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Post n°1793 pubblicato il 22 Dicembre 2018 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet I 15 romanzi italiani più belli del secolo Titolo impegnativo. In realtà è una selezione molto personale. Una pesca a setaccio nel cassetto dei ricordi. Da prendere con un po' di ironia - 25 maggio 2018 Questo è un articolo-selezione che si arricchisce di altri cinque titoli. Michele Lauro li ha aggiunti a quelli che avevamo marchiato, con un po' di ironia arricchita però da scelte rigorose, come "i più belli di questo secolo" (peraltro incominciato da poco, quindi lo sviluppo e le aggiunte sono inevitabili). Ora dunque ne abbiamo 15. I primi che trovate qui sotto sono le nuove aggiunte, precedute da una piccola introduzione. Poi ci sono gli altri dieci, scelti nel 2016. POST-ILLA 2018 Il gioco prosegue in un mercato editoriale che sembra confermare l'evoluzione di una Editoria senza editori, come intitolò il suo saggio di inizio millennio André Schiffrin. Oltre 60.000 titoli l'anno pubblicati in Italia: l'omologazione dell'industria culturale coincidente con la rarefazione dei lettori e con un bisogno crescente di scelte, suggerimenti, selezioni, suggestioni. Per chi volesse allargare il raggio delle scintille provenienti dalla rete, segnalo tre opere critiche brillanti e illuminate che indagano il panorama della narrativa contemporanea spingendosi con coraggio fino alle soglie del presente: La terra della prosa di Andrea Cortellessa (2014), dedicato ai narratori italiani degli anni zero (1999-2014), Il romanzo italiano contemporaneo di Carlo Tirinanzi De Medici (2018), ricognizione critica dagli anni Settanta a oggi, e La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti (2018), che abbraccia in un'unica, ampia visione narrativa e poesia dell'Italia contemporanea. La vita in tempo di pace, di Francesco Pecoraro (2013) Storia, natura, filosofia, scienza e fantascienza partecipano all'architettura di un romanzo-saggio poderoso, ambizioso, disturbante, manifesto del decadentismo europeo di fine Novecento ed esegesi degli ultimi sessant'anni di storia italiana: il tempo di pace, appunto. Attraversa questo tempo un antieroe dai tratti vagamente sveviani, il settantenne Ivo Brandani, "vecchio maschio silente" che in un futuro prossimo si trova imprigionato per caso nell'aeroporto egiziano di Sharm el Sheik. La condizione di attesa nel non-luogo per antonomasia diventa lo spazio ideale per una riflessione: cosa nell'arco della mia esistenza ha resistito alla cancellazione del tempo? Il tedium vitae di Ivo, ingegnere appassionato di aerodinamica dei velivoli da guerra, nevrotico, insicuro, ossessivo, abbandonato alla panacea chimica del Tavor, si manifesta nell'incontro- scontro fra l'armonia della matematica e il caos del mondo reale, e nello scacco affettivo dovuto alla generale ostilità del genere umano. I quadri esistenziali scorrono sullo sfondo di una società - l'Italia del dopo- guerra - fondata prima sul miracolo economico e poi sulla finzione del cambiamento, con la massa dei piccolo-borghesi che avevano creduto nella rivoluzione soggiogati dal potere e dall'eros tanto quanto i potenti che aveva creduto di combattere. È una visione mostruosa, orwelliana e insieme iperrealistica: lo scannarsi di tutti contro tutti, schiavi del desiderio, assuefatti alle leggi del consumo. Ma nella notte di Roma, antica culla di civiltà preda del darwinismo sociale, abbagliano qua e là paesaggi e atmosfere purissime. Memoria di una bellezza e di una giovinezza estinte, rimembrate in pagine commosse. Francesco Pecoraro PUBBLICITÀ Le otto montagne, di Paolo Cognetti (2016) Raro caso in cui la buona letteratura diventa quasi subito un successo decretato anche da tanti giovani lettori, sfatando perfino il tipo di diffidenza con cui Giorgio Manganelli era solito accogliere l'imprevisto bestseller ("mi insospettisce... ci dev'essere qualcosa che non va"), è un romanzo molto fisico che poggia su un substrato spirituale profondo, nel solco delle grandi storie di formazione, virato sul doppio registro ambientale ed esistenziale. Città e montagna - e il viaggio di andata e ritorno dall'una all'altra - sono come in tutte le storie di Cognetti la metafora dell'uomo che fatica a venire a patti col suo stare al mondo: le crepe nei legami familiari, i figli che si ritrovano sulle tracce dei padri proprio mentre pensavano di averla scampata, il desiderio di fuga dalla civiltà urbana che è poi fuga da sé stessi, da quell'io che non ci appartiene più. E come l'intenso diario che l'ha preceduto, Il ragazzo selvatico, Le otto montagne si pone agli antipodi della bucolica lucreziana. È popolato da stambecchi e volpi, mucche cani pastori in antica simbiosi. Ci sono tronchi, scarpate, baite e ruscelli. Si prova la libertà di andare dove non c'è il sentiero e la commozione per le "cose fondate sulla propria forma e basta", come diceva in un verso Seamus Heaney. Ma è un attimo scivolare sul ghiaccio come dentro il disagio e la fatica, cedere alla spossatezza per l'interminabile inverno, per le relazioni inevitabilmente spezzate. Nel finale, lo scrittore apre lo sguardo a Oriente - l e valli del Nepal - dove la montagna non è matrigna né madre né un'icona da conquistare o riconquistare, ma semplicemente la giostra del tempo in cui un'umanità senz'ansia di futuro ruota da sempre. Lo spunto perfetto per un nuovo racconto. Paolo Cognetti Neve, cane, piede, di Claudio Morandini (2016) Romanzo breve sospinto a una breve notorietà dalla brezza del passaparola, narra una storia di eremitaggio e poi di convivenza forzata fra uomo e cane, in una valle aspra di montagna preclusa ai camminatori della domenica. È il cane che ha scelto l'uomo, Adelmo Farandola, un vecchio scontroso che si è ritirato in baita, insensibile alla dignità alla memoria e agli odori che fanno di un uomo un uomo. Il cane invece ricorda tutto e annusa tutto. Con pazienza la coppia aspetta la fine dell'inverno raschiando il sudiciume dalle stoviglie e ingaggiando una sfida quotidiana contro i nemici dell'alta montagna: Freddo Fame Sonno. Dialoghi plausibilissimi tra bestie (tra uomo e bestia) violano il silenzio delle pietraie, scompigliando i contorni tra sogno e realtà in una zona franca appena sfiorata dai borborigmi del ghiaccio. Finché il rito del disgelo tinge la fiaba prima del bianco - una slavina arriva ad annunciare l'ubriacatura del rinnovamento - e poi del nero, e una misteriosa sagoma pian piano prende forma là dove sembrava esserci soltanto neve. Sospesa tra immanenza e metafisica, claustrofobia e vertigine, inquietudine e rassegnazione, questa fiaba ha generato nel 2017 un aguzzo spin off intitolato Le pietre, sempre ambientato in montagna e ugualmente chirurgico nello smascherare l'idealità compromessa della wilderness al tempo del global warming e del turismo di massa. Claudio Morandini Kobane Calling, di Zerocalcare (2016) Romanzo grafico dallo straordinario spessore umano e artistico, racconta i due viaggi nel Kurdistan siriano-iracheno del fumettista di Rebibbia (novembre 2014 e luglio 2015): facce, scarabocchi e parole dedicate a un popolo che ormai da tempo lotta per la liberazione dagli oppressori turchi e contro l'avanzata del Califfato. Un nonreportage, così l'ha chiamato l'autore, che sarebbe piaciuto a Tiziano Terzani, maestro di giornalismo sul campo la cui militanza contro le ingiustizie si è sposata con la ricerca di sé. Questo doppio registro, consueto nelle opere di Zerocalcare, in Kobane Calling raggiunge forse l'acme della poesia, rimanendo fedele a un linguaggio punk fatto di dialoghi ficcanti, immagini nette, similitudini abrasive ("sei mai stato a Mediaworld la mattina del 24 dicembre? ecco, la porta di Semelka, al confine con la Siria, è così. Moltiplicato per mille") con cui l'autore introduce alla cultura sociale curda: un confederalismo democratico radicale basato sul diritto alla vita, sulla convivenza pacifica di etnie diverse, s ull'uguaglianza di donne e uomini. L'attraversamento del Tigri per entrare in Rojava su una piccola barca a motore è fra i momenti più emozionanti. Di là ci sono lo stesso fiume, gli stessi 50 gradi, lo stesso niente intorno. Eppure qualcosa è diverso. Saranno gli occhi di Ezel che brillano come quelli di una che sta tornando a casa, o forse "sarà il fatto che abbiamo attraversato mezzo mondo, preso aerei, pullman, barche... contro i pareri di quasi tutti quelli che conoscevamo... " In una tavola emblematica Kobane è ritratta dal tetto di un palazzo, con un cuore- cattedrale che pulsa in mezzo alle case scalcinate e alle macerie. Un cuore pieno di toppe, di cicatrici. Un cuore enorme. Come se in quella tragedia che non raccontano più nemmeno i telegiornali, come se nell'altrove più altrove vedessi improvvisamente anche te stesso, rannicchiato insieme agli altri esseri umani sulla faccia della terra. Se c'è un messaggio celato in questo libro d'avventure anche interiori, un messaggio completamente antiretorico, è che per trasformare la nostra mentalità, cioè liberarsi dai clichè, dai condizionamenti, è meglio non accontentarsi di idealismi prefabbricati ma uscire dal recinto, andare a vedere di persona la vergogna dell'umanità in uno dei tanti musei a cielo aperto. Per tornare col dubbio che forse, di quello che è stato lasciato accadere, siamo un po' tutti responsabili. Zerocalcare Bella mia, di Donatella Di Pietrantonio (2013-2018) Ripubblicato nel 2018 con una post- fazione dell'autrice che nel frattempo ha (meritatamente) vinto il Campiello 2017 con L'arminuta, è ambientato a L'Aquila, città sfasciata da quella "epilessia della terra insorta" che nel 2009 lasciò molti sopravvissuti - come la protagonista di questa storia - in balia di una vita provvisoria fatta di acronimi, nevrosi, rimpianti. Fra le crepe dei palazzi, un ragazzo riccioluto con la maglietta dei Nirvana si presenta a Caterina, chiamata dal destino a elaborare il lutto per la perdita della gemella e insieme a sostituirla nel ruolo più insostituibile: la madre di un adolescente. In un climax ad alta tensione emotiva, prende forma un malessere ben più antico della sciagura sismica, legato all'archetipico scontro tra femminilità e sorellanza. Un malessere arcaico che si accompagna alla vergogna, al senso di colpa per l'ingiustizia della sopravvivenza, come accade quando il disegno del caso appare così insensato e crudele. Ispirato da una canzone popolare abruzzese, Bella mia riesce nel piccolo miracolo di tramutare l'angoscia in consapevolezza ("ho amato mia sorella come la parte di me che non sono riuscita a essere") e la solitudine in una alleanza di esseri viventi (esseri umani, animali) dentro lo stesso paesaggio ferito. Anime rattrappite, traumatizzate, con la naturale propensione alla socievolezza ridotta a un lumicino sottile, da tenere acceso a ogni costo. Così la mitopoiesi del sisma si trasforma in un grido collettivo d'amore. Donatella Di Pietrantonio |
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