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Una morale per le macchine

Post n°2049 pubblicato il 28 Marzo 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Una morale per le macchine

 

L'editoriale del n.171 di Mind, in edicola

il 27 febbraio 2019di Marco Cattaneo

Era il 1950 quando Isaac Asimov pubblicava

una raccolta dei suoi racconti di fantascienza.

La intitolò Io, robot, e nel racconto Essere

razionale comparivano per la prima volta in

forma compiuta le tre leggi della robotica.

Aveva iniziato a elaborarle negli anni

quaranta, e alla fine, nella loro versione

originale, suonavano così:

1) un robot non può recare danno a

un essere umano né può permettere

che, a causa del proprio mancato intervento,

un essere umano subisca un danno;

2) un robot deve obbedire agli ordini

impartiti dagli esseri umani, purché

questi ordini non contravvengano alla

prima legge;

3) un robot deve proteggere la propria

esistenza, purché questa autodifesa

non contrasti con la prima o con la seconda

legge.

Per quanto affascinanti, le tre leggi di

Asimov sono un tantino ingenue, o

perlomeno semplicistiche.

La nostra etica è indubbiamente governata

da principi più complessi e flessibili.

Ma d'altra parte quando Asimov scriveva le

sue leggi l'informatica stava muovendo i

primi passi, i computer erano giganteschi

macchinari che occupavano intere stanze e

l'intelligenza artificiale non era ancora stata

inventata, almeno come espressione.

Fu coniata nel 1956, da John McCarthy, nel

convegno del Dartmouth College che viene

considerato l'atto di fondazione di questa

nuova scienza.

A settant'anni di distanza da quelle primitive

regole, però, è ora di fare sul serio.

Perché - come dice Pedro Domingos, citato

da Stefania De Vito a p. 92 - siamo preoccupati

che i computer possano diventare tanto

intelligenti da conquistare il mondo, «ma il

problema vero è che i computer sono ancora

troppo stupidi, e hanno già conquistato il mondo».

Abbiamo computer dappertutto, e le applica-

zioni di intelligenza artificiale stanno diventando

pervasive. Ma robot e computer prendono le

decisioni sulla base delle informazioni che

apprendono, perciò i dati con cui sono alimentati

sono importanti almeno quanto gli algoritmi.

E i dati che vengono forniti alle macchine

partendo dai grandi numeri della rete e dei

social network risentono degli stessi pregiudizi,

delle stesse distorsioni, degli stessi stereotipi

diffusi tra gli esseri umani.

Lo hanno sperimentato colossi del digitale

come Google e Amazon, rilevando che le

banche dati tendono a sovrarappresentare

individui bianchi e di sesso maschile.

E chi l'avrebbe mai detto...

Quanto sia complicato istruire un computer

a prendere decisioni lo si capisce, per esempio,

quando si pensa all'introduzione sul mercato

delle auto a guida autonoma.

E a quei test in cui si chiede alle persone di

scegliere chi «sacrificare» in caso di incidente i

nevitabile. Tra i molti esperimenti condotti in

questo campo, De Vito ne ricorda uno

illuminante, pubblicato su «Science» nel 2016. 

Ai partecipanti si chiedeva se, in vista di un

incidente imminente, l'auto dovesse proseguire

e investire numerose persone o sterzare,

andando contro un muro e sacrificando il passeggero.

La risposta, nella maggior parte dei casi,

era scontata:

un'auto dovrebbe salvaguardare il maggior

numero di vite umane possibile, e dunque

uccidere il passeggero. Ma c'è un problema.

Probabilmente nessuno acquisterebbe

un'automobile programmata per ucciderlo,

nemmeno sapendo che si tratta di

un'eventualità rarissima.

Nel bene e nel male, la nostra morale si è

evoluta per decine di migliaia di anni con

il mutare del tessuto sociale, e tuttavia

rimane incerta, fluida, contraddittoria.

Quanto siamo sicuri di affidare a una macchina

questioni di vita o di morte? 

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