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Messaggi del 20/04/2020
Post n°2801 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Uomo di Neanderthal, scomparso perché non sapeva disegnare Ancora oggi si dibatte sulla fine dell' Uomo di Neanderthal, mettendo in luce una specie che non ha più saputo adattarsi all'Europa di qualche migliaio di anni fa; soggiogata dal potere dell'Homo sapiens e scombussolata dal progressivo cambiamento climatico. Ora, però, degli scienziati americani aggiungono un nuovo tassello alla disanima: i neandertaliani sono scomparsi perché non sapevano disegnare. L'importanza del disegno Cosa c'entra il disegno con l'estinzione? Sapere disegnare significava essere in grado di osservare con precisione il mondo, e saperlo fronteg- giare nel migliore dei modi. Non sono molti i resti di incisioni rupestri effettuate dai neanderthaliani. Le tracce più rappresentative si trovano in corrispondenza di una grotta nei dintorni di Gibilterra; fra gli ultimi eremi del nostro famoso cugino. Sono tratti approssimativi, per nulla artistici. Rappresentano scene di vita quotidiana, ma senza la spregiudicatezza di quelli realizzati dall'Homo sapiens. Per gli studiosi è il chiaro esempio di una mancanza di abilità nel coordinamento occhio-mano. Osservare il mondo per capirlo Sapere disegnare bene, come accadeva nella nostra specie, indicava invece un'attitudine a osservare con puntiglio la natura per poi saperla piegare alle proprie necessità. In pratica dietro all'estinzione dell' Uomo di Neanderthal ci fu il mantenimento di una pratica arcaica di caccia, immortalata sulle pareti di qualche caverna. Le ricerche indicano che i neanderthaliani cacciavano a ridosso della preda, con bastoni e altri oggetti contundenti; al contrario i nostri predecessori potevano cacciare da una certa distanza, utilizzando lance perfettamente forgiate; e rischiando molto meno. I disegni riportano queste tecniche di caccia e propongono un arricchimento cognitivo che avvenne solo nella nostra specie, sempre più capace di adattarsi. Richar Coss, psicologo dell'University of California, in Usa, ha studiato i resti di disegni effettuati dagli umani fra 28mila e 32mila anni fa nella grotta di Chauevet-Pont-d'Arc nel sud della Francia e li ha messi a paragone di quelli neanderthaliani elaborati nella grotta di Gorham, nella Spagna meridionale. I risultati non lasciano dubbi. E spiegano forse definitivamente perché 35mila anni fa una specie che prosperò per migliaia e migliaia di anni esalò il suo ultimo respiro. Autore dell'articolo: Gianluca Grossi. © RIPRODUZIONE RISERVATA E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COm |
Post n°2800 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet ARCHEOLOGIA Pelle scura e occhi azzurri: ecco Cheddar Man, il primo britannico della storia 10mila anni fa gli abitanti della Gran Bretagna avevano la pelle scura, i capelli ricci corvini e gli occhi azzurri. La scoperta è stata fatta analizzando il DNA di Cheddar Man, il più antico scheletro completo mai rinvenuto sul territorio della Terra di Albione. Ricostruito il genoma Lo scheletro deve il suo nome alla cittadina di Cheddar, nel Somerset, dove è stato scoperto nel 1903. Da oltre quattro decenni i ricercatori stanno studiando i resti dell'uomo, vissuto durante il periodo Mesolitico, ma solo ora sono riusciti a riscostruirne l'aspetto. «Ho cominciato a studiare i resti di Cheddar Man negli anni '70 - ha detto Chris Stinger, ricercatore del Natural History Museum e autore dello studio -. Mai avremmo pensato che un giorno saremmo riusciti a ricavare l'intero genoma». Le analisi hanno fornito anche altre importanti dati: Cheddar Man era alto 1.65 metri ed è morto a circa 25 anni per cause violente. Cacciatori-raccoglitori venuti dall'Oriente Secondo gli studiosi Cheddar Man faceva parte di un gruppo di cacciatori- raccoglitori giunti dall'Oriente e stanziatisi sull'isola britannica circa 14mila anni fa. Sempre secondo lo studio, il 10% della popolazione britannica attuale potrebbe discendere da quella prima popolazione venuta da Est. Quando la pelle è diventata bianca La scoperta mostra come la carnagione chiara degli europei sia un fenomeno piuttosto recente. «La pelle bianca che da sempre associamo alle popolazioni europee è in realtà una caratteristica recente - ha spiegato Yoan Diekmann, biologo dell'University College di Londra che ha preso parte alla ricerca -. Tuttavia il perché questo fenotipo circa 6mila anni fa sia diventato dominante sul Vecchio Continente resta una domanda ancora aperta». Autrice dell'articolo: Marta Frigerio © RIPRODUZIONE RISERVATA |
Post n°2799 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet ARCHEOLOGIAScoperto un raro astrolabio: ha 500 anni Risale al XVI secolo il più antico astrolabio mai rinvenuto. La scoperta nelle acque al largo dell'Oman risale a qualche anno fa ma ora la compagnia britannica Blue Water Recoveries, autrice di quella spedizione, ha confermato la datazione del reperto, tra il 1495 e il 1500. Si tratta di uno degli oggetti rinvenuti intorno al relitto dell'Esmeralda, una delle navi con cui Vasco da Gama salpò dal Portogallo nel 1502 per il suo secondo viaggio verso l'India. «Appena ho avuto tra le mani quello strumento ho capito di avere di fronte un pezzo importante - ha detto alla BBC David Mearns, lo studioso a capo della spedizione -. Lo stemma portoghese era ben riconoscibile». A cosa serviva L'astrolabio è stato, fino all'invenzione del sestante, uno strumento importantis- simo per i naviganti. Consentiva loro di calcolare l'altezza sull'orizzonte del Sole e degli altri astri celesti ottenendo così importanti informazioni per la navigazione. Il disco di bronzo dello strumento rinvenuto in Oman ha un diametro di 17.5 millimetri e uno spessore di appena 2 millimetri. «Il ritrovamento di un astrolabio è un fatto davvero unico - ha spiegato Mearns -. In tutto, ne sono stati rinvenuti fino ad oggi solo 108. Questo è uno dei più antichi mai trovati». Nave portoghese diretta in India Le indagini effettuate dai ricercatori dell'Università di Warwick hanno permesso di dare una datazione precisa all'astrolabio. Su una delle facce è infatti impresso lo stemma di Manuele I, re di Portogallo salito al trono nel 1495 e che due anni dopo finanziò il primo viaggio verso l'India dell'esploratore Vasco da Gama. Il naufragio dell'Esmeralda Condotta dal comandante Vincente Sondè, l'Esmeralda affondò nei bassi fondali al largo dell'isola di Al-Hallaniyah a causa di una tempesta. Individuata nel 1998, è stata oggetto di indagini archeologiche a partire dal 2013 da parte dell'università di Bournemouth (UK), del Ministero della cultura dell'Oman e della società privata Blue Water Recoveries, con il supporto del National Geographic Society Expeditions Council. Di lei non rimane molto. In compenso era carica di oggetti che si sono rivelati di eccezionale portata storica. © RIPRODUZIONE RISERVATA CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2798 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 03 aprile 2020Comunicato stampa Dal pipistrello all'uomo: l'evoluzione del nuovo coronavirus Fonte: Irccs Medea© valentinrussanov/iStock Nel genoma del virus ci sono regioni meno "propense" alla mutazione, che potrebbero rappresentare un buon target per lo sviluppo di antivirali e vaccini. Lo studio su SARS-CoV-2 dell'IRCCS Medea, in collaborazione con l'Università degli Studi di Milano, appena pubblicato su Journal of Virology Il 31 dicembre 2019, il Centro cinese per il controllo delle malattie (China CDC) ha riportato la presenza di gravi casi di polmonite ad eziologia sconosciuta nella città di Wuhan, nella provincia cinese di Hubei. Di li a poco è stato identificato l'agente causativo in un nuovo betacorona- virus, poi denominato SARS-CoV-2. La storia della recente comparsa di questo nuovo coronavirus e della sua rapida diffusione sono ben note, da epidemia localizzata in poche regioni a pandemia con effetti devastanti. Nel giro di poco tempo si è compresa la potenziale gravità della situazione e l'intera comunità scientifica è stata chiamata a dare il proprio contributo. Una sorta di "chiamata alle armi", che ha avuto un'eccezionale risposta. laboratorio di biologia computazionale dell'istituto scientifico Eugenio Medea di Bosisio Parini (Lecco) in collaborazione con il professor Mario Clerici, dell'Università degli Studi di Milano e Fondazione Don Gnocchi, hanno raccolto questa sfida. Ne è nato uno studio appena pubblicato sulla rivista Journal of Virology. (sono zoonosi). L'analisi del genoma virale è quindi fondamentale per aiutare a comprendere le origini e la rapida espansione di COVID-19. In particolare, lo studio dell'evoluzione del genoma di SARS-CoV-2 può mettere in luce caratteristiche genetiche che hanno permesso a questo virus di compiere il salto di specie e di infettare l'uomo, oltre a fornire importanti indicazioni per eventuali target terapeutici. Il salto di specie da pipistrelli all'uomo è un fenomeno non raro tra i coronavirus, infatti nel 2003 i pipistrelli furono indicati come i serbatoi del coronavirus della SARS (SARS-CoV) e, nel 2012, del virus della MERS (MERS-CoV). SARS-CoV-2 comparandolo con quello del virus più simile fino ad ora identificato, un virus che infetta i pipistrelli della specie Rhinolophus affinis e che ha una identità di sequenza del 96% con il virus umano di COVID-19. abbiamo confrontati con i geni corrispondenti nel virus del pipistrello", spiegano i ricercatori: "volevamo capire come la selezione naturale abbia modellato il genoma del nuovo coronavirus umano". evolvono con una diversa velocità, in altre parole ci sono regioni genomiche che non tollerano (o tollerano poco) l'inserimento di mutazioni che possano portare ad un cambiamento nella sequenza proteica. Queste regioni rappresentano un buon target per lo sviluppo di antivirali e vaccini, appunto perché meno propense ad essere soggette a cambiamenti. l'insorgenza di cambiamenti in tre proteine di SARS-CoV-2 rispetto alle proteine presenti nel virus del pipistrello. La limitata pressione selettiva diretta verso SARS-CoV-2 fa supporre che il progenitore comune di questo virus e di quello del pipistrello fosse già dotato delle caratteristiche necessarie e sufficienti per infettare la nostra specie. colloca tra il virus umano e quello del pipistrello e la poca conoscenza sia della catena di eventi che ha portato alla diffusione del virus nell'uomo sia del ruolo di alcune specifiche mutazioni nelle proteine virali, rendono questi risultati preliminari e necessari di integrazione con dati epidemiologici e biochimici. |
Post n°2797 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet QUANDO LA LETTERATURA INCONTRA LA NATURA Dante e il giunco, simbolo di umiltà Questa isoletta intorno ad imo ad imo, Nel Canto I del Purgatorio Dante incontra Catone, il quale ne sorveglia l'ingresso. Ordina a Virgilio, guida del pellegrino, di far cingere i fianchi del poeta con una pianta, ma non una qualunque, bensì con un giunco. Dante arricchisce sempre i suoi testi di metafore, similitudini e simbolismi. Il giunco è simbolo di umiltà è l'umile pianta (Purgatorio, Canto I 135) per eccellenza e sono le stesse parole di Catone che spiegano le ragioni di questo rimando simbolico: il giunco cresce su fertili rive, in balìa delle onde. Esso si piega, ma non si spezza e l'unico modo che ha per sopravvivere è quello di assecondare il movimento delle onde, di piegarsi. Questo movimento riprende esattamente la caratteristiche dell'umiltà: dal latino humus, terra. La persona umile è colei che sopporta le vicissitudini della vita, è colei che riesce a piegarsi fino a toccare la terra, ma non si spezzerà mai, si rialzerà sempre; in questo modo resiste ai colpi della vita (e degli altri in particolare). Molto spesso la Natura ci insegna a tornare nella nostra dimensione: l'uomo non deve sottomettere la Natura, ma deve amarla; non deve desiderare il progresso economico a danno del suo prossimo e dell'ambiente. Ecco un invito simbolico molto pratico: cingiamo con l'immaginazione i nostri fianchi con una pianta di giunco, affrontando qualunque cosa nella vita, ricordando, del resto, che «prima della gloria c'è l'umiltà» (Proverbi 15,33). Guardare attorno a noi per credere. © RIPRODUZIONE RISERVATA |
Post n°2796 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Orecchi diversi ma udito simile al nostro: ecco come udivano i neanderthaliani Orecchi diversi, ma udito molto simile. Così può essere spiegata l'analisi condotta da esperti del Max Planck-Institut su un campione di crani di neanderthaliani. Gli esperti hanno studiato per la prima volta le caratteristiche di martello, incudine e staffa, i tre ossicini che caratterizzano il nostro sistema uditivo; e hanno visto che ci sono profonde differenze dal punto di vista strutturale fra la nostra specie e quella dell'Homo neanderthalensis. Spiegano il fenomeno affermando che i neanderthaliani seppero sviluppare una grande capacità encefalica, mantenendo però una struttura arcaica della volta cranica. Negli uomini moderni, invece, con l'affermazione dell'intelligenza e l'ingrandimento del cervello, c'è stato anche un ammodernamento dell'anatomia cerebrale. Gli studiosi affermano su Proceedings of the National Academy of Sciences che le differenze strutturali fra noi e i nostri antichi cugini, siano simili a quelle ancora oggi riscontrabili fra scimpanzé e gorilla. Dunque, la domanda sorge inevitabile: i neanderthaliano udivano in modo diverso da noi? Su questo tema gli scienziati non possono pronunciarsi in modo assoluto, ma sono piuttosto scettici; ritenendo che molto probabilmente i neanderthaliani sentivano come noi. E la risposta giunge anche dall'interpretazione dell'anatomia laringea che prova le profonde similitudini fisiologiche fra le due specie. Robert McCarthy dell'Antlantic University in Florida, partendo dai resti fossili, ha ricostruito la laringe di un neanderthaliano e l'ha sottoposta a test in grado di evidenziare l'attitudine linguistica dei nostri antenati. Si è visto che probabilmente non erano in grado di pronunciare correttamente le vocali a, i, u; ma che possedevano un linguaggio arcaico strettamente riconducibile a quello dell'uomo contemporaneo. Autore dell'articolo: Gianluca Grossi © RIPRODUZIONE RISERVATA |
Post n°2795 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet NUOVO STUDIO Il riso ha 9.400 anni e viene dalla Cina La prima domesticazione del riso è avvenuta tra 9.400 e 9.000 anni fa, lungo il corso del fiume Yangtze, nella Cina meridionale. A datare con precisione la nascita del riso "moderno" è uno ricerca condotta dalla Chinese Academy of Science, che ha preso in analisi alcuni resti rinvenuti in 18 villaggi preistorici situati lungo il corso d'acqua. La domesticazione del riso I ricercatori hanno analizzato i fitoliti presenti nei resti di riso rinvenuti in alcuni manufatti. Dalle analisi è emerso che questi sono differenti rispetto alle varietà di riso selvatico, segno che la varietà consumata in quel luogo e in quel periodo era frutto di una domesticazione. Ma non solo: attraverso i test al carbonio 14 è stato anche possibile datare i resti. I più antichi sono quelli rinvenuti nel sito di Shangshan e che risalgono a 9.400 anni fa. «Siamo certi che non si tratta di riso selvatico - ha detto il ricercatore Lu Hoyuan -. Tuttavia possiamo affermare anche che non si tratta esattamente della stessa varietà consumata oggi. Insomma, è una specie intermedia, frutto delle prime domesticazioni». Non solo in Cina In passato, si credeva che il luogo di origine del riso domestico fosse la penisola di Corea o, addirittura, l'Australia. Secondo i ricercatori, le scoperte fatte in Cina non escludono queste ipotesi. La varietà Japonica, infatti, proverrebbe dalla Cina, mentre la varietà Indica si sarebbe sviluppata nei territori dell'attuale India. E ancora: una terza varietà, conosciuta come Aus, sarebbe originaria della zona a cavallo tra gli attuali stati di India e Pakistan. Autore: Marta Frigerio © RIPRODUZIONE RISERVATA CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2794 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet SCOPERTO IN CINACaihong juji, il piccolo dinosauro dal piumaggio arcobaleno Illustrazione di Velizar Simeonovski, Field Museum Il suo nome è Caihong juji ed è un dinosauro piumato davvero unico. Scoperto nel 2014 nella provincia cinese di Hebei da un agricoltore e conservato nel museo paleontologico di Liaoning, questo antenato degli uccelli è stato recentemente oggetto di una serie di indagini che hanno portato gli studiosi guidati dal professor Dongyu Hu della facoltà di Paleontologia dell'Università Normale di Shenyang a rivelare una notizia del tutto sorprendente: le piume che ne adornavano il capo e il petto erano iridescenti come quelle di un colibrì. Caihong juji - nome che in cinese mandarino significa "arcobaleno con la grande cresta" - visse 160 milioni di anni fa, nel tardo Giurassico, nella zona della Cina nord-orientale. Si trattava di un dinosauro teropode delle dimensioni di un pollo che viveva negli ambienti forestali basando la propria dieta su piccoli mammiferi e rettili. La funzione del piumaggio colorato A rendere possibile la scoperta sono stati alcuni resti particolarmente ben conservati, che hanno permesso di estrarre il pigmento contenuto nelle penne fossilizzate. I melanosomi raccolti sono stati poi comparati con quelli contenuti nelle penne degli attuali uccelli. Secondo i ricercatori, il piumaggio iridescente consentiva a Caihong juji di mettersi in mostra. «La colorazione iridescente è strettamente legata alla selezione sessuale - ha spiegato Julia Clarke del dipartimento di Geologia della Jackson School of Greoscience e che ha collaborato alla descrizione della nuova specie. Il piumaggio colorato aveva la stessa funzione delle penne colorate del pavone maschio». Anche l'evidente cresta ossea presente tra gli occhi aveva probabilmente la stessa funzione, consentendo al dinosauro di non passare inosservato. Un dinosauro con caratteristiche antiche e moderne La scoperta di Caihong juji è interessante per diversi motivi. La cresta ossea associata al richiamo sessuale, diffusa nei dinosauri più antichi, e le piume colorate, che si diffusero invece nei milioni di anni successivi pongono questo dinosauro in un punto cruciale della storia evolutiva degli uccelli. Non solo. Caihong juji è il più antico dinosauro conosciuto dotato di piume asimmetriche. Queste - simili a quelle che troviamo sulle ali degli uccelli moderni e che servono a controllare il volo - erano presenti sulla coda ma non sulle sue ali. «Si tratta di una caratteristica bizzarra precedentemente sconosciuta tra i dinosauri, compresi gli uccelli - ha detto Xing Xu, co-autore dello studio e professore della Chinese Academy of Science - Questo suggerisce che il controllo del volo potrebbe essersi evoluto prima con le penne della coda». Il che significherebbe che i primi uccelli avevano uno stile di guida assai diverso da quelli moderni. Autore dell'articolo: Marta Frigerio © RIPRODUZIONE RISERVATA CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2793 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet PIÙ ALBERI E ARBUSTI NEI GIARDINI DELLE NOSTRE CITTÀVerde urbano contro la criminalità Può il verde urbano contribuire a ridurre la criminalità? È una domanda che mi sono posto dopo aver osservato i vari parchi e giardini pubblici delle nostre città. Infatti, anche negli impianti più recenti, nella stragrande maggioranza dei casi, è del tutto assente la parte arbustiva. Ci sono aiuole fiorite, prati vedi, alberi per lo più sparsi ma niente arbusti o quasi. Perché? Mi è stato risposto che è soprattutto per motivi di sicurezza (oltre che per ridurre i costi di manutenzione). Erbe alte, arbusti e alberi in gruppo o dalla chioma troppo densa, che scende al suolo, possono celare la vista e creare nascondigli. E questo favorirebbe lo svolgimento di attività illecite (in primis lo spaccio di droga) o l'appostamento di delinquenti pronti ad aggredirti. Una tradizione dura a morire La pensava così anche il re inglese Edoardo I. Già nel 1285 a Londra e nelle principali città del regno aveva imposto un editto in cui obbligava la rimozione di tutta la vegetazione (alberi e arbusti) lungo le strade pubbliche principali. Questo al fine di cercare di ridurre le numerose rapine e aggressioni che avvenivano lungo di esse. Oggi questa tradizione continua e moltissime amministrazioni delle città occidentali (Italia compresa) si impegnano quotidiana- mente per rimuovere o evitare che cresca un certo tipo di vegetazione perché si ritiene che nascondi e faciliti atti criminali. Il verde come antidoto Francamente queste motivazioni non mi hanno mai convinto del tutto e come me evidentemente la pensano diversi ricercatori, soprattutto statunitensi. Vari studi hanno evidenziato il contrario. Chi vive in ambienti "più verdi" (purché ben tenuti) segnala livelli più bassi di paura, meno incivilità e meno comportamenti aggressivi e violenti diffusi. Con una conseguente riduzione degli atti criminali, sia di quelli contro la proprietà (furti) che di quelli violenti (es. Kuo & Sullivan, 2001). Sono conclusioni simili a quelle degli studi sul degrado urbano (es. edifici rotti o abbandonati, strade sporche e non tenute, muri imbrattati, ecc.). Ovvero che il degrado "chiama" degrado. Mentre l'ordine, la pulizia e la bellezza attirano situazioni analoghe e orientano in un senso o nell'altro il comportamento delle persone. L'ex procuratore antimafia Giancarlo Caselli sottolineava esplicitamente come la bellezza (di cui un verde urbano ben tenuto fa parte) sia un vero antidoto contro la criminalità, l'illegalità e le mafie. Occuparsi di alberi in realtà significa occuparsi anche di persone. Gli amministratori pubblici e gli urbanisti dovrebbero capire che una moderna città, soprattutto oggi in tempi di cambiamenti climatici, non è costituita solo dalle parti edificate o asfaltate, anzi. Più alberi e arbusti nella progettazione ambientale Tornando alla progettazione degli spazi verdi, esistono numerose soluzioni che permettono di realizzare parchi e giardini con la presenza anche di boschetti e di siepi senza compromettere le esigenze di sicurezza. Non tutti i tipi di vegetazione bloccano la visibilità. Un'area erbosa ben curata certamente non ostacola la vista. Gli alberi ampiamente distanziati e con chioma alta hanno un minimo effetto sulla visibilità. Siepi e arbusti di determinate essenze, sviluppo e forma possono addirittura diventare un deterrente a nascondersi (si pensi alle essenze spinose). Certi profumi e colori poi tranquillizzano e "disattivano " l'aggressività, mentre fiori e arbusti a bassa crescita è improbabile che possano fornire possibile copertura per attività criminali. In compenso un parco vario e ben tenuto richiama tante persone e fruitori durante ogni ora del giorno. E ciò innesca un processo chiamato "sorveglianza crescente". Ovvero una maggiore frequentazione di un territorio ne aumenta il controllo diffuso, che a sua volta è un fattore consolidato nel contenimento dell'attività criminali. Come anche dimostrato da uno studio del 2018 condotto da Charles Branas della Columbia University's di New York e pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. Jane Jacobs (1961) suggeriva che la semplice presenza di più "occhi sulla strada" scoraggia il crimine. Un concetto posto in primo piano nel famoso studio USA di rigenerazione urbana "Defensible Space" di Oscar Newman (1972). Dunque la prevenzione del crimine può avvenire anche attraverso la progettazione ambientale. Che andrebbe però fatta sempre da team interdisciplinari di esperti e non solo da architetti e ingegneri. In particolare di quella degli spazi verdi urbani, che ovviamente devono anche essere ben gestiti e non abbandonati a sé stessi. Lo dimostrano molte altre ricerche ma anche esperienze concrete e recenti. Comprese alcune a noi vicine come il famoso caso del "boschetto della droga" a Rogoredo (MI). Il grande scrittore russo Fiodor Dostoiévski diceva che "la bellezza salverà il mondo". Noi non sappiamo se ciò avverrà, ma intanto essa lo rende di sicuro migliore e più vivibile. autore: Armando Gariboldi © RIPRODUZIONE RISERVATA CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2792 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet AMBIENTE E BIODIVERSITÀ Ecco perché la presenza delle vespe è così importante Èuna delle cose che indispone e atterrisce di più i vacanzieri: il ronzio delle vespe. A tutti, infatti, sarà capitato di concedersi un picnic in montagna all'ombra di un larice, o un pasto frugale, al mare, in spiaggia. Poi, all'improvviso, ecco le vespe che cominciano a girare attorno al nostro panino e noi che facciamo di tutto per evitarle, compiendo mosse a volte talmente azzardate che alla fine veniamo punti. Ma la domanda da un punto di vista scientifico è: siamo davvero sicuri che vivremmo in un mondo migliore senza le vespe? La risposta: assolutamente no. Le vespe, infatti, sono importantissime per l'ambiente e la biodiversità, ossia il numero di specie animali e vegetali che ci circondano. In particolare hanno un impatto enorme sull'abbondanza di artropodi, il più grande raggruppamento tassonomico animale, comprendente ragni, insetti, centopiedi, zecche; poiché presiedono la catena alimentare. In loro assenza prolifererebbero parassiti che creerebbero problemi all'equilibrio biologico. Alcune specie depongono le uova in altri organismi; le larve si sviluppano a loro discapito regolando il numero di insetti in un determinato habitat. A loro volta le vespe sono importanti per la sopravvivenza di specie come le rondini e i falchi, che abitualmente si nutrono di imenotteri. La verità è che sappiamo poche cose di questo animale Sociale, come le api e le formiche. Ce ne sono moltissimi. Si contano infatti 110mila specie e probabilmente ce ne sono altrettanti da classificare. Lo dimostra un recente studio condotto in Costa Rica che ha portato all'identificazione di 186 nuove specie in un singolo punto della foresta equatoriale. (Vespa vulgaris), o vespa di terra; altrettanto noto è il calabrone (Vespa crabro), detto anche vespa gigante, le cui femmine possono raggiungere i cinque centimetri di lunghezza. © RIPRODUZIONE RISERVATA CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2791 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet EFFETTO CORONAVIRUS Le persone devono stare in casa. E migliaia di tartarughe depongono le uova sulle spiagge dell'India Quanto tempo serve a Madre Natura per riprendersi gli spazi che le abbiamo sottratto con la nostra presenza e le nostre attività? Con il mondo degli umani in lockdown quasi completo a causa dell'emergenza Coronavirus, questo periodo può fornire più di qualche indicazione in merito. Non passa giorno, infatti, senza che da qualche angolo del Pianeta giunga la notizia di avvistamenti di animali in luoghi inconsueti, dai delfini nei porti di Cagliari e Trieste al puma per le strade di Santiago del Cile, fino al pod di orche avvistato nel fiordo di Indian Arm, vicino a Vancouver. L'assenza degli umani sembra quindi aver dato il via alla "ricolonizzazione" degli ambienti, anche quelli urbani, da parte della fauna selvatica. Il santuario delle Olive Ridley Uno degli episodi più spettacolari di questa tendenza delle ultime settimane potrebbe essere avvenuto sulle coste dello Stato indiano dell'Odisha, storico santuario della tartaruga Olive Ridley (Lepidochelys olivacea), nota anche come tartaruga bastarda olivacea, una specie che è stata inserita come vulnerabile nella lista rossa dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. Ogni anno, da ottobre all'inizio dell'estate, i bassi fondali vicino alle foci dei numerosi fiumi della zona diventano il terreno di alimentazione ideale per migliaia di esemplari di questa specie. Le tartarughe arrivano quindi in massa, si accoppiano e trovano grandi spiagge per deporre le loro uova. Si stima che le Olive Ripley che nascono nello stato dell'Odisha rappresentino circa il 50% della popolazione mondiale della specie. Tuttavia negli ultimi anni molti fattori hanno avuto un impatto negativo sul loro numero: le frequenti "catture accidentali" nelle reti dei pescatori, i bracconieri, il disturbo dei turisti, la perdita di spiagge adatte alla nidificazione per far posto a piantagioni, la forte illuminazione intorno alle spiagge, la presenza di predatori come cani e sciacalli... 800.000 nidi in pochi giorni Invece, negli ultimi dieci giorni di marzo, in concomitanza con il blocco imposto dal governo alle persone, le due spiagge più importanti per la nidificazione sono state letteralmente "invase" da centinaia di migliaia di femmine pronte a deporre le uova: 370.000 a Rushikulya Rookery e 420.000 a Gahirmatha beach. Anche se per le autorità il fenomeno è complesso, legato a variabili ambientali come le condizioni delle maree, la direzione del vento e le fasi lunari e non è quindi imputabile al lockdown delle attività umane, non si può evitare di sottolineare come, dopo diversi anni, le tartarughe abbiano deposto le loro uova anche durante il giorno, dunque a ciclo continuo, non soltanto nelle ore notturne come erano solite fare in passato. Spiagge blindate In attesa di scoprire "scientificamente" se questa nidifica- zione di massa di Olive Ripley è indirettamente collegata alla pandemia di Coronavirus, le navi del Dipartimento forestale pattugliano la costa e impediscono ai pescherecci di avvicinarsi e di calare le reti, mentre le due spiagge sono completamente a disposizione delle tartarughe. Non ci sono turisti nei paraggi, solo le guardie forestali e i ricercatori hanno l'autorizzazione per proteggere e monitorare i siti di nidificazione. Considerando che ogni tartaruga depone fino a 160 uova e che il periodo di incubazione è di 45 giorni, lo spettacolo naturale atteso per il mese di maggio sarà davvero indimenticabile. Per quei pochi che potranno goderselo. © RIPRODUZIONE RISERVATA CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
Post n°2790 pubblicato il 20 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet CAMBIAMENTI CLIMATICI Barbagianni sensibile al tempo che fa Il barbagianni (Tyto alba) Il cambiamento climatico è un evento ormai indiscutibile e anche il barbagianni si è dimostrato sensibile alle oscillazioni del tempo. Le cause, si sa, sono legate alle attività dell'uomo, in particolare alle continue emissioni di gas serra, tra cui l'anidride carbonica, nell'atmosfera. Si potrebbe pensare che l'innalzamento delle temperature, per alcuni animali, possa avere dei risvolti positivi. Ma non è così. Prendiamo il caso del barbagianni (Tyto alba). Ama il caldo, ma quando è troppo sono guai Si tratta di un rapace che non immagazina molto grasso in vista dell'inverno e non possiede piume impermeabili. Quindi quando piove non può cacciare in modo efficiente. Quindi si adatta molto meglio a climi caldi e asciutti. Barn Owl Trust - l'associazione che tutela i barbagianni più conosciuta ed efficiente al mondo - mostra come le popolazioni inglesi di questa specie stanno avendo seri problemi e ben pochi vantaggi dall'aumento delle temperature. Infatti, con il cambiamento climatico sono sempre più frequenti anche i fenomeni meteorologici estremi nelle differenti stagioni. In estate, ondate di caldo, siccità prolungata, incendi, piogge intense e inondazioni, possono minacciare la sopravvivenza dei barbagianni, così come le lunghe gelate invernali. 2013, un'annata da dimenticare Lo sconvolgimento dei modelli meteorologici può influire negativa- mente anche su due delle più importanti specie di prede del barba- gianni, ovvero il Toporagno comune e l'Arvicola agreste. Ad esempio, l'inverno mite del 2013, seguito da un rigido cambiamento tra marzo e aprile, ha prodotto un devastante calo nelle nidiate di barbagianni. I decrementi delle deposizioni e delle nidificazioni in quell'anno furono compresi tra il - 30% e il - 95%. Sempre in quella stagione si registrarono episodi di mortalità superiori al 280%, numeri che espongono una specie sensibile come il barba- gianni ha concreti rischi di declino demografico globale. Nidi artificiali per aiutare il barbagianni Per correre ai ripari, il Barn Owl Trust ha creato in tutto il Regno Unito una rete di associazioni minori che si occupano di installare centinaia di nidi artificiali per favorire la riproduzione di questa specie, con numeri senza eguali su scala europea. Più recentemente, la bufera di neve a fine febbraio 2018 e la successiva ondata di calore estiva hanno determinato un picco demografico annuo negativo eclatante. L'estate secca ha un impatto diretto sulla crescita dell'erba e il declino di alcune prede erbivore, o legate agli ecosistemi prativi, si associa certamente a quello del barbagianni . Il monitoraggio avviato dal Barn Owl Trust può far luce in modo chiaro sulle problematiche che il cambiamento climatico riserverà a molte specie, anche a quelle che non paiono a rischio estinzione. © RIPRODUZIONE RISERVATA CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM |
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