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Le grandi estinzioni di massa.

Post n°1833 pubblicato il 23 Gennaio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

Un nuovo studio evidenzia una carenza

di comunicazione fra le scienze che si

occupano delle estinzioni avvenute nell'era

glaciale, spesso attribuite alla nostra specie

nonostante non ci sia un numero sufficiente

di prove per poter affermare che la scomparsa

di mastodonti, tigri dai denti a sciabola e altri

grandi animali sia una responsabilità esclusiva-

mente umana di Brian Switek/Scientific American.

È la domanda che mi sto facendo da quando ho

saputo che quelle bestie sono esistite e sono

morte non molto tempo fa. Il motivo esatto della

loro scomparsa dipende dalla persona a cui lo

chiedete. Alcuni esperti indicano drammatici

cambiamenti climatici alla fine del Pleistocene che

hanno rimpicciolito l'habitat preferito di quell'elefante.

Un'opinione dissenziente condanna la predazione

umana, invocando orde di persone voraci che hanno

mangiato la megafauna del pianeta, quando Homo

sapiens si è diffuso dall'Africa al resto del mondo.

E se a volte si trova un compromesso tra questi

punti di vista - il cambiamento climatico che

destabilizza gli ecosistemi, per esempio, può aver

reso più drammatici gli effetti delle attività umane -

il fatto che stiamo accelerando la sesta estinzione

di massa è stato spesso inserito in una narrazione

di morale ecologica secondo cui dalla fine dell'era

glaciale a oggi l'umanità è stata una piaga per la

biodiversità mondiale.

Il problema dell'overkill nell'era glaciale


Ricostruzione di un gruppo di bradipi terricoli giganti

(Megatherium americanum) e del loro ambiente.

Non si tratta di un dibattito accademico isolato

od oscuro. Le nostre opinioni su quello che ha

ucciso la megafauna dell'era glaciale hanno

avuto un ruolo chiave nelle discussioni sul

ripristino naturale del Pleistocene - portando,

per esempio, gli elefanti asiatici in Nord America

a sostituire i mammut - e le false notizie sulla

clonazione o altre forme di "de-estinzione".

Se gli esseri umani sono stati responsabili

della scomparsa di questi animali e delle

connessioni ecologiche che queste specie hanno

favorito, allora abbiamo la responsabilità di riportarli

indietro. E forse è così. Ma vale anche la pena

indagare come l'idea di overkill [ossia di un tasso

di uccisioni superiore alle capacità riproduttive

della specie predata. NdT] - che si adatti o meno

al modello - abbia influenzato

gli ambienti scientifici che a loro volta suggeriscono

obblighi politici ed etici nei confronti dell'ecologia

globale. Proprio quello che esaminano gli archeologi

Lisa Nagaoka, Torben Rick e Steve Wolverton in

un'analisi dal titolo The overkill model and its impact

on environmental research (Il modello dell'overkill e

il suo impatto sulla ricerca ambientale).

La questione di ciò che è successo alla nostra mega -

fauna dell'era glaciale non ricade nell'ambito di

un'unica disciplina. È un mistero all'incrocio di scienze

varie a differenti, come archeologia, antropologia,

ecologia, zoologia, paleontologia, climatologia,

botanica e altro ancora. E dato che i fatti non sono

qualcosa di autosufficiente ma sono interpretati

attraverso la teoria, non c'è da meravigliarsi che

professionisti di scienze diverse abbiano punti di

vista differenti. Così, per tenere traccia di come le

varie scienze hanno risposto all'idea di overkill del

Pleistocene, Nagaoka e colleghi hanno analizzato

le citazioni nella letteratura scientifica del paleontologo

Paul Martin - il principale promotore dell'idea che gli

esseri umani hanno portato all'estinzione la mega-

fauna del Pleistocene - fino alla sua morte nel 2010.

Nagaoka e coautori si sono focalizzati principalmente

su due campi di studio che, nonostante la loro

connessione, spesso comunicano e collaborano poco

tra loro: archeologia ed ecologia. I ricercatori hanno

scoperto che le due discipline hanno punti di vista

molto differenti su quello che è accaduto al termine

dell'era glaciale, e questo a sua volta influisce sul

modo in cui l'estinzione del mammut e del mastodonte

è usata come strumento retorico nelle moderne

argomentazioni sull'estinzione. Questo è importante

perché, nonostante la sua accettazione apparentemente

diffusa, i dati a conferma dell'idea di esseri umani

affamatissimi che sterminano i grandi animali del

Pleistocene non solo sono controversi, ma spesso

sono addirittura carenti. "La realtà - scrivono

Nagaoka e i coautori - è che l'argomento usa una

serie di affermazioni non testate sulle interazioni

uomo-ambiente" e le prove dirette di una caccia

definitiva da parte degli esseri umani del Pleistocene

sono assai rare nonostante la ricca documentazione

fossile dell'era glaciale.

Quindi, che cosa mostra il confronto tra le scienze?

In archeologia, il ruolo svolto dall'essere umano

nell'estinzione del Pleistocene è una questione aperta.

Facendo riferimento a un sondaggio su 91 archeologi

e alla ricerca di citazioni, Nagaoka e colleghi hanno

scoperto che la maggior parte degli archeologi del

campione non riteneva che l'essere umano fosse

l'unica, o addirittura la causa principale, delle estinzioni.

Il cambiamento climatico è stato menzionato più spesso,

con l'essere umano che avrebbe esercitato una pressione

aggiuntiva o secondaria sotto forma di caccia o di

alterazione del paesaggio. Secondo la maggior parte

degli archeologi, che si concentra sulle abitudini delle

persone nel tempo, la colpa dell'estinzione di Megatherium

e Smilodon non è solo dell'essere umano.

E anche se ci sono problemi con il cambiamento climatico

e altre ipotesi, le ricerche scritte e citate dagli archeologi

hanno molte più probabilità di riconoscere che c'è un

dibattito in corso e che servono altre indagini.

Nell'ecologia il quadro è molto diverso, e ha ottenuto

una risonanza mediatica molto più grande grazie a libri

come La sesta estinzione [di Elizabeth Kolbert, BEAT, 2016]

ed eventi altamente pubblicizzati riguardanti la de-estinzione.

A questo proposito il catalogo delle citazioni è di aiuto.

Mentre gli archeologi sono più propensi a citare i primi

lavori di Paul Martin sull'overkill - che si concentravano

principalmente sul Nord America e sui movimenti umani

attraverso il continente - gli ecologi sono più propensi

a citare i suoi lavori successivi in cui il modello è globale.

Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che gli articoli di

ecologia avevano più probabilità di usare l'ipotetico

scenario di Martin come prova dell'argomento che gli

esseri umani avrebbero eliminato la megafauna invece

che come semplice riferimento a quell'idea.

Il problema dell'overkill nell'era glaciale

Il limite di questa pista basata sulle citazioni è che

molti dei presupposti non testati di Martin - cioè

che la megafauna fosse "impreparata" agli invasori

umani, e che la dispersione umana nel mondo spieghi

la distribuzione della megafauna moderna -

sono spesso affermati come fatti. A questa situazione

non giova la carenza di comunicazione interdisciplinare,

come la chiamano Nagaoka e colleghi, come appare

chiaro dall'esame delle pubblicazioni degli esperti.

I critici dell'ipotesi dell'overkill, o coloro che vedono l

'uomo come una delle varie pressioni che hanno

portano all'estinzione del Pleistocene, spesso

scrivono su riviste di archeologia o che hanno come

specifico oggetto l'ultima parte del Cenozoico.

Gli articoli a sostegno dell'ipotesi dell'overkill, invece,

sono spesso pubblicati su riviste scientifiche di

respiro più ampio e hanno ricevuto molta più pubblicità,

sotto forma di citazioni, nei dibattiti sul ripristino

naturale del Pleistocene e sulla de-estinzione;

proprio per questo è più probabile che siano presi

come indice di un consenso tra gli ecologi anche

quando tale consenso non esiste.

Si può sperare che il processo scientifico possa

aiutare a correggere questa situazione.

Archeologi o paleobiologi potrebbero pubblicare

le loro indagini e critiche su riviste di ecologia,

come suggeriscono Nagaoka e colleghi, ma il processo

di peer-review non è omogeneo e gli ecologi sono

più propensi ad ascoltare altri ecologi - che sono

già propensi ad accettare l'idea di overkill - che esperti

di altri campi. Questo è strano, scrivono Nagaoka e i

coautori, dato che l'archeologia è la scienza che si

occupa delle persone e del loro comportamento nel

orso del tempo. Per determinare se gli esseri umani

sono stati responsabili o meno dell'estinzione di tigri

dai denti a sciabola e bradipi giganti non sarebbe

utile conoscere idee e informazioni in loro possesso?

A partire, per esempio, dal fatto che nonostante una

ricchissima documentazione fossile del Pleistocene

disponiamo solo di una manciata di associazioni tra

esseri umani e megafauna che possono essere

considerate una prova della caccia? Di fatto, alcuni

dei più strenui sostenitori dell'overkill non leggono

né citano la letteratura che riguarda direttamente

l'argomento.

Questa situazione è difficile da cambiare, soprattutto

perché vediamo la terribile influenza dell'attività

umana sulla biodiversità di oggi. Così, il fatto che

gli esseri umani abbiano iniziato questo comportamento

già nell'era glaciale diventa una presa di posizione

politica, e metterla in discussione è talvolta considerato

alla stregua della negazione della moderna crisi di

estinzione. Il fatto è che l'overkill è un'ipotesi non

testata e non verificata che ha comunque preso il

sopravvento, con tanto di senso di colpa per la tendenza

distruttiva dell'umanità, che è alla base di un'idea di

espiazione ecologica. Il fatto che gli esseri umani abbiano

scatenato o meno una crisi globale di estinzione nel

Pleistocene è diventato quasi irrilevante nella

comunicazione sulla conservazione in virtù del valore

retorico dell'argomento. "Quando l'overkill è usato come

un racconto ammonitore e un mezzo per mobilitare il

sostegno all'ambientalismo, l'essere umano è descritto

come una specie distruttiva", scrivono Nagaoka e colleghi,

a quanto pare non a causa di quello che scegliamo di fare,

ma perché la distruttività sarebbe intrinseca alla nostra

natura. È una visione fosca e deterministica della nostra

specie. Inoltre, questa visione ignora le diversità culturali

nel tempo e nello spazio, trattando l'essere umano

come uniformemente vorace e distruttivo, una concezione

offensiva giustificata da una fragile correlazione.

Anche se alla fine si scoprisse che l'overkill è stato

un fenomeno reale e sostanzialmente globale

durante il Pleistocene, scrivono Nagaoka e colleghi, la

storia non è solo un racconto ammonitore o un viaggio

nella colpa nei confronti degli ecosistemi.

Una prospettiva alternativa, scrivono, è quella secondo

cui l'overkill offre informazioni sui diversi modi in cui le

culture umane hanno interagito con l'ambiente - in quali

tempi e luoghi ci sono state più persone distruttive rispetto

a quelle più interessate alla sostenibilità? - aiutandoci

così ad apprezzare meglio il modo in cui siamo intrecciati

con la natura invece di separarcene come forza

distruttiva a sé stante. Non si tratta semplicemente

della mancanza di dati a sostegno dell'overkill:

quell'idea ci separa dalla natura e ci rende cattivi,

in modo forse irrimediabile. Possiamo fare di meglio.

----------------
Brian Switek è un giornalista scientifico freelance e

autore di libri di paleontologia come Il mio amato

brontosauro (Codice, Torino 2014).

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato s

u "Scientific American" il 5 ottobre 2018.

Traduzione ed editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 
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