino: in questi vent’anni ha modificato tutto senza cambiare niente. Io gli ho consegnato ogni cosa, anche la memoria di te.
Sai dirmelo, tu, che cosa avrei dovuto fare, ora che sei tornato cancellando la serenità della dimenticanza, ora che mi restituisci un’immagine, un riflesso di quello che sei stato, che sono stata, sai dirmelo ora tu che cosa avrei dovuto fare se non accettare il tuo invito?
Tu non sai come ho passato certi giorni. A volte mi sembrava di vederti vicino al nostro Liceo o su quello scoglio dove andavi a sederti quando ti estraniavi da tutti e da tutto per restare da solo con il mare.
Tu hai voluto essere sempre solo. Gli altri intorno a te non erano che un caso, un fastidio.
Ti comparivano davanti attraversandoti i pensieri, quei pensieri soliti che avevi dentro gli occhi.
E’ passato tutto. E’ tutto lontano. Riparlare di questo è solo insensato e ci fa stare tanto male.
Che cosa potremmo dirci? Potremmo dirci che ti ho aspettato. Ora però non ti aspettavo più.
Non ti aspettavo più. Eri già perso. Eri sembianza muta, affanno già placato, eri passione sfinita, ormai. Per me non eri più se non un nome. Per me non eri più se non qualcosa che mi restava come segno di morso o graffio o bruciore che si attenua fino poi a passare. Eri la mia stanchezza di aspettare.
Tu per me ormai non eri vivo
. Ho scavato seppellendoti ogni giorno, non pensandoti mai com’eri, ho chiuso gli occhi senza riuscire a immaginarti, ho soffocato il grido, scordando le tue mani, il tuo respiro.
Non ti ho rimpianto. Non ti ho più sentito sprofondare dentro di me, cercarmi il cuore e invadermi la mente. Tu per me ormai non eri vivo.
Cosa possiamo dirci ancora che non ci siamo già detti? Posso dirti che ho cresciuto i miei figli, a uno di loro ho dato il tuo nome, ho amato e amo mio marito, spesso ho pensato che la solitudine aveva la dolcezza che ha un dolore passato, e ho continuato a tessere e a disfare i giorni a uno a uno, legando e sbrogliando il passato e il futuro, nell’afa delle estati, nell’assedio degli inverni, ho pettinato i capelli, ho innaffiato i gerani, ho passato ogni sera la crema alle mani.
Quando Anna mi telefonò per dirmi che volevi vedermi, io ti pensai come si pensa ad uno sconosciuto.
Ti pensai così: come un’ombra che t’inquieta, ferita che ti sanguina quando è già guarita, pensiero inabissato che riaffiora, ti sale fino agli occhi, si aggruma, ti ossessiona, sbatte alle tue tempie, è sangue che sconquassa, è brace viva nella mente”.

Che cosa è rimasto in te di quel fuoco non voglio saperlo, cara Nadia, mi piace sapere che l’idea di rivederci ti abbia sconvolta talmente tanto da suscitare delle emozioni così intense e profonde.
Forse non ci rivedremo più, forse passeranno altri vent’anni, ma quell’esile filo che ancora ci lega mi aiuta a vivere e a cercarti fra la gente che incontro, mi riporta sui luoghi che mi parlano di te e della nostra perduta felicità. Il fuoco del mio amore arde sempre davanti al tuo nome e il mio cuore è ancora quello di vent’anni fa.


 
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