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Messaggi del 29/06/2019

I misteri di Mitra

Post n°2272 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Le disuguaglianze nella distribuzione

della ricchezza fra i membri di una

società hanno iniziato a diventare

rilevanti durante il Neolitico, con l'avvento

dell'agricoltura e dell'allevamento.

A parità di sviluppo economico, le antiche

culture del Nord e Centro America erano

però più ugualitarie di quelle del Vecchio

Mondo.

archeologiaecomomia 

Nella storia dell'umanità, le disuguaglianze

nella distribuzione della ricchezza hanno

iniziato ad accentuarsi durante il Neolitico

e sono generalmente aumentate con la

domesticazione di piante e animali e con

la complessità delle strutture sociali.

Queste disuguaglianze, inoltre, sono state

decisamente più marcate nelle società

euroasiatiche che in quelle dell'America

settentrionale e centrale.

A stabilirlo è lo studio di un gruppo di

ricercatori diretto da Timothy A. Kohler

della Washington State University a

Pullman, negli Stati Uniti, che ne

riferiscono su "Nature".

Le disparità economiche risalgono al Neolitico

Uno dei più antichi insediamenti agricoli

nella cosiddetta mezzaluna fertile,

nell'attuale Siria, risalente all'8000 a.C. 

Gli archeologi si interrogano da tempo

sulle differenze di accesso alle risorse

nelle società più antiche, ma si sono

scontrati con la difficoltà di individuare

variabili che riflettessero la condizione

economica delle famiglie e  al tempo stesso

permettessero un confronto fra culture ed

epoche diverse.

(Le offerte collocate nelle tombe, per esempio,

non sono un buon parametro, dato che le tumula-

zioni che  possiamo ritrovare oggi erano

riservate in genere a persone di stato sociale

elevato e non sono rappresentative di tutta

la popolazione.)

Kohler e colleghi hanno ora mostrato che un

parametro relativamente semplice e universale

della capacità economica di una famiglia sono

le dimensioni delle case all'interno di una

comunità.

Nelle società in cui gran parte delle persone

hanno una posizione economica simile,

le abitazioni tendono ad avere le stesse

dimensioni.

Ma per i gruppi in cui alcuni hanno una

ricchezza maggiore di altri, si osserva di

solito la coesistenza di case piccole e

grandi.

Le disparità economiche risalgono al Neolitico

Una famiglia delle cultura BaYaka, dell'Africa

centrale, ancora oggi prevalentemente

dedita alla caccia e raccolta. (Cortesia Gul

Deniz Salali)Sulla base dei dati raccolti i

ricercatori hanno rilevato una maggiore

disparità economica nei siti agricoli rispetto

a quelli occupati da cacciatori-raccoglitori o

da popolazioni con un'economia "mista" (

costituite da piccoli gruppi che integravano

piccole colture con le risorse ottenute con la

caccia o la pesca), e questa disparità era

tanto maggiore quanto più era importante

la domesticazione di grandi mammiferi e

l'estensione delle coltivazioni agricole. 

A questo si sovrappone poi il livello di

strutturazione e complessità della società,

con la creazione di élite politiche.

I risultati hanno mostrato che i siti eurasiatici

avevano raggiunto livelli di disuguaglianza

significativamente più elevati rispetto a quelli

nordamericani, anche quando le rispettive

economie agricole erano durate per periodi

di tempo equivalenti.

Per realizzare i confronti i ricercatori hanno

adattato un classico strumento socioeconomico,

il cosiddetto indice di Gini, sviluppato più di un

secolo fa dallo statistico e sociologo italiano

Corrado Gini.

In teoria, un paese in cui vi è una distribuzione

della ricchezza perfettamente equa avrebbe

un indice di Gini pari a 0, mentre un paese in

cui tutta la ricchezza è concentrata in una sola

famiglia avrebbe un indice pari a 1.

Le disparità economiche risalgono al NeoliticoT

Terracotte pueblo rinvenute a Pueblo Bonito,

nel New Mexico, risalenti a 1000 anni fa circa.

I ricercatori hanno scoperto che l'indice di Gini

delle società di cacciatori-raccoglitori è tipicamente

0,17, il che segnala una bassa disparità nella

distribuzione delle risorse, coerente con

l'elevata mobilità che rende difficile l'accumulazione

della ricchezza.

Nel caso delle antiche economie miste, l'indice s

ale a 0,27 e cresce ulteriormente - in media a 0,35

- nelle società in cui l'agricoltura predominava

nettamente. Questa media nasconde però forte

differenze: se nel Nuovo Mondo l'indice difficilmente

superava lo 0,3, nel Vecchio Mondo si raggiunge

anche un indice pari a 0,59.

Per dare un'idea più concreta del significato di

questi valori, l'articolo riporta anche alcuni

esempi dell'indice di Gini di paesi contemporanei:

l'indice di Gini attribuito alla Grecia di oggi è

0,56 e quello della Spagna 0,58 (l'Italia è a 0,59):

valori decisamente elevati, ma ancora ben

inferiori a quelli attribuibili alla Cina (0,73) e

agli Stati Uniti (0,80).

 
 
 

Le origini della cultura megalitica in Europa

Post n°2271 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

12 febbraio 2019

Le origini della cultura megalitica in Europa

Le origini della cultura megalitica in Europa

L'analisi comparata delle datazioni di

oltre 2000 dei 35.000 megaliti diffusi 

in tutta Europa e delle loro caratteristiche

costruttive indica che la tradizione megalitica

ha avuto origine nella Francia nord occidentale

per poi diffondersi lungo rotte marittime.

La scoperta smentisce sia l'ipotesi che la

cultura megalitica provenisse dal Vicino

Oriente, sia quella di una sua nascita

indipendente nelle diverse regioni

archeologiaLa cultura dei megaliti europea

sarebbe nata verso la metà del V millennio

a.C. nella Francia nord occidentale per poi

diffondersi sulle coste atlantiche del continente

e del Mediterraneo lungo rotte marittime.

Il risultato - ottenuto dalla ricercatrice all'Università

di Göteborg, in Svezia, Bettina Schulz Paulssonin,

e illustrato sui "Proceedings of the National

Academy of Sciences" - smentisce entrambe le

principali teorie finora in campo sulla storia

dell'edificazione di queste strutture.


Le origini della cultura megalitica in Europa

Il Dolmen di Sa Coveccada in Sardegna.

Fra menhir, dolmen, cerchi di pietre, allineamenti

e altri edifici o templi megalitici, in tutta Europa

sono note circa 35.000 strutture di questo tipo,

la maggior parte delle quali risale al Neolitico e

all'età del Rame e si concentra nelle zone costiere.

Queste strutture megalitiche condividono

tutte caratteristiche architettoniche simili

se non spesso addirittura identiche; per

esempio, l'orientamento delle tombe è

costantemente orientato verso est o sud-

est, nella direzione da cui sorge il sole.

Ciò ha indotto gli archeologi, fin dalla

metà del XIX secolo, a ritenere che la

loro costruzione fosse legata a una

religione che si sarebbe diffusa dal Vicino

Oriente prima nel Mediterraneo e quindi

sulle coste atlantiche della Spagna, della

Francia e della Gran Bretagna, a seguito

della migrazione di membri della casta

sacerdotale.

Questa ricostruzione resistette incontrastata

fino ai primi anni settanta del secolo scorso,

quando le prime datazioni al radiocarbonio

la misero fortemente in dubbio, portando

la maggior parte degli studiosi verso l'ipotesi

di una nascita indipendente nelle diverse

regioni e imputando le somiglianze alla

relativa "semplicità" delle strutture

architettoniche.

Da allora le datazioni al radiocarbonio dei

megaliti si sono moltiplicate a dismisura, 

ma senza che si tentasse di tracciare un

quadro cronologico complessivo su cui

testare l'ipotesi della nascita indipendente.

Le origini della cultura megalitica in Europa

Tomba megalitica a Haväng, in Svezia.

Ora Bettina Schulz Paulssonin ha analizzato

2410 datazioni al radiocarbonico relative a siti

megalitici e pre-megalitici e a siti non megalitici

coevi di tutta Europa.

L'analisi ha mostrato che le prime strutture -

piccole costruzioni chiuse o dolmen realizzati

con lastre di pietra solo in superficie e coperti

da un cumulo di terra o di pietra - sono emerse

nella seconda metà del quinto millennio a.C.

(la struttura più antica è databile fra il 4794 e

il 4770 a.C.), diffondendosi nel giro di 200 o

300 anni dalla Francia nord occidentale alle

isole del Canale, alla Catalogna, alla Francia

sud occidentale fino alla Corsica e alla Sardegna.

A questa prima ondata sono poi seguite altre

due principali, rispettivamente fra il 4000 e il

3500 a.C. e nel mezzo millennio successivo,

caratterizzate da altrettante variazioni strutturali

delle costruzioni megalitiche, che hanno portato

alla massima diffusione di questa cultura.

L'ultimo episodio di espansione, minore, si

verificò infine fra il 2500 e il 1200 a.C. con la

comparsa di megaliti alle Baleari, in Sicilia e in

Puglia.

Strutture di questo periodo si trovano anche

in Sardegna, che però era stata interessata

in misura molto significativa anche dalle espansioni

precedenti.

 
 
 

Un antico Hashtag.

Post n°2270 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

13 settembre 2018

Somiglia a un hashtag il più antico disegno di Homo sapiens

Somiglia a un hashtag il più antico disegno di Homo sapiens

Scoperto nella Grotta di Blombos, in Sudafrica, risale a

73.000 anni fa: si tratta di uno schema grafico di linee

ottenute con uno strumento di ocra su una superficie di pietra.

Il ritrovamento dimostra che il disegno faceva parte del

repertorio comportamentale delle popolazioni di Homo

sapiens che abitavano in Africa in un'epoca molto antecedente

a quella stimata sulla base di analoghi manufatti in altre parti

del mondo.

arteantropologiaarcheologia

La grotta di Blombos, lungo la costa meridionale del Sudafrica,

a est di Cape-Town, è un sito archeologico che ha restituito

alcune delle più antiche prove di un'attività culturale degli

esseri umani moderni.

Lì sono infatti stati scoperti collane di conchiglie, ossa e

utensili in pietra incisi inequivocabilmente con intenzione

decorativa e datati tra 70.000 e 100.000 anni fa, vale a dire

a un periodo che precede di alcune decine di migliaia di anni

i manufatti dello stesso tipo prodotti dagli esseri umani in

qualsiasi altra parte del mondo.

Ma quello scoperto da Christopher Henshilwood e colleghi

descritto sulle pagine di "Nature" è destinato a essere ricordato

come il pezzo più significativo: è infatti il primo disegno

noto della preistoria, realizzato applicando un pigmento

su una superficie, e graficamente ricorda molto il simbolo

"#" dell'attuale hashtag usato sui social network.

Somiglia a un hashtag il più antico disegno di Homo sapiens

Il frammento di silcrete con il motivo grafico segnato

con l'ocra scoperto nella grotta di Blombos

Si tratta di un frammento roccioso di silcrete nero, una

concrezione di sabbia e ghiaia, cementata da silice disciolta

e poi indurita. Sulla superficie levigata di questo frammento

c'è un motivo grafico in rosso, intenzionalmente tracciato

secondo uno schema sei per tre di linee incrociate.

La brusca interruzione delle linee sul bordo del frammento

suggerisce che lo schema originariamente copriva una

superficie più ampia e forse era nella sua interezza era

anche più complesso. 

Le analisi chimiche e microscopiche confermano che le

linee sono composte da una polvere ricca di ematite,

comunemente chiamata ocra.

Grazie a una serie di simulazioni condotte in laboratorio,

Henshilwood e colleghi sono risaliti anche al probabile

strumento usato per l'incisione: si tratta di un attrezzo

ocra con una punta di circa 1-3 millimetri di larghezza.

Che l'antico artista abbia scelto di usare con ocra rossa

non è una sorpresa per i ricercatori.

Il minerale, in gran parte costituito da ossido di ferro, è

stato usato come pigmento da tempo immemorabile.

Ed è fuori di dubbio che i primi abitanti moderni della

Grotta di Blombos e altri siti vicini lo conoscessero:

sono numerosi i reperti di ocra incisi scoperti nella

zona e risalenti fino a 100.000 anni fa.

Fondamentale infine la datazione del disegno di Blombos:

le tecniche utilizzate dagli autori dello studio indicano

che risale a circa 73.000 anni fa.

Disegni figurativi e astratti sono stati scoperti in numerosi

siti archeologici ma, le precedenti documentazioni

preistoriche di tecniche di disegno riguardano siti molto

più recenti, come la grotta di Chauvet, in Francia,

considerato il più antico esempio di arte preistorica del

mondo, quella di El Castillo, in Spagna, quella di Apollo

11, in Namibia, e infine in quella di Maros, in Indonesia.

Il nuovo reperto della grotta di Blombos dimostra

dunque che il disegno faceva parte del repertorio

comportamentale delle popolazioni di Homo sapiens 

che abitavano in Africa circa 73.000 anni fa.

E dimostra anche la loro capacità di applicare disegni

su differenti supporti usando tecniche diverse. 

 
 
 

I primi ominidi e la nascita dell'industria litica

Post n°2269 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

04 giugno 2019

I primi ominidi e la nascita dell'industria litica

 Il sito di Bokol Dora, in Etiopia, ha restituito

pietre scheggiate che risalgono a più di 2,58

milioni di anni fa, epoca in cui sarebbe avvenuta

una svolta importante nella produzione di

strumenti in pietra.

Ma l'uso di rudimentali strumenti litici è emerso

con specie di primati ancora più antichi, in diverse

occasioni e in diversi luoghiI nostri antenati

usavano utensili in pietra in modo sistematico

già prima di 2,58 milioni di anni fa.

Ma l'uso di rudimentali strumenti litici è iniziato

in un'epoca ancora più remota, in diverse

occasioni e in diversi luoghi, in specie di primati

più antiche.

È quanto raccontano le pietre scheggiate

scoperte a Bokol Dora, un sito archeologico

in Etiopia, secondo l'analisi pubblicata sui

"Proceedings of the National Academy of Sciences"

 da un gruppo internazionale di ricerca guidati

da Christopher Campisano, dell'Arizona State

University.

La scoperta aggiunge un nuovo importante

tassello al complesso puzzle dell'origine del

genere Homo in Africa e in particolare della

nascita dell'industria litica.

Il problema per gli scienziati del settore è

dover comporre un quadro coerente dei

diversi ritrovamenti umani e litici, ognuno con

la propria datazione.

I paleoantropologi hanno posto un primo

punto fermo nel 2013, quando hanno scoperto

il più antico fossile attribuito al genere Homo:

una mandibola risalente a 2,78 milioni di anni

fa, rinvenuta nel sito di Ledi-Geraru, nella

regione di Afar, non lontano da Bokol Dora.

Uno degli strumenti litici scoperti a Bokol Dora

(David Braun/George Wadshington University)

Gli scavi effettuati nel 2011 nel sito di Lomekwi,

in Kenya, avevano però riportato alla luce

percussori risalenti a 3,3 milioni di anni fa, che

rappresentano i più antichi strumenti in pietra

mai scoperti.

Questi strumenti sono quindi indizio di una più

antica origine del genere Homo, oppure del fatto

che la produzione di utensili non è esclusiva del

genere umano, ma è anche attribuibile ad

antenati più antichi di altri generi, come si

può argomentare sulla base della constatazione

che anche scimpanzé e altri primati fanno un

uso rudimentale di attrezzi.

Queste scoperte recenti sono poi da mettere in

relazione con le acquisizioni ormai storiche del

complesso industriale olduvaiano, un insieme di

utensili risalenti a circa 2,5 milioni di anni fa che

prende il nome dalla gola di Olduvai, nel nord

della Tanzania, dove sono stati scoperti.

Sempre all'industria olduvaiana sono attribuiti

gli strumenti scoperti nel giacimento archeologico

di Gona, in Etiopia, datati a 2,58-2,55 milioni

di anni fa.

Ora arrivano i dati di Bokol Dora. Campisano e

colleghi hanno effettuato la datazione dei reperti,

basata in parte sull'analisi delle ceneri vulcaniche

presenti nei sedimenti e in parte sulla "firma"

magnetica dei sedimenti stessi, che conservano

una registrazione dell'inversione della polarità

del campo magnetico terrestre, avvenuta 2,58

milioni di anni fa. Gli autori hanno scoperto che

i sedimenti del sito di Bokol Dora hanno una

polarità "normale", tipica del periodo precedente

l'inversione, differente dalla polarità dei reperti

di altri siti vicini, tipica del periodo successivo

all'inversione. Le caratteristiche delle schegge,

inoltre, sono molto lontane da quelle di Lomekwi

e di quelle dei primati non umani.

La conclusione degli autori è dunque che gli

utensili di  Bokol Dora siano in continuità con

l'industria olduvaiana, mentre mancano indizi

che possano indicare una connessione con

quelle precedenti dell'industria lomekwiana.

L'ipotesi è che l'uso di utensili sia un tratto

generalizzato di molti primati, compresi gli

antenati degli esseri umani, ed è emerso

diverse volte nel nostro lontano passato.

Tuttavia, gli strumenti dell'industria olduvaiana

segnano una svolta epocale, avvenuta

probabilmente in risposta a una trasformazione

dell'ambiente di grandi proporzioni.

"Dato che le specie di primati di tutto il

mondo usano abitualmente utensili di pietra

per cercare nuove risorse, sembra altamente

probabile che in tutta l'Africa differenti antenati

abbiano trovato nuovi modi di usare strument

i litici per estrarre risorse dal proprio ambiente",

ha sottolineato David Braun, archeologo della

George Washington University e autore principale

dell'articolo.

"Se la nostra ipotesi è corretta, ci aspetteremmo

di trovare un qualche tipo di continuità in forma

di artefatto dopo 2,6 milioni di anni fa, ma non

prima di questo periodo di tempo: per una conferma,

abbiamo bisogno di trovare altri siti e altri utensili". 

 
 
 

Un acquario di nome Terra

Post n°2268 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte:Le Scienze

Il Pianeta Selvaggio (1973), premio speciale al XXVI

Festival di Cannes, è considerato il primo film che rovescia

il paradigma per cui la specie umana sarebbe la più evoluta

e importante tra tutte le specie dell'Universo.

In questo nostro universo sconfinato, non è strano che la

vita sia apparsa solo sulla Terra? Come mai nessuno risponde

ai messaggi lanciati nello Spazio? Per il METI, controparte

attiva del SETI (che si occupa solo di osservazione),

è possibile, e forse addirittura probabile, che ET ci stia

osservando di nascosto. Il Messaging ExtraTerrestrial

Intelligence (METI) si è riunito a Parigi per discutere di

questa misteriosa mancanza di alieni: perché i miliardi

di mondi intorno a noi sono tutti silenziosi?

Bisogna dire che anche nel mondo accademico le ipotesi

sono tante e variegate: c'è chi ritiene che abbiamo aspettative

esagerate e che gli alieni, semplicemente, non esistano; c'è chi

pensa che si siano ibernatiin attesa che il Cosmo si raffreddi

un po', e anche chi si spinge a ipotizzare che si siano già estinti.

Al convegno del METI ha avuto un inatteso successo la

cosiddetta ipotesi dello zoo.

THE BIG ALIEN BROTHER IS WATCHING YOU. 

Secondo questa ipotesi, elaborata per la prima volta nel 1973

da John Ball dell'MIT, gli alieni sono vivi e vegeti, e sono ben

attenti a non farsi notare mentre ci osservano.

La Terra sarebbe quindi la nostra gabbia, in una sorta di zoo

cosmico, e a farci da custode/carceriere ci sarebbe una civiltà

alienaspaventosamente più avanzata della nostra.

Tuttavia, se ET si comporta da antipatico è perché cerca di

salvaguardarci: secondo alcuni esponenti del METI, la Terra è

in quarantena perché non siamo pronti per la verità. In definitiva,

gli alieni si nasconderebbero per lo stesso motivo per cui, nei film

di fantascienza (o nelle teorie complottiste), i governi li nascondono

a noi:scoprire un'intelligenza aliena sarebbe distruttivo per la

nostra cultura.

 

TRADIZIONI INTERSTELLARI.

 Il ragionamento può sembrare paranoico, e anche

un po' presuntuoso: in fondo, come possiamo

pensare di interpretare il volere di un'intelligenza

tanto superiore alla nostra? (Se vi sembra di averla

già sentita, questa cosa, avete ragione.)

Comunque, in effetti forse c'è una chiave di lettura.

Per gli astrobiologi dell'Università di Cambridge, la

vita, ovunque nell'Universo, si può evolvere solo

seguendo le leggi dell'evoluzione, che in estrema

sintesi possiamo riassumere in "ciò che è adatto,

sopravvive". Ne consegue che ogni organismo 

adatto che riuscirà a riprodursi, cercherà di instradare

la sua discendenza lungo lo stesso cammino, sia

biologico sia culturale.

Il nostro fratello maggiore alieno potrebbe insomma

volerci instradare nel suo stesso cammino culturale,

ambientato in un universo inizialmente disabitato.

Peraltro, questo significherebbe che il nostro

corrente guardiano alieno sia la prima intelligenza

ad essersi sviluppata nella Galassia, o nell'intero

Universo, oppure che abbia ricevuto questo

stesso trattamento del silenzio da chi è venuto

prima di lui e che ora stia portando avanti il

testimone con noi.

Se io sostenessi che tra la Terra e Marte c'è una

teiera di porcellana in rivoluzione attorno al Sole

su un'orbita ellittica, nessuno potrebbe contraddire

la mia ipotesi purché io avessi la cura di aggiungere

che la teiera è troppo piccola per essere rivelata

persino dal più potente dei nostri telescopi... 

(Bertrand Russell)

UN TÈ CON RUSSELL.

 Il perché gli alieni siano tanto bendisposti nei

nostri confronti e vogliano proteggerci, rimane

insondabile.

Inoltre, l'intera ipotesi dello zoo, per sua stessa

natura, non può essere verificata: non c'è modo

di provare che gli alieni si stiano nascondendo o

stiano controllano la nostra posta spaziale.

Ma, non sorprendentemente, allo stesso modo

non è possibile provare che non sia così: ecco

dunque pronta la teiera di Russell per il consueto

tè delle 5 della storia dell'umanità.

Il dibattito sugli alieni continua, raggiungendo

le frontiere più paranoiche, esotiche e affascinanti

del possibile.

 
 
 

In Cina i pił antichi manufatti creati da Homo

Post n°2267 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

In Cina i più antichi manufatti creati da Homo

Su un altopiano della Cina centro-settentrionale

sono stati trovati manufatti litici risalenti a 2,1

milioni di anni fa e attributi al genere Homo

La scoperta fa così retrodatare la migrazione

dei primi ominidi al di fuori del continente

africano(red)

antropologiapaleontologiaarcheologia

Risalgono a circa 2,1 milioni di anni fa i manufatti

litici trovati in un sito in prossimità della località

di Shangchen, nella Cina centrale.

La loro scoperta retrodata di circa 270.000 anni

la più antica testimonianza della presenza di

rappresentanti del genere Homo al di fuori dell'Africa.

A identificarli e datarli è stato un gruppo di

ricercatori dell'Accademia cinese delle scienze,

di diverse università del paese e della britannica

Università di Exeter, che firmano un articolo 

pubblicato su "Nature".

Finora le prime testimonianze di ominidi al di

fuori dell'Africa provenivano da Dmanisi, in

Georgia, dove sono stati ritrovati strumenti e

ossa di Homo erectus databili a 1,85 milioni di anni fa.

Altri fossili risalenti a un periodo compreso tra 1,5

e 1,7 milioni di anni fa sono stati trovati in Cina e

a Java, una delle isole che formano l'arcipelago

indonesiano.

In assoluto, il più antico reperto fossile attribuito

a un ominide del genere Homo finora noto è un

mascella rinvenuta nel 2013 nel sito di Ledi-Geraru,

nella regione dell'Afar in Etiopia, che risale a circa

2,8 milioni di anni fa.

Finora quindi sembrava che ci fosse un enorme

lasso di tempo fa la separazione di Homo da 

Australopithecus e la sua comparsa al di fuori del

continente africano - un milione di anni circa - ma

ora questo intervallo inizia a ridursi: i primi ominidi

migrarono dall'Africa almeno qualche decina di

migliaia di anni prima di 2,1 milioni di anni fa.

In Cina i più antichi manufatti creati da Homo

Uno dei 96 strumenti litici rinvenuti a Shangcheng.

(Cortesia Prof. Zhaoyu Zhu)Accanto alle pietre

scheggiate - tra cui nuclei, schegge, raschietti,

punte e percussori - Zhaoya Zhu e colleghi

hanno trovato anche resti animali, che fanno

ipotizzare che alcuni di quegli strumenti possano

essere stati usati per macellarli e disossarli,

anche se per una dimostrazione conclusiva di

questo uso saranno necessarie ulteriori analisi

sui manufatti.

Il sito si trova sul cosiddetto altopiano cinese

del Loess, una vasta distesa di circa 270.000

chilometri quadrati, su cui nel corso degli ultimi

2,6 milioni di anni sono stati depositati tra i

100 e i 300 metri di polvere portata dal vento,

nota come loess, a cui si alternano strati di

altri tipi di suolo.

I primi sono indicativi di un periodo dal clima

fresco e asciutto, i secondi di un clima più

caldo e umido.

Gran parte dei 96 manufatti identificati sono

stati trovati prevalentemente in 11 diversi

strati di suoli fossili formatisi nei periodi più

caldi, che coprono un periodo compreso fra

1,2 e 2,12 milioni di anni fa.

La maggior parte dei reperti sono stati ottenuti

usando quarziti e altre rocce simili che

probabilmente provenivano dai piedi delle

montagne Qinling, a una decina di chilometri

di distanza dal sito, dai corsi d'acqua che

scendono da essi.

"La scoperta - ha osservato Tobin Dennell,

coautore dello studio - implica che è necessario

riconsiderare il momento in cui i primi esseri

umani hanno lasciato per la prima volta l'Africa".

 
 
 

Anticamente, sulla via della seta...

Post n°2266 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Le antiche transumanze che plasmarono la Via della seta

Gli schemi dei movimenti delle mandrie di

bestiame alla ricerca di pascoli in un'ampia

regione che va dal Mediterraneo orientale

alla Cina sono correlati alle posizioni dei siti

archeologici della Via della seta, l'antico reticolo

di cammini che collegava l'impero romano e

quello cinese.

E' quanto risulta dall'analisi dei dati raccolti

da satellite con modelli derivati dalla mappatura

dei corsi d'acqua(red)

storiaarcheologiaspazio

La Via della seta anticamente collegava l'impero

romano con l'impero cinese.

Il suo nome è tradizionalmente declinato al singolare,

ma in realtà si tratta di una complessa serie di

cammini che formavano una struttura reticolare,

attraverso la quale si muovevano beni, persone

e idee.

Lo studio dei resti archeologici di questa e di

altre antiche vie di comunicazione ha permesso

di ricostruirne a grandi linee il percorso, ma finora

non si è riusciti a stabilire con certezza i dettagli

di come abbiano avuto origine i contatti commerciali

e quali forze spingessero i primi viaggiatori.

In un nuovo studio pubblicato su "Nature",

Michael Frachetti della Washington University a

St. Louis e colleghi della stessa Università e

dell'University college di Londra hanno analizzato

i movimenti dei mandriani nomadi nelle aree

dedicate alla pastorizia dell'Asia scoprendo che

esiste una significativa correlazione con i siti

archeologici lungo la Via della seta.

Alcune prove archeologiche ed etnografiche

dell'Asia interna mostrano che per circa 4500

anni i mandriani hanno portato il bestiame

verso pascoli in quota d'estate, riportandolo

verso zone più calde e più basse d'inverno.

L'ipotesi è che gli antichi mandriani seguissero

più o meno gli stessi schemi di transumanza

stagionale, seguendo non solo i percorsi più

agevoli e diretti da un punto all'altro, ma andas-

sero anche alla ricerca di pascoli freschi.

Da qui l'idea di verificare se questi schemi di

spostamento delle mandrie potesse avere a che

fare con il reticolo di cammini della Via della

seta.

Le antiche transumanze che plasmarono la Via della seta

Modello grafico degli spostamenti di transumanza

lungo la Via della seta ottenuto nel corso dello

studio (Credit: M. Frachetti)Gli autori hanno

utilizzato un software chiamato GIS (geographic

information systems) che in genere serve a

mappare e modellizzare i corsi d'acqua di una

regione sulla base dei dati raccolti dai satellite.

In questo caso, la tecnica è stata adattata per

ottenere una dettagliata mappa della copertura

vegetale in una vasta area compresa tra il

Mediterraneo orientale e la Cina a quote

comprese tra 750 e 4000 metri, sulla base

di misurazioni del grado di riflettività della luce

solare. I dati sono poi stati confrontati con le

posizioni dei principali siti archeologici della Via

della seta, seguendo l'ipotesi che la distribuzione

dei pascoli più redditizi sia rimasta più o meno

la stessa per secoli.

I risultati delll'analisi indicano che i movimenti

delle mandrie sono fortemente correlati alle

posizioni dei siti archeologici della Via della seta:

ciò indica che la distribuzione spaziale delle

praterie e la ricerca di pascoli per il nutrimento

delle mandrie contribuì in modo significativo alla

formazione della rete di cammini di questa

importante e antichissima via di comunicazione

tra est e ovest.

La ricerca rappresenta un significativo progresso

nello studio di un'antica rete di vie commerciali,

uno sviluppo raggiunto attraverso di strumenti

di analisi spaziale che potranno contribuire a una

sempre migliore comprensione delle antiche civiltà.

 
 
 

Perchč gli Aztechi collassaron

Post n°2265 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

22 febbraio 2017

Un'epidemia di salmonella dietro il collasso

degli Aztechi?

Un'epidemia di salmonella dietro il collasso degli Aztechi?

Il sequenziamento di materiale genetico estratto

da antiche sepolture messicane indica che il

collasso della popolazione indigena verificatosi

nell'arco di un secolo dall'arrivo deiConquistadores 

spagnoli può essere stato causato da una forma

particolarmente virulenta di salmonellosi, probabilmente

proveniente dall'Europadi Ewen Callaway/NATURE

epidemiologiageneticaarcheologia

Una delle peggiori epidemie della storia umana, la

pestilenza del XVI secolo che devastò la popolazione

indigena del Messico, potrebbe essere stata causata da

una forma mortale di salmonella proveniente dall'Europa,

secondo i risultati di due studi.

Nel primo studio, i ricercatori sostengono di aver recuperato

il DNA del batterio dello stomaco da sepolture scoperte in

Messico e relative a un'infezione che ha ucciso fino all'80

per cento degli abitanti del paese nell'epidemia del 1540.

Il gruppo riporta le sue conclusioni in un preprint

pubblicato su bioRxiv l'8 febbraio scorso.

Il risultato potrebbe essere la prima documentazione

genetica del patogeno che causò il collasso delle popolazioni

indigene dopo la colonizzazione europea, spiega Hannes

Schroeder, paleogenetista del Natural History Museum of

Denmark a Copenhagen, che non era coinvolto nel lavoro,

secondo il quale si tratta di "uno studio molto interessante".

Cadaveri e fosse
Si stima che nel 1519, quando le forze guidate dal conquistador

 spagnolo Hernando Cortés arrivarono in Messico, la popolazione

indigena fosse di circa 25 milioni di persone.

Un secolo più tardi, dopo la vittoria spagnola e una serie di

epidemie, il numero si ridusse a circa un milione.

Le più gravi di queste epidemie erano definite cocoliztli (

che significa "pestilenza" in nahuatl, la lingua azteca).

Due importanti cocoliztli, iniziati nel 1545 e nel 1576, uccisero

dai 7 milioni ai 18 milioni di persone nelle regioni montuose

del Messico. "Nelle città e nei grandi villaggi, si scavavano

grandi fosse, e dal mattino al tramonto i preti non facevano

altro che portare i cadaveri e gettarli nelle fosse", annotava

uno storico francescano che fu testimone dell'epidemia del

1576.

Un'epidemia di salmonella dietro il collasso degli Aztechi?

Guerrieri aztechi difendono la piramide di Tenochtitlán dai

conquistadores di Cortez (Heritage / AGF)Finora non c'era

consenso sulla possibile causa dei cocoliztli, anche se il morbillo,

il vaiolo e il tifo sono stati tutti chiamati in causa.

Nel 2002, ricercatori della National Autonomous University of

Mexico (UNAM) a Città del Messico ipotizzarono che dietro

la carneficina vi fosse una febbre emorragica virale, esacerbata

da una siccità catastrofica.

Gli autori paragonarono le dimensioni dell'epidemia del 1545 a

quelle della peste nera nel XIV secolo in Europa.

Genomica batterica
Nel tentativo di risolvere la questione, un gruppo guidato dal

genetista evoluzionista Johannes Krause del Max-Planck-Institut

per la scienza della storia umana di Jena, in Germania, ha estratto

e sequenziato il DNA dai denti di 29 persone sepolte sugli

altipiani di Oaxaca, nel Messico meridionale.

Tutte, tranne cinque, erano correlate a un cocoliztli che i

ricercatori ritengono essersi verificato tra il 1545 e il 1550.

L'antico DNA batterico recuperato da diversi individui corrispondeva

a quello di Salmonella, secondo i confronti con un database di oltre

2.700 genomi batterici moderni.

Un ulteriore sequenziamento di brevi frammenti danneggiati di

DNA, ricavati dai resti, ha permesso al gruppo di ricostruire due

genomi di un ceppo di Salmonella enterica noto come Paratyphi C.

Oggi, questo batterio provoca febbre enterica, una malattia simile

al tifo presente soprattutto nei paesi in via di sviluppo che, se

non trattata, uccide il 10-15 per cento delle persone infettate.

Un'epidemia di salmonella dietro il collasso degli Aztechi?

Microfotografia in falsi colori di del batterio Salmonella (in rosso)

(CC0 Public Domain)"È perfettamente ragionevole che il batterio

possa aver causato questa epidemia", aggiunge Schroeder.

"L'ipotesi è ben argomentata". Ma Maria Avila-Arcos, genetista

dell'evoluzione dell'UNAM, non è convinta.

Osserva che alcuni ipotizzano che a causare il cocoliztli sia stato

un virus, che non sarebbe stato individuato con il metodo

utilizzato dal gruppo.

Il problema dell'origine
La tesi di Krause e colleghi è sostenuta anche da un altro studio

pubblicato la scorsa settimana su bioRxiv, che solleva l'ipotesi che

Salmonella Paratyphi C sia arrivato in Messico dal'Europa.

Un gruppo guidato da Mark Achtman, microbiologo dell'Università

di Warwick a Coventry, ha raccolto e sequenziato il genoma del

ceppo batterico estratto dai resti di una giovane donna sepolta

intorno al 1200 a Trondheim, in Norvegia.

È la più antica documentazione dell'ormai raro ceppo di Salmonella,

e la prova che esso circolava in Europa, secondo lo studio.

(Entrambi i gruppi hanno rifiutato di commentare le loro ricerche

perché i loro articoli sono stati sottoposti a una rivista peer-review.)

"Ciò che vorremmo fare è studiare i due ceppi insieme", dice

Hendrik Poinar, biologo evoluzionista della McMaster University

a Hamilton, in Canada.

E se si potessero raccogliere diversi genomi antichi in Europa e

nelle Americhe, dovrebbe essere possibile stabilire in modo più

definitivo se gli agenti patogeni mortali come Salmonella arrivarono

nel Nuovo Mondo dall'Europa.

L'esistenza di Salmonella Paratyphi C in Norvegia 300 anni prima

della sua comparsa in Messico non prova che gli europei trasmisero

la febbre enterica ai nativi messicani, dice Schroeder, ma si tratta

di un'ipotesi ragionevole.

Un'epidemia di salmonella dietro il collasso degli Aztechi?

Guerrieri aztechi in una illustrazione del IX libro del Codice

Fiorentino, l'ultima redazione della Historia universal de las cosas

de Nueva España, di fra' Bernardino de Sahagún (CC0 Public Domain)

Una piccola percentuale di persone infette da Salmonella Paratyphi

C è portatrice sana del batterio: si può ipotizzare che spagnoli sani

abbiano infettato i messicani privi di una resistenza naturale.

 Paratyphi C si trasmette attraverso la materia fecale, e un collasso

dell'ordine sociale durante la conquista spagnola potrebbe aver

portato alle cattive condizioni sanitarie favorevoli alla diffusione

di Salmonella, spiegano nell'articolo Krause e il suo gruppo.

Lo studio di Krause indica una strada per individuare i patogeni

responsabili delle epidemie dell'antichità, dice Schroeder.

Il suo gruppo ha in programma di cercare gli antichi agenti patogeni

nei siti di sepoltura dei Caraibi che sembrano legati alle catastrofiche

epidemie che si sono diffuse dopo l'arrivo degli europei.

"Che alcune di esse possano essere state causate da Salmonella è

ormai una possibilità concreta", conclude.

---------------
L'originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature il

16 febbraio 2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.

 
 
 

Una zanzara mutante per sconfiggere la malaria

Post n°2264 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

24 novembre 2015

Una zanzara mutante per sconfiggere la malaria

Una zanzara mutante per sconfiggere la malaria

Applicando il nuovo metodo di editing genetico

CRISPR-Cas9, un gruppo di ricercatori è riuscito

a inserire un gene per gli anticorpi di resistenza alla

malaria nel DNA della zanzara A. stephensi, il

principale vettore dell'infezione in Asia.

La mutazione si mantiene nella progenie nel 99,5

per cento dei casi, e potrebbe diffondersi in un'intera

popolazione. Si tratta di un primo passo verso

un'arma veramente efficace contro la malaria, ma va

verificato con sperimentazioni sul campo(red)

geneticaepidemiologia

Una zanzara transgenica, sviluppata da ricercatori

dell'Università della California a Irvine e a San Diego

applicando la tecnica di editing genomico  CRISPR-

Cas9, potrebbe essere l'arma più potente mai realizzata f

inora per arrestare la diffusione della malaria: secondo

quanto riferito sui "Proceedings of the National Academy

of Sciences", permetterebbe infatti di introdurre rapidamente

in una popolazione di zanzare dei geni che bloccano la malattia.

Sempre sui PNAS, un secondo articolo, firmato da Alvaro

Molina-Cruz dei National Institutes of Health degli Stati

Uniti, e colleghi, riferisce la scoperta del gene che consente

P. falciparum, il plasmodio responsabile della malaria

malattia, di adattarsi alle diverse specie di zanzare presenti

nel mondo.

Il plasmodio della malaria compie parte del suo ciclo vitale

nell'organismo delle zanzare e la trasmissione della malattia

all'uomo avviene attraverso la puntura di insetti infetti, che

immettono il patogeno nel flusso sanguigno.

Le due principali linee di ricerca per impedire il trasferimento

si concentrano quindi sull'ospite umano oppure sulla zanzara.

Una zanzara mutante per sconfiggere la malaria

Anopheles stephensi (Credit: Jim Gathany/Wikimedia Commons)

Il gruppo di Irvine diretto da Anthony A. James focalizza da

anni le sue ricerche sull'ingegnerizzazione di zanzare per

combattere le malattie.

Nel caso della febbre dengue, i ricercatori sono riusciti a isolare

un anticorpo nell'organismo dei topi e a inserirlo nell'organismo

delle zanzare che veicolano l'infezione.

Il problema è che la mutazione poteva essere ereditata solo da

metà della progenie.

All'inizio di quest'anno, Ethan Bier e Valentino Gantz, dell'Università

di San Diego, hanno annunciato di aver sviluppato un nuovo

metodo per generare mutazioni in entrambe le copie di un gene,

permettendo la trasmissione delle mutazioni con una probabilità

del 95 per cento.

I due gruppi hanno ora messo insieme le rispettive competenze

per adattare il metodo di Bier e Gantz alle zanzare della specie

Anopheles stephensi, il principale vettore della malaria in Asia.

Il punto di partenza è stata la rivoluzionaria tecnica di editing

genetico chiamata CRISPR-Cas9 (clustered regularly interspaced

short palindromic repeats/caspase 9) che sfrutta il macchinario

enzimatico di organismi molto semplici come batteri e Archea..

La tecnica consente diintervenire sul DNA in modo mirato, e

associata a una serie di geni che codificano per anticorpi efficaci

contro la malaria, costituisce un "kit genetico" che, una volta

iniettato in un embrione di zanzara, punta su un sito altamente

specifico del DNA inserendovi i geni antimalaria.

Per verificare la percentuale di casi di corretta trasmissione della

mutazione alla progenie, i ricercatori hanno aggiunto al kit il gene

che codifica per una proteina che conferisce agli occhi della zanzara

una fluorescenza rossa.

Dall'analisi è risultato che il 99,5 per cento della progenie

aveva ereditato il tratto, confermando la trasmissione della

mutazione.

A questo punto manca solo la conferma dell'efficacia degli

anticorpi, che dovrà essere ottenuta con una sperimentazione

sul campo.

"Abbiamo compiuto un passo avanti significativo: ora sappiamo

che il gene funziona", ha spiegato James.

"Le zanzare che abbiamo creato non sono il risultato finale, ma

sappiamo che questa tecnologia permette di creare in modo

efficiente grandi popolazioni".

Anopheles stephensi non è però l'unica specie di zanzara a

trasmettere la malaria poiché il plasmodio può adattarsi a specie

differenti.

Questa capacità si deve a un gene, scoperto ora da Alvaro Molina

-Cruz dei National Institutes of Health degli Stati Uniti a Rockville,

nel Maryland, e colleghi, che firmano il secondo articolo pubblicato

da PNAS.

In un precedente lavoro, lo stesso gruppo di ricercatori aveva

dimostrato che la proteina Pfs47 consente al parassita di diventare

invisibile al sistema immunitario della zanzara. Ora Molina-Cruz

e colleghi hanno scoperto che le varie popolazioni di P. falciparum

 in Africa, Asia e America hanno una limitata compatibilità con le

zanzare di altri continenti: ciò dipende dalle diverse varianti - 42

in tutto - del gene Pfs47, che permettono d'interagire in modo

specifico con le varie versioni dei recettori presenti nella zanzara.

Questi risultati portano gli autori a sostenere un modello di tipo

"chiave e serratura" per spiegare il fenomeno di globalizzazione

della malattia: le diverse varianti della proteina codificata dal gene

Pfs47 (le "chiavi") sono specifiche per i recettori ("le serrature")

delle diverse specie di zanzare diffuse nel mondo.

 
 
 

L'incredibile visione a colori dei pesci abissal

Post n°2263 pubblicato il 29 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

L'incredibile visione a colori dei pesci abissali 

Molte specie di pesci che vivono nelle profondità

dei mari, un ambiente quasi completamente oscuro,

hanno una visione a colori grazie a una grande varietà

di molecole assai sensibili alla luce nelle loro retine.

Queste molecole sono calibrate per reagire alle lunghezze

d'onda emesse dagli organi bioluminescenti delle altre

creature abissali

animalivisioneevoluzione

Molti pesci di profondità sono dotati di un sistema

visivo che permette la visione di molti colori anche

nell'oscurità quasi totale dell'ambiente in cui vivono.

Questo grazie a un'eccezionale moltiplicazione

per versioni leggermente differenti dei geni che

controllano la produzione delle opsine, i pigmenti

fotosensibili dei fotorecettori retinici, i neuroni della

retina in grado di reagire alla luce.

A scoprirlo è stato un gruppo di ricercatori diretti da

Walter Salzburger dell'Università di Basilea, in

Svizzera, che firmano un articolo su "Science".

L'incredibile visione a colori dei pesci abissali

Esemplare di pesce abissale del genere Chauliodus. 

Nei vertebrati la visione a colori è possibile grazie alla

presenza nei coni della retina di vari pigmenti fotosensibili,

detti opsine, ciascuno dei quali reagisce a differenti lunghezze

d'onda della luce (negli esseri umani, ce ne sono tre, sensibili

alla gamma del rosso, del verde e del blu), ma solo quando

il flusso luminoso è intenso.

Quando la luce è fioca, entrano in funzione i bastoncelli, che

si attivano anche con pochi fotoni, ma che hanno un solo

tipo di opsina, la rodopsina; è per questo che quasi tutti i

vertebrati hanno una visione notturna monocromatica.

Analizzando il genoma di 101 specie ittiche, Salzburger e

colleghi hanno ora scoperto che in 13 pesci abissali che

vivono fino a 1500 metri di profondità, c'è una forte

moltiplicazione dei geni per la produzione di opsine.

Confrontando le piccole variazioni presenti in quei geni,

hanno scoperto che gran parte di esse interessano punti

che - come si sa da precedenti studi sui vertebrati -

influiscono direttamente sulla lunghezza d'onda rilevata

dall'opsina.

Uno dei pesci considerati, Diretmus argenteus, è portatore

di ben 24 di queste mutazioni, che permettono la produzione

di 38 opsine differenti nei bastoncelli - il numero più alto

finora conosciuto nei vertebrati - e di due ulteriori opsine

nei coni, che permettono una sensibilità anche a livelli molto

bassi di luce.

I ricercatori hanno anche scoperto che la sensibilità di queste

opsine copre esattamente le gamme di lunghezza d'onda delle

bioluminescenze prodotte dagli organi emettitori di organismi

abissali.

Questi pesci sono quindi in grado di distinguere le varie tonalità

cromatiche prodotte da altre specie di pesci che popolano le

profondità dei mari.

Dalle analisi,"sembra inoltre che i pesci abissali abbiano

sviluppato questa visione basata su una molteplicità di

rodopsine più volte, in modo indipendente l'una dall'altra",

spiega Salzburger.

Questa capacità si è probabilmente evoluta come strumento

essenziale di sopravvivenza ha concluso Fabio Cortesi,

dell'Università del Queensland, in Australia e coautore dello

studio: "Se vuoi sopravvivere laggiù, devi decidere rapidamente

se stai vedendo un potenziale predatore o una potenziale preda".

 
 
 

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