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simone weil-L'ATTESA

Post n°8 pubblicato il 27 Agosto 2010 da Spiritodiamore
 

Anzitutto il divino viene esperito con una lontananza insormontabile dall’umano. Esso può essere solo correlato da un’intenzione di attesa. “Non sta all’uomo andare verso Dio, ma a Dio andare verso lui. L’uomo deve solo guardare ed attendere”. La medesima visuale viene espressa in un altro contesto in cui emergono ulteriori aspetti di questa relazione impossibile tra divino e umano che costituisce forse il nucleo fondante dell’esperire religioso di Simone Weil: “La correlazione rappresentabile dei contrari è un’immagine della correlazione trascendente dei contraddittori. Le correlazioni di contrari sono come una scala. Ciascuna ci eleva a un piano superiore in cui abita il rapporto che unisce i contrari. Finché giungiamo ad un luogo in cui dobbiamo pensare insieme i contrari, ma non possiamo accedere al piano in cui essi sono legati. E’ “l’ultimo gradino della scala. Là, non possiamo più sapere, dobbiamo fissare lo sguardo, attendere e amare. E Dio discende. Un uomo ispirato da Dio è un uomo che ha comportamenti, pensieri, sentimenti legati con un legame non rappresentabile”. E’ questo legame non rappresentabile che merita la nostra attenzione. In esso si raccolgono una serie di indici che denotano il contenuto proprio dell’attesa di Dio quale esperienza sostanziale del religioso nella visuale della Simone Weil e nella sua intelligenza del fenomeno religioso. Essi sono l’assenza di Dio, l’amore come organo del credere, e la fede come lettura

L’assenza di Dio è un motivo ricorrente dei Quaderni. Esso si raccorda in effetti col motivo del Dio impersonale, ossia senza volto o che nasconde il suo volto, dell’impotenza di Dio che apre lo spazio alla necessità ovvero reciprocamente della necessità che rende impotente, assente, Dio. “Il contatto con le creature ci è dato mediante il senso della presenza. Il contatto con Dio ci è dato mediante il senso dell’assenza. In confronto a questa assenza, la presenza diventa tanto più assente della assenza”. Ciò significa che il contatto col divino è possibile unicamente nella modalità di una intenzionalità che non riesce mai a tramutare in un oggetto presente il termine del proprio riferimento. E’ un contatto che si istituisce in maniera tanto più autentica, quanto più si esprime nell’accumulo di energia e nella tensione non pacificata.
E’ questa la ragione per cui questa tensione, questa relazione (o correlazione, se teniamo conto dell’intenzionalità insita nell’attesa di Dio), non è dell’ordine dell’intelligenza, ma dell’ordine che la Weil chiama dell’amore; ma questa categoria ci riconduce al tendere, all’appetizione, al conatus quale natura specifica del rapporto (del contatto) impegnato nell’attesa di Dio. “La fede è l’esperienza che l’intelligenza è illuminata dall’”amore”. Come dire che tale esperienza ha a che fare con ciò che sta al di sopra della verità, della possibilità di illuminazione delle cose, di renderle accessibili all’intelligenza. L’intelligenza è un investimento veritativo che dà accesso alle essenze (al cuore delle cose, alla loro struttura intrinseca che permette e consente un rapporto di necessità). Invece l’appetizione è un investimento donativo che dà accesso al bene, che esprime non la struttura delle cose, ma il loro senso (si potrebbe addirittura dire: il loro senso dell’essere). In altre parole (come si esprime la Weil): “La verità come luce del bene; il bene superiore alle essenze. L’organo col quale vediamo Dio è l’amore”. Ma c’è una riserva importante che dà una precisa misura a questo discorso della Weil, che senza tale misura critica si presterebbe a scivolare nell’indefinito o nel conato senza termine intenzionale, o peggio ancora nel conato perso nell’oggetto: “Solo l’intelligenza deve riconoscere con i mezzi che le sono propri, cioè la constatazione e la dimostrazione, la preminenza dell’amore. Essa si deve sottomettere solo sapendo in modo perfettamente chiaro e preciso perché. Altrimenti la sottomissione è un errore, e ciò a cui si sottomette è, malgrado l’etichetta, altra cosa dall’amore spirituale. (E’ ad esempio l’influenza sociale)”.

Da tutto ciò deriva il terzo indice, vale a dire la fede come “lettura”, ovvero come modalità specifica e culminante dell’attenzione. Lettura in questo contesto, come del resto nella sua caratteristica accezione weiliana, significa disclosure, ovvero interpretazione inedita a partire dal contatto col divino, e beninteso interpretazione, apertura di un orizzonte di comprensione e di senso, applicata alle cose e al mondo nel suo insieme. Insomma la lettura è uno “sguardo di senso” rivolto alle cose del nostro mondo, uno sguardo capace di illuminarne non l’opacità, ma la trasparenza in rapporto al divino; come dire, non la loro necessità, ma la loro appartenenza al bene. e qui la fede è intesa essenzialmente nel senso della “fede religiosa” ovvero della “lettura del soprannaturale”, non della fede che anima un agire.
Per elucidare questo nucleo essenziale dell’esperire religioso coagulato intorno all’attesa di Dio, la Weil ricorre al paradigma della bellezza, che apre prospettive inedite sull’universo delle religioni, prospettive che qualificano la sua visuale e il suo giudizio sulla particolarità delle fedi religiose. Tale visuale può essere sintetizzata nell’assioma (da comprendere in maniera congruente) “ogni religione è l’unica vera”, ovvero, in altri termini, “proclamare una fede l’unica vera, significa guardarla con tutta l’anima”.                                          L'attesa

 L’attesa è una condizione di esistenza (esistentiva) caratterizzata da un accumulo di energia. Essa ha come proprio referente di soggettivazione il desiderio, o meglio ancora l’appetizione. L’attesa dunque è una tensione qualificata da un’intenzionalità. L’intenzionalità esprime un vettore, una direzione verso un oggetto o verso un’alterità. Ma non è l’oggetto che invera questa intenzionalità, bensì sono due altri fattori che la definiscono in contemporanea. Entrambi appartengono all’ambito della soggettivazione, sia pure di una soggettività decentrata verso l’alterità, cioè Dio, e verso l’oggetto, cioè la necessità. Essi sono, da un lato l’energia, che dà luogo alla conformazione fenomenica-reale del desiderante, dall’altro l’avvento, o l’irruzione “dal di fuori” (il fuori può essere pensato in una duplice possibilità: o come alterità o come oggetto), del termine intenzionato. Quest’avvento realizza le condizioni dell’attesa, e produce lo status dell' equilibrio, della pacificazione, del riempimento attuativo del Sé desiderante. Si ha come un’esperienza di accoglienza recettiva dal di fuori del senso attuante la propria tensione appetitiva, così come l’attesa è uno stato di squilibrio, di tensione, una molla che si comprime e urge per lo scarico della tensione. E’ come se si ricevesse dal di fuori l’energia concentrata durante l’attesa. L’attesa, dunque, è uno stato, una condizione appetitivia non determinata dall’oggetto; ché anzi l’oggetto è il falso referente dell’attesa, mentre la sua verità consiste nello strappo, ossia nello svincolare l’intenzionalità dall’oggetto. Se l’oggetto determinasse l’attesa, la distensione dell’energia accumulata avrebbe tutti i caratteri dell’ “alienazione”, della codificazione.

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Commenti al Post:
Vervain0
Vervain0 il 21/12/10 alle 13:04 via WEB
Pensi che molti capiranno questa grande donna????
 
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