blogtecaolivelli
blog informazione e cultura della biblioteca Olivelli
TAG
TAG
Messaggi del 29/06/2019
Post n°2272 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze Le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza fra i membri di una società hanno iniziato a diventare rilevanti durante il Neolitico, con l'avvento dell'agricoltura e dell'allevamento. A parità di sviluppo economico, le antiche culture del Nord e Centro America erano però più ugualitarie di quelle del Vecchio Mondo. Nella storia dell'umanità, le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza hanno iniziato ad accentuarsi durante il Neolitico e sono generalmente aumentate con la domesticazione di piante e animali e con la complessità delle strutture sociali. Queste disuguaglianze, inoltre, sono state decisamente più marcate nelle società euroasiatiche che in quelle dell'America settentrionale e centrale. A stabilirlo è lo studio di un gruppo di ricercatori diretto da Timothy A. Kohler della Washington State University a Pullman, negli Stati Uniti, che ne riferiscono su "Nature". Uno dei più antichi insediamenti agricoli nella cosiddetta mezzaluna fertile, nell'attuale Siria, risalente all'8000 a.C. Gli archeologi si interrogano da tempo sulle differenze di accesso alle risorse nelle società più antiche, ma si sono scontrati con la difficoltà di individuare variabili che riflettessero la condizione economica delle famiglie e al tempo stesso permettessero un confronto fra culture ed epoche diverse. (Le offerte collocate nelle tombe, per esempio, non sono un buon parametro, dato che le tumula- zioni che possiamo ritrovare oggi erano riservate in genere a persone di stato sociale elevato e non sono rappresentative di tutta la popolazione.) Kohler e colleghi hanno ora mostrato che un parametro relativamente semplice e universale della capacità economica di una famiglia sono le dimensioni delle case all'interno di una comunità. Nelle società in cui gran parte delle persone hanno una posizione economica simile, le abitazioni tendono ad avere le stesse dimensioni. Ma per i gruppi in cui alcuni hanno una ricchezza maggiore di altri, si osserva di solito la coesistenza di case piccole e grandi. Una famiglia delle cultura BaYaka, dell'Africa centrale, ancora oggi prevalentemente dedita alla caccia e raccolta. (Cortesia Gul Deniz Salali)Sulla base dei dati raccolti i ricercatori hanno rilevato una maggiore disparità economica nei siti agricoli rispetto a quelli occupati da cacciatori-raccoglitori o da popolazioni con un'economia "mista" ( costituite da piccoli gruppi che integravano piccole colture con le risorse ottenute con la caccia o la pesca), e questa disparità era tanto maggiore quanto più era importante la domesticazione di grandi mammiferi e l'estensione delle coltivazioni agricole. A questo si sovrappone poi il livello di strutturazione e complessità della società, con la creazione di élite politiche. avevano raggiunto livelli di disuguaglianza significativamente più elevati rispetto a quelli nordamericani, anche quando le rispettive economie agricole erano durate per periodi di tempo equivalenti. adattato un classico strumento socioeconomico, il cosiddetto indice di Gini, sviluppato più di un secolo fa dallo statistico e sociologo italiano Corrado Gini. In teoria, un paese in cui vi è una distribuzione della ricchezza perfettamente equa avrebbe un indice di Gini pari a 0, mentre un paese in cui tutta la ricchezza è concentrata in una sola famiglia avrebbe un indice pari a 1. Terracotte pueblo rinvenute a Pueblo Bonito, nel New Mexico, risalenti a 1000 anni fa circa. I ricercatori hanno scoperto che l'indice di Gini delle società di cacciatori-raccoglitori è tipicamente 0,17, il che segnala una bassa disparità nella distribuzione delle risorse, coerente con l'elevata mobilità che rende difficile l'accumulazione della ricchezza. ale a 0,27 e cresce ulteriormente - in media a 0,35 - nelle società in cui l'agricoltura predominava nettamente. Questa media nasconde però forte differenze: se nel Nuovo Mondo l'indice difficilmente superava lo 0,3, nel Vecchio Mondo si raggiunge anche un indice pari a 0,59. questi valori, l'articolo riporta anche alcuni esempi dell'indice di Gini di paesi contemporanei: l'indice di Gini attribuito alla Grecia di oggi è 0,56 e quello della Spagna 0,58 (l'Italia è a 0,59): valori decisamente elevati, ma ancora ben inferiori a quelli attribuibili alla Cina (0,73) e agli Stati Uniti (0,80). |
Post n°2271 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 12 febbraio 2019 Le origini della cultura megalitica in Europa L'analisi comparata delle datazioni di oltre 2000 dei 35.000 megaliti diffusi in tutta Europa e delle loro caratteristiche costruttive indica che la tradizione megalitica ha avuto origine nella Francia nord occidentale per poi diffondersi lungo rotte marittime. La scoperta smentisce sia l'ipotesi che la cultura megalitica provenisse dal Vicino Oriente, sia quella di una sua nascita indipendente nelle diverse regioni archeologiaLa cultura dei megaliti europea sarebbe nata verso la metà del V millennio a.C. nella Francia nord occidentale per poi diffondersi sulle coste atlantiche del continente e del Mediterraneo lungo rotte marittime. Il risultato - ottenuto dalla ricercatrice all'Università di Göteborg, in Svezia, Bettina Schulz Paulssonin, e illustrato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" - smentisce entrambe le principali teorie finora in campo sulla storia dell'edificazione di queste strutture. Il Dolmen di Sa Coveccada in Sardegna. Fra menhir, dolmen, cerchi di pietre, allineamenti e altri edifici o templi megalitici, in tutta Europa sono note circa 35.000 strutture di questo tipo, la maggior parte delle quali risale al Neolitico e all'età del Rame e si concentra nelle zone costiere. tutte caratteristiche architettoniche simili se non spesso addirittura identiche; per esempio, l'orientamento delle tombe è costantemente orientato verso est o sud- est, nella direzione da cui sorge il sole. Ciò ha indotto gli archeologi, fin dalla metà del XIX secolo, a ritenere che la loro costruzione fosse legata a una religione che si sarebbe diffusa dal Vicino Oriente prima nel Mediterraneo e quindi sulle coste atlantiche della Spagna, della Francia e della Gran Bretagna, a seguito della migrazione di membri della casta sacerdotale. fino ai primi anni settanta del secolo scorso, quando le prime datazioni al radiocarbonio la misero fortemente in dubbio, portando la maggior parte degli studiosi verso l'ipotesi di una nascita indipendente nelle diverse regioni e imputando le somiglianze alla relativa "semplicità" delle strutture architettoniche. megaliti si sono moltiplicate a dismisura, ma senza che si tentasse di tracciare un quadro cronologico complessivo su cui testare l'ipotesi della nascita indipendente. Tomba megalitica a Haväng, in Svezia. Ora Bettina Schulz Paulssonin ha analizzato 2410 datazioni al radiocarbonico relative a siti megalitici e pre-megalitici e a siti non megalitici coevi di tutta Europa. piccole costruzioni chiuse o dolmen realizzati con lastre di pietra solo in superficie e coperti da un cumulo di terra o di pietra - sono emerse nella seconda metà del quinto millennio a.C. (la struttura più antica è databile fra il 4794 e il 4770 a.C.), diffondendosi nel giro di 200 o 300 anni dalla Francia nord occidentale alle isole del Canale, alla Catalogna, alla Francia sud occidentale fino alla Corsica e alla Sardegna. due principali, rispettivamente fra il 4000 e il 3500 a.C. e nel mezzo millennio successivo, caratterizzate da altrettante variazioni strutturali delle costruzioni megalitiche, che hanno portato alla massima diffusione di questa cultura. verificò infine fra il 2500 e il 1200 a.C. con la comparsa di megaliti alle Baleari, in Sicilia e in Puglia. Strutture di questo periodo si trovano anche in Sardegna, che però era stata interessata in misura molto significativa anche dalle espansioni precedenti. |
Post n°2270 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 13 settembre 2018 Somiglia a un hashtag il più antico disegno di Homo sapiens Scoperto nella Grotta di Blombos, in Sudafrica, risale a 73.000 anni fa: si tratta di uno schema grafico di linee ottenute con uno strumento di ocra su una superficie di pietra. Il ritrovamento dimostra che il disegno faceva parte del repertorio comportamentale delle popolazioni di Homo sapiens che abitavano in Africa in un'epoca molto antecedente a quella stimata sulla base di analoghi manufatti in altre parti del mondo. La grotta di Blombos, lungo la costa meridionale del Sudafrica, a est di Cape-Town, è un sito archeologico che ha restituito alcune delle più antiche prove di un'attività culturale degli esseri umani moderni. utensili in pietra incisi inequivocabilmente con intenzione decorativa e datati tra 70.000 e 100.000 anni fa, vale a dire a un periodo che precede di alcune decine di migliaia di anni i manufatti dello stesso tipo prodotti dagli esseri umani in qualsiasi altra parte del mondo. e descritto sulle pagine di "Nature" è destinato a essere ricordato come il pezzo più significativo: è infatti il primo disegno noto della preistoria, realizzato applicando un pigmento su una superficie, e graficamente ricorda molto il simbolo "#" dell'attuale hashtag usato sui social network. Il frammento di silcrete con il motivo grafico segnato con l'ocra scoperto nella grotta di Blombos Si tratta di un frammento roccioso di silcrete nero, una concrezione di sabbia e ghiaia, cementata da silice disciolta e poi indurita. Sulla superficie levigata di questo frammento c'è un motivo grafico in rosso, intenzionalmente tracciato secondo uno schema sei per tre di linee incrociate. La brusca interruzione delle linee sul bordo del frammento suggerisce che lo schema originariamente copriva una superficie più ampia e forse era nella sua interezza era anche più complesso. linee sono composte da una polvere ricca di ematite, comunemente chiamata ocra. Henshilwood e colleghi sono risaliti anche al probabile strumento usato per l'incisione: si tratta di un attrezzo ocra con una punta di circa 1-3 millimetri di larghezza. non è una sorpresa per i ricercatori. Il minerale, in gran parte costituito da ossido di ferro, è stato usato come pigmento da tempo immemorabile. Ed è fuori di dubbio che i primi abitanti moderni della Grotta di Blombos e altri siti vicini lo conoscessero: sono numerosi i reperti di ocra incisi scoperti nella zona e risalenti fino a 100.000 anni fa. le tecniche utilizzate dagli autori dello studio indicano che risale a circa 73.000 anni fa. siti archeologici ma, le precedenti documentazioni preistoriche di tecniche di disegno riguardano siti molto più recenti, come la grotta di Chauvet, in Francia, considerato il più antico esempio di arte preistorica del mondo, quella di El Castillo, in Spagna, quella di Apollo 11, in Namibia, e infine in quella di Maros, in Indonesia. dunque che il disegno faceva parte del repertorio comportamentale delle popolazioni di Homo sapiens che abitavano in Africa circa 73.000 anni fa. E dimostra anche la loro capacità di applicare disegni su differenti supporti usando tecniche diverse. |
Post n°2269 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 04 giugno 2019 I primi ominidi e la nascita dell'industria litica Il sito di Bokol Dora, in Etiopia, ha restituito pietre scheggiate che risalgono a più di 2,58 milioni di anni fa, epoca in cui sarebbe avvenuta una svolta importante nella produzione di strumenti in pietra. Ma l'uso di rudimentali strumenti litici è emerso con specie di primati ancora più antichi, in diverse occasioni e in diversi luoghiI nostri antenati usavano utensili in pietra in modo sistematico già prima di 2,58 milioni di anni fa. Ma l'uso di rudimentali strumenti litici è iniziato in un'epoca ancora più remota, in diverse occasioni e in diversi luoghi, in specie di primati più antiche. È quanto raccontano le pietre scheggiate scoperte a Bokol Dora, un sito archeologico in Etiopia, secondo l'analisi pubblicata sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" da un gruppo internazionale di ricerca guidati da Christopher Campisano, dell'Arizona State University. La scoperta aggiunge un nuovo importante tassello al complesso puzzle dell'origine del genere Homo in Africa e in particolare della nascita dell'industria litica. dover comporre un quadro coerente dei diversi ritrovamenti umani e litici, ognuno con la propria datazione. I paleoantropologi hanno posto un primo punto fermo nel 2013, quando hanno scoperto il più antico fossile attribuito al genere Homo: una mandibola risalente a 2,78 milioni di anni fa, rinvenuta nel sito di Ledi-Geraru, nella regione di Afar, non lontano da Bokol Dora. Uno degli strumenti litici scoperti a Bokol Dora (David Braun/George Wadshington University) Gli scavi effettuati nel 2011 nel sito di Lomekwi, in Kenya, avevano però riportato alla luce percussori risalenti a 3,3 milioni di anni fa, che rappresentano i più antichi strumenti in pietra mai scoperti. Questi strumenti sono quindi indizio di una più antica origine del genere Homo, oppure del fatto che la produzione di utensili non è esclusiva del genere umano, ma è anche attribuibile ad antenati più antichi di altri generi, come si può argomentare sulla base della constatazione che anche scimpanzé e altri primati fanno un uso rudimentale di attrezzi. relazione con le acquisizioni ormai storiche del complesso industriale olduvaiano, un insieme di utensili risalenti a circa 2,5 milioni di anni fa che prende il nome dalla gola di Olduvai, nel nord della Tanzania, dove sono stati scoperti. Sempre all'industria olduvaiana sono attribuiti gli strumenti scoperti nel giacimento archeologico di Gona, in Etiopia, datati a 2,58-2,55 milioni di anni fa. colleghi hanno effettuato la datazione dei reperti, basata in parte sull'analisi delle ceneri vulcaniche presenti nei sedimenti e in parte sulla "firma" magnetica dei sedimenti stessi, che conservano una registrazione dell'inversione della polarità del campo magnetico terrestre, avvenuta 2,58 milioni di anni fa. Gli autori hanno scoperto che i sedimenti del sito di Bokol Dora hanno una polarità "normale", tipica del periodo precedente l'inversione, differente dalla polarità dei reperti di altri siti vicini, tipica del periodo successivo all'inversione. Le caratteristiche delle schegge, inoltre, sono molto lontane da quelle di Lomekwi e di quelle dei primati non umani. utensili di Bokol Dora siano in continuità con l'industria olduvaiana, mentre mancano indizi che possano indicare una connessione con quelle precedenti dell'industria lomekwiana. L'ipotesi è che l'uso di utensili sia un tratto generalizzato di molti primati, compresi gli antenati degli esseri umani, ed è emerso diverse volte nel nostro lontano passato. Tuttavia, gli strumenti dell'industria olduvaiana segnano una svolta epocale, avvenuta probabilmente in risposta a una trasformazione dell'ambiente di grandi proporzioni. mondo usano abitualmente utensili di pietra per cercare nuove risorse, sembra altamente probabile che in tutta l'Africa differenti antenati abbiano trovato nuovi modi di usare strument i litici per estrarre risorse dal proprio ambiente", ha sottolineato David Braun, archeologo della George Washington University e autore principale dell'articolo. "Se la nostra ipotesi è corretta, ci aspetteremmo di trovare un qualche tipo di continuità in forma di artefatto dopo 2,6 milioni di anni fa, ma non prima di questo periodo di tempo: per una conferma, abbiamo bisogno di trovare altri siti e altri utensili". |
Post n°2268 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte:Le Scienze Il Pianeta Selvaggio (1973), premio speciale al XXVI Festival di Cannes, è considerato il primo film che rovescia il paradigma per cui la specie umana sarebbe la più evoluta e importante tra tutte le specie dell'Universo. In questo nostro universo sconfinato, non è strano che la vita sia apparsa solo sulla Terra? Come mai nessuno risponde ai messaggi lanciati nello Spazio? Per il METI, controparte attiva del SETI (che si occupa solo di osservazione), è possibile, e forse addirittura probabile, che ET ci stia osservando di nascosto. Il Messaging ExtraTerrestrial Intelligence (METI) si è riunito a Parigi per discutere di questa misteriosa mancanza di alieni: perché i miliardi di mondi intorno a noi sono tutti silenziosi? Bisogna dire che anche nel mondo accademico le ipotesi sono tante e variegate: c'è chi ritiene che abbiamo aspettative esagerate e che gli alieni, semplicemente, non esistano; c'è chi pensa che si siano ibernatiin attesa che il Cosmo si raffreddi un po', e anche chi si spinge a ipotizzare che si siano già estinti. Al convegno del METI ha avuto un inatteso successo la cosiddetta ipotesi dello zoo. THE BIG ALIEN BROTHER IS WATCHING YOU. Secondo questa ipotesi, elaborata per la prima volta nel 1973 da John Ball dell'MIT, gli alieni sono vivi e vegeti, e sono ben attenti a non farsi notare mentre ci osservano. La Terra sarebbe quindi la nostra gabbia, in una sorta di zoo cosmico, e a farci da custode/carceriere ci sarebbe una civiltà alienaspaventosamente più avanzata della nostra. Tuttavia, se ET si comporta da antipatico è perché cerca di salvaguardarci: secondo alcuni esponenti del METI, la Terra è in quarantena perché non siamo pronti per la verità. In definitiva, gli alieni si nasconderebbero per lo stesso motivo per cui, nei film di fantascienza (o nelle teorie complottiste), i governi li nascondono a noi:scoprire un'intelligenza aliena sarebbe distruttivo per la nostra cultura.
TRADIZIONI INTERSTELLARI. Il ragionamento può sembrare paranoico, e anche un po' presuntuoso: in fondo, come possiamo pensare di interpretare il volere di un'intelligenza tanto superiore alla nostra? (Se vi sembra di averla già sentita, questa cosa, avete ragione.) Comunque, in effetti forse c'è una chiave di lettura. Per gli astrobiologi dell'Università di Cambridge, la vita, ovunque nell'Universo, si può evolvere solo seguendo le leggi dell'evoluzione, che in estrema sintesi possiamo riassumere in "ciò che è adatto, sopravvive". Ne consegue che ogni organismo adatto che riuscirà a riprodursi, cercherà di instradare la sua discendenza lungo lo stesso cammino, sia biologico sia culturale. Il nostro fratello maggiore alieno potrebbe insomma volerci instradare nel suo stesso cammino culturale, ambientato in un universo inizialmente disabitato. Peraltro, questo significherebbe che il nostro corrente guardiano alieno sia la prima intelligenza ad essersi sviluppata nella Galassia, o nell'intero Universo, oppure che abbia ricevuto questo stesso trattamento del silenzio da chi è venuto prima di lui e che ora stia portando avanti il testimone con noi. Se io sostenessi che tra la Terra e Marte c'è una teiera di porcellana in rivoluzione attorno al Sole su un'orbita ellittica, nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi purché io avessi la cura di aggiungere che la teiera è troppo piccola per essere rivelata persino dal più potente dei nostri telescopi... (Bertrand Russell) UN TÈ CON RUSSELL. Il perché gli alieni siano tanto bendisposti nei nostri confronti e vogliano proteggerci, rimane insondabile. Inoltre, l'intera ipotesi dello zoo, per sua stessa natura, non può essere verificata: non c'è modo di provare che gli alieni si stiano nascondendo o stiano controllano la nostra posta spaziale. Ma, non sorprendentemente, allo stesso modo non è possibile provare che non sia così: ecco dunque pronta la teiera di Russell per il consueto tè delle 5 della storia dell'umanità. Il dibattito sugli alieni continua, raggiungendo le frontiere più paranoiche, esotiche e affascinanti del possibile. |
Post n°2267 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze Su un altopiano della Cina centro-settentrionale sono stati trovati manufatti litici risalenti a 2,1 milioni di anni fa e attributi al genere Homo. La scoperta fa così retrodatare la migrazione dei primi ominidi al di fuori del continente africano(red) antropologiapaleontologiaarcheologia Risalgono a circa 2,1 milioni di anni fa i manufatti litici trovati in un sito in prossimità della località di Shangchen, nella Cina centrale. La loro scoperta retrodata di circa 270.000 anni la più antica testimonianza della presenza di rappresentanti del genere Homo al di fuori dell'Africa. A identificarli e datarli è stato un gruppo di ricercatori dell'Accademia cinese delle scienze, di diverse università del paese e della britannica Università di Exeter, che firmano un articolo pubblicato su "Nature". fuori dell'Africa provenivano da Dmanisi, in Georgia, dove sono stati ritrovati strumenti e ossa di Homo erectus databili a 1,85 milioni di anni fa. Altri fossili risalenti a un periodo compreso tra 1,5 e 1,7 milioni di anni fa sono stati trovati in Cina e a Java, una delle isole che formano l'arcipelago indonesiano. In assoluto, il più antico reperto fossile attribuito a un ominide del genere Homo finora noto è un mascella rinvenuta nel 2013 nel sito di Ledi-Geraru, nella regione dell'Afar in Etiopia, che risale a circa 2,8 milioni di anni fa. lasso di tempo fa la separazione di Homo da Australopithecus e la sua comparsa al di fuori del continente africano - un milione di anni circa - ma ora questo intervallo inizia a ridursi: i primi ominidi migrarono dall'Africa almeno qualche decina di migliaia di anni prima di 2,1 milioni di anni fa. Uno dei 96 strumenti litici rinvenuti a Shangcheng. (Cortesia Prof. Zhaoyu Zhu)Accanto alle pietre scheggiate - tra cui nuclei, schegge, raschietti, punte e percussori - Zhaoya Zhu e colleghi hanno trovato anche resti animali, che fanno ipotizzare che alcuni di quegli strumenti possano essere stati usati per macellarli e disossarli, anche se per una dimostrazione conclusiva di questo uso saranno necessarie ulteriori analisi sui manufatti. del Loess, una vasta distesa di circa 270.000 chilometri quadrati, su cui nel corso degli ultimi 2,6 milioni di anni sono stati depositati tra i 100 e i 300 metri di polvere portata dal vento, nota come loess, a cui si alternano strati di altri tipi di suolo. I primi sono indicativi di un periodo dal clima fresco e asciutto, i secondi di un clima più caldo e umido. stati trovati prevalentemente in 11 diversi strati di suoli fossili formatisi nei periodi più caldi, che coprono un periodo compreso fra 1,2 e 2,12 milioni di anni fa. La maggior parte dei reperti sono stati ottenuti usando quarziti e altre rocce simili che probabilmente provenivano dai piedi delle montagne Qinling, a una decina di chilometri di distanza dal sito, dai corsi d'acqua che scendono da essi. coautore dello studio - implica che è necessario riconsiderare il momento in cui i primi esseri umani hanno lasciato per la prima volta l'Africa". |
Post n°2266 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze Gli schemi dei movimenti delle mandrie di bestiame alla ricerca di pascoli in un'ampia regione che va dal Mediterraneo orientale alla Cina sono correlati alle posizioni dei siti archeologici della Via della seta, l'antico reticolo di cammini che collegava l'impero romano e quello cinese. E' quanto risulta dall'analisi dei dati raccolti da satellite con modelli derivati dalla mappatura dei corsi d'acqua(red) La Via della seta anticamente collegava l'impero romano con l'impero cinese. Il suo nome è tradizionalmente declinato al singolare, ma in realtà si tratta di una complessa serie di cammini che formavano una struttura reticolare, attraverso la quale si muovevano beni, persone e idee. altre antiche vie di comunicazione ha permesso di ricostruirne a grandi linee il percorso, ma finora non si è riusciti a stabilire con certezza i dettagli di come abbiano avuto origine i contatti commerciali e quali forze spingessero i primi viaggiatori. Michael Frachetti della Washington University a St. Louis e colleghi della stessa Università e dell'University college di Londra hanno analizzato i movimenti dei mandriani nomadi nelle aree dedicate alla pastorizia dell'Asia scoprendo che esiste una significativa correlazione con i siti archeologici lungo la Via della seta. dell'Asia interna mostrano che per circa 4500 anni i mandriani hanno portato il bestiame verso pascoli in quota d'estate, riportandolo verso zone più calde e più basse d'inverno. più o meno gli stessi schemi di transumanza stagionale, seguendo non solo i percorsi più agevoli e diretti da un punto all'altro, ma andas- sero anche alla ricerca di pascoli freschi. Da qui l'idea di verificare se questi schemi di spostamento delle mandrie potesse avere a che fare con il reticolo di cammini della Via della seta. Modello grafico degli spostamenti di transumanza lungo la Via della seta ottenuto nel corso dello studio (Credit: M. Frachetti)Gli autori hanno utilizzato un software chiamato GIS (geographic information systems) che in genere serve a mappare e modellizzare i corsi d'acqua di una regione sulla base dei dati raccolti dai satellite. ottenere una dettagliata mappa della copertura vegetale in una vasta area compresa tra il Mediterraneo orientale e la Cina a quote comprese tra 750 e 4000 metri, sulla base di misurazioni del grado di riflettività della luce solare. I dati sono poi stati confrontati con le posizioni dei principali siti archeologici della Via della seta, seguendo l'ipotesi che la distribuzione dei pascoli più redditizi sia rimasta più o meno la stessa per secoli. delle mandrie sono fortemente correlati alle posizioni dei siti archeologici della Via della seta: ciò indica che la distribuzione spaziale delle praterie e la ricerca di pascoli per il nutrimento delle mandrie contribuì in modo significativo alla formazione della rete di cammini di questa importante e antichissima via di comunicazione tra est e ovest. nello studio di un'antica rete di vie commerciali, uno sviluppo raggiunto attraverso di strumenti di analisi spaziale che potranno contribuire a una sempre migliore comprensione delle antiche civiltà. |
Post n°2265 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 22 febbraio 2017 Un'epidemia di salmonella dietro il collasso degli Aztechi? Il sequenziamento di materiale genetico estratto da antiche sepolture messicane indica che il collasso della popolazione indigena verificatosi nell'arco di un secolo dall'arrivo deiConquistadores spagnoli può essere stato causato da una forma particolarmente virulenta di salmonellosi, probabilmente proveniente dall'Europadi Ewen Callaway/NATURE epidemiologiageneticaarcheologia Una delle peggiori epidemie della storia umana, la pestilenza del XVI secolo che devastò la popolazione indigena del Messico, potrebbe essere stata causata da una forma mortale di salmonella proveniente dall'Europa, secondo i risultati di due studi. il DNA del batterio dello stomaco da sepolture scoperte in Messico e relative a un'infezione che ha ucciso fino all'80 per cento degli abitanti del paese nell'epidemia del 1540. Il gruppo riporta le sue conclusioni in un preprint pubblicato su bioRxiv l'8 febbraio scorso. genetica del patogeno che causò il collasso delle popolazioni indigene dopo la colonizzazione europea, spiega Hannes Schroeder, paleogenetista del Natural History Museum of Denmark a Copenhagen, che non era coinvolto nel lavoro, secondo il quale si tratta di "uno studio molto interessante". spagnolo Hernando Cortés arrivarono in Messico, la popolazione indigena fosse di circa 25 milioni di persone. Un secolo più tardi, dopo la vittoria spagnola e una serie di epidemie, il numero si ridusse a circa un milione. che significa "pestilenza" in nahuatl, la lingua azteca). Due importanti cocoliztli, iniziati nel 1545 e nel 1576, uccisero dai 7 milioni ai 18 milioni di persone nelle regioni montuose del Messico. "Nelle città e nei grandi villaggi, si scavavano grandi fosse, e dal mattino al tramonto i preti non facevano altro che portare i cadaveri e gettarli nelle fosse", annotava uno storico francescano che fu testimone dell'epidemia del 1576. Guerrieri aztechi difendono la piramide di Tenochtitlán dai conquistadores di Cortez (Heritage / AGF)Finora non c'era consenso sulla possibile causa dei cocoliztli, anche se il morbillo, il vaiolo e il tifo sono stati tutti chiamati in causa. Nel 2002, ricercatori della National Autonomous University of Mexico (UNAM) a Città del Messico ipotizzarono che dietro la carneficina vi fosse una febbre emorragica virale, esacerbata Gli autori paragonarono le dimensioni dell'epidemia del 1545 a quelle della peste nera nel XIV secolo in Europa. genetista evoluzionista Johannes Krause del Max-Planck-Institut per la scienza della storia umana di Jena, in Germania, ha estratto e sequenziato il DNA dai denti di 29 persone sepolte sugli altipiani di Oaxaca, nel Messico meridionale. ricercatori ritengono essersi verificato tra il 1545 e il 1550. L'antico DNA batterico recuperato da diversi individui corrispondeva a quello di Salmonella, secondo i confronti con un database di oltre 2.700 genomi batterici moderni. DNA, ricavati dai resti, ha permesso al gruppo di ricostruire due genomi di un ceppo di Salmonella enterica noto come Paratyphi C. Oggi, questo batterio provoca febbre enterica, una malattia simile al tifo presente soprattutto nei paesi in via di sviluppo che, se non trattata, uccide il 10-15 per cento delle persone infettate. Microfotografia in falsi colori di del batterio Salmonella (in rosso) (CC0 Public Domain)"È perfettamente ragionevole che il batterio possa aver causato questa epidemia", aggiunge Schroeder. "L'ipotesi è ben argomentata". Ma Maria Avila-Arcos, genetista dell'evoluzione dell'UNAM, non è convinta. Osserva che alcuni ipotizzano che a causare il cocoliztli sia stato un virus, che non sarebbe stato individuato con il metodo utilizzato dal gruppo. pubblicato la scorsa settimana su bioRxiv, che solleva l'ipotesi che Salmonella Paratyphi C sia arrivato in Messico dal'Europa. di Warwick a Coventry, ha raccolto e sequenziato il genoma del ceppo batterico estratto dai resti di una giovane donna sepolta intorno al 1200 a Trondheim, in Norvegia. È la più antica documentazione dell'ormai raro ceppo di Salmonella, e la prova che esso circolava in Europa, secondo lo studio. (Entrambi i gruppi hanno rifiutato di commentare le loro ricerche perché i loro articoli sono stati sottoposti a una rivista peer-review.) Hendrik Poinar, biologo evoluzionista della McMaster University a Hamilton, in Canada. E se si potessero raccogliere diversi genomi antichi in Europa e nelle Americhe, dovrebbe essere possibile stabilire in modo più definitivo se gli agenti patogeni mortali come Salmonella arrivarono nel Nuovo Mondo dall'Europa. della sua comparsa in Messico non prova che gli europei trasmisero la febbre enterica ai nativi messicani, dice Schroeder, ma si tratta di un'ipotesi ragionevole. Guerrieri aztechi in una illustrazione del IX libro del Codice Fiorentino, l'ultima redazione della Historia universal de las cosas de Nueva España, di fra' Bernardino de Sahagún (CC0 Public Domain) Una piccola percentuale di persone infette da Salmonella Paratyphi C è portatrice sana del batterio: si può ipotizzare che spagnoli sani abbiano infettato i messicani privi di una resistenza naturale. Paratyphi C si trasmette attraverso la materia fecale, e un collasso dell'ordine sociale durante la conquista spagnola potrebbe aver portato alle cattive condizioni sanitarie favorevoli alla diffusione di Salmonella, spiegano nell'articolo Krause e il suo gruppo. responsabili delle epidemie dell'antichità, dice Schroeder. Il suo gruppo ha in programma di cercare gli antichi agenti patogeni nei siti di sepoltura dei Caraibi che sembrano legati alle catastrofiche epidemie che si sono diffuse dopo l'arrivo degli europei. "Che alcune di esse possano essere state causate da Salmonella è ormai una possibilità concreta", conclude. 16 febbraio 2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati. |
Post n°2264 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 24 novembre 2015 Una zanzara mutante per sconfiggere la malaria Applicando il nuovo metodo di editing genetico CRISPR-Cas9, un gruppo di ricercatori è riuscito a inserire un gene per gli anticorpi di resistenza alla malaria nel DNA della zanzara A. stephensi, il principale vettore dell'infezione in Asia. La mutazione si mantiene nella progenie nel 99,5 per cento dei casi, e potrebbe diffondersi in un'intera popolazione. Si tratta di un primo passo verso un'arma veramente efficace contro la malaria, ma va verificato con sperimentazioni sul campo(red) Una zanzara transgenica, sviluppata da ricercatori dell'Università della California a Irvine e a San Diego applicando la tecnica di editing genomico CRISPR- Cas9, potrebbe essere l'arma più potente mai realizzata f inora per arrestare la diffusione della malaria: secondo quanto riferito sui "Proceedings of the National Academy of Sciences", permetterebbe infatti di introdurre rapidamente in una popolazione di zanzare dei geni che bloccano la malattia. Molina-Cruz dei National Institutes of Health degli Stati Uniti, e colleghi, riferisce la scoperta del gene che consente a P. falciparum, il plasmodio responsabile della malaria malattia, di adattarsi alle diverse specie di zanzare presenti nel mondo. nell'organismo delle zanzare e la trasmissione della malattia all'uomo avviene attraverso la puntura di insetti infetti, che immettono il patogeno nel flusso sanguigno. Le due principali linee di ricerca per impedire il trasferimento si concentrano quindi sull'ospite umano oppure sulla zanzara. Anopheles stephensi (Credit: Jim Gathany/Wikimedia Commons) Il gruppo di Irvine diretto da Anthony A. James focalizza da anni le sue ricerche sull'ingegnerizzazione di zanzare per combattere le malattie. Nel caso della febbre dengue, i ricercatori sono riusciti a isolare un anticorpo nell'organismo dei topi e a inserirlo nell'organismo delle zanzare che veicolano l'infezione. Il problema è che la mutazione poteva essere ereditata solo da metà della progenie. di San Diego, hanno annunciato di aver sviluppato un nuovo metodo per generare mutazioni in entrambe le copie di un gene, permettendo la trasmissione delle mutazioni con una probabilità del 95 per cento. per adattare il metodo di Bier e Gantz alle zanzare della specie Anopheles stephensi, il principale vettore della malaria in Asia. Il punto di partenza è stata la rivoluzionaria tecnica di editing genetico chiamata CRISPR-Cas9 (clustered regularly interspaced short palindromic repeats/caspase 9) che sfrutta il macchinario enzimatico di organismi molto semplici come batteri e Archea.. associata a una serie di geni che codificano per anticorpi efficaci contro la malaria, costituisce un "kit genetico" che, una volta iniettato in un embrione di zanzara, punta su un sito altamente specifico del DNA inserendovi i geni antimalaria. Per verificare la percentuale di casi di corretta trasmissione della mutazione alla progenie, i ricercatori hanno aggiunto al kit il gene che codifica per una proteina che conferisce agli occhi della zanzara una fluorescenza rossa. aveva ereditato il tratto, confermando la trasmissione della mutazione. A questo punto manca solo la conferma dell'efficacia degli anticorpi, che dovrà essere ottenuta con una sperimentazione sul campo. che il gene funziona", ha spiegato James. "Le zanzare che abbiamo creato non sono il risultato finale, ma sappiamo che questa tecnologia permette di creare in modo efficiente grandi popolazioni". trasmettere la malaria poiché il plasmodio può adattarsi a specie differenti. Questa capacità si deve a un gene, scoperto ora da Alvaro Molina -Cruz dei National Institutes of Health degli Stati Uniti a Rockville, nel Maryland, e colleghi, che firmano il secondo articolo pubblicato da PNAS. dimostrato che la proteina Pfs47 consente al parassita di diventare invisibile al sistema immunitario della zanzara. Ora Molina-Cruz e colleghi hanno scoperto che le varie popolazioni di P. falciparum in Africa, Asia e America hanno una limitata compatibilità con le zanzare di altri continenti: ciò dipende dalle diverse varianti - 42 in tutto - del gene Pfs47, che permettono d'interagire in modo specifico con le varie versioni dei recettori presenti nella zanzara. "chiave e serratura" per spiegare il fenomeno di globalizzazione della malattia: le diverse varianti della proteina codificata dal gene Pfs47 (le "chiavi") sono specifiche per i recettori ("le serrature") delle diverse specie di zanzare diffuse nel mondo. |
Post n°2263 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze
Molte specie di pesci che vivono nelle profondità dei mari, un ambiente quasi completamente oscuro, hanno una visione a colori grazie a una grande varietà di molecole assai sensibili alla luce nelle loro retine. Queste molecole sono calibrate per reagire alle lunghezze d'onda emesse dagli organi bioluminescenti delle altre creature abissali Molti pesci di profondità sono dotati di un sistema visivo che permette la visione di molti colori anche nell'oscurità quasi totale dell'ambiente in cui vivono. Questo grazie a un'eccezionale moltiplicazione per versioni leggermente differenti dei geni che controllano la produzione delle opsine, i pigmenti fotosensibili dei fotorecettori retinici, i neuroni della retina in grado di reagire alla luce. A scoprirlo è stato un gruppo di ricercatori diretti da Walter Salzburger dell'Università di Basilea, in Svizzera, che firmano un articolo su "Science". Esemplare di pesce abissale del genere Chauliodus. Nei vertebrati la visione a colori è possibile grazie alla presenza nei coni della retina di vari pigmenti fotosensibili, detti opsine, ciascuno dei quali reagisce a differenti lunghezze d'onda della luce (negli esseri umani, ce ne sono tre, sensibili alla gamma del rosso, del verde e del blu), ma solo quando il flusso luminoso è intenso. Quando la luce è fioca, entrano in funzione i bastoncelli, che si attivano anche con pochi fotoni, ma che hanno un solo tipo di opsina, la rodopsina; è per questo che quasi tutti i vertebrati hanno una visione notturna monocromatica. Analizzando il genoma di 101 specie ittiche, Salzburger e colleghi hanno ora scoperto che in 13 pesci abissali che vivono fino a 1500 metri di profondità, c'è una forte moltiplicazione dei geni per la produzione di opsine. Confrontando le piccole variazioni presenti in quei geni, hanno scoperto che gran parte di esse interessano punti che - come si sa da precedenti studi sui vertebrati - influiscono direttamente sulla lunghezza d'onda rilevata dall'opsina. di ben 24 di queste mutazioni, che permettono la produzione di 38 opsine differenti nei bastoncelli - il numero più alto finora conosciuto nei vertebrati - e di due ulteriori opsine nei coni, che permettono una sensibilità anche a livelli molto bassi di luce. I ricercatori hanno anche scoperto che la sensibilità di queste opsine copre esattamente le gamme di lunghezza d'onda delle bioluminescenze prodotte dagli organi emettitori di organismi abissali. Questi pesci sono quindi in grado di distinguere le varie tonalità cromatiche prodotte da altre specie di pesci che popolano le profondità dei mari. sviluppato questa visione basata su una molteplicità di rodopsine più volte, in modo indipendente l'una dall'altra", spiega Salzburger. Questa capacità si è probabilmente evoluta come strumento essenziale di sopravvivenza ha concluso Fabio Cortesi, dell'Università del Queensland, in Australia e coautore dello studio: "Se vuoi sopravvivere laggiù, devi decidere rapidamente se stai vedendo un potenziale predatore o una potenziale preda". |
AREA PERSONALE
MENU
CHI PUņ SCRIVERE SUL BLOG
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.