Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

 

Post n°81 pubblicato il 21 Maggio 2006 da Nekrophiliac
 
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DEEP DISH: GEORGE IS ON (2005)

Dalla causalità alla casualità. L’incontro fra Ali “Dubfire” Shirazinia e Arya “Sharam” Tayebi, statunitensi ma di chiare origini iraniane, avvenne per puro caso nel lontano 1991. All’epoca entrambi suonavano in alcuni piccoli locali e soprattutto presso party privati della città di Washington. Incapparono entrambi in un errore di bookings, che li face trovare nello stesso giorno, alla stessa ora proprio davanti alla consolle. Un fulmine a ciel sereno. Che fare? Trascorsero la serata a suonare insieme e da qui scoprirono di avere molte cose in comune, tra cui la visione nitida tra la fusione dei vari generi musicali con l’elettronica.

Ritorno al passato. « È trascorso davvero tanto tempo dal nostro album precedente » - dichiararono in un'intervista - « Dal 1996 abbiamo iniziato a girare il mondo per i nostri spettacoli: ad un certo punto sono diventati veramente troppi, e ci dedicavamo soltanto a fare remix, e abbiamo realizzato anche parecchi mix-cds. Era giunto il momento di ricordarsi che siamo innanzitutto artisti: tutto è cominciato da lì, avevamo bisogno di tornare indietro alle nostre radici. In questo album ci sono idee che avevamo messo da parte, e su cui siamo ritornati; altre che abbiamo del tutto stravolto, o portato in un'altra direzione; ed altre ancora che ci sono venute all'ultimo minuto, frutto dell'ispirazione in un dato momento » . Detto, fatto. I Deep Dish, leader indiscussi della scena dancefloor mondiale, con la conquista del Grammy Award, entrarono già nel 2002, con il remix di Thank You di Dido, nella storia della musica. Il singolo servì per far capire a tutto il mondo come i Deep Dish fossero oramai pronti per “miscelare” il sound classico pop con il sound appartenente ai club e creare un’unione senza precedente alcuno. Nella loro quindicinale carriera spiccano ben altri remix di altisonanti nomi appartenenti al “mondo di sopra” quali Madonna (Music, 2000), Planet Funk (Inside All The People, 2001), Depeche Mode (Freelove, 2001) e Justin Timberlake (Like I Love You, 2002), Elisa (Come To Speak Me, 2002) e l’amico Paul Van Dyk (The Other Side, 2005). Ali “Dubfire” Shirazinia e Arya “Sharam” Tayebi riuscirono, però, ad emergere dall’oscura e torbida scena underground newyorkese con un altro remix, favoloso per l’epoca anch’esso, Hideaway per De Lacy e soprattutto grazie alla miriade di collaborazioni con un amico della Old School, Brian “BT” Transeau. Da qui anche la notorietà poiché “Deep Dish” divenne un perfetto sinonimo dell’allora nascente scena nota come “deep house”. Nel 1998, i Deep Dish pubblicarono il loro primo album Junk Science, un mix di deep house, rock/dance, soul e un atmosfera moody, insomma, un presagio di quanto sarebbero stati in grado di plasmare con George Is On. Furono, senza dubbio, supportati anche dal successo di alcuni singoli come The Future Of The Future [Stay Gold], formalizzata sulla dolce linea vocale Tracey Thorn, la vocalist dello storico gruppo pop Everything But The Girl. Junk Science sottolineò a pieno il loro talento nel creare musica dove il sound si presta tanto per un “passaggio” in radio, così come risulta d’obbligo in una qualsiasi discoteca che si rispetti. A seguire dopo Junk Scinece, nel 1999 fu pubblicata una compilation chiamata Yoshiesque e da qui il tourbillon di uscite anticipato all’inzio: Renaissance Ibiza (2000), Yoshiesque 2 (2001), Deep Dish – Global Underground #021: Moscow (2001) e Deep Dish Global Underground #025: Toronto (2003); tutti lavori che sono il sudato frutto dell’esperienza dinamica dei Deep Dish nei club ai quattro angoli del pianeta Terra. Il loro nome, ancora una volta, ma su scala maggiore, divenne legato sempre più ad un sound eclettico, un misto di techno, house e trance, proprio come i loro album “mixati”, finiscono per essere un meraviglioso “melting-pot” di stili e generi propriamente da “arena” dancefloor, che di fatto dominano grazie anche alle numerosissime performances dalla Macedonia a Singapore, passando per Ibiza, Londra, Tokyo, sino a Napoli, ove torneranno il 1° giugno del corrente anno, e persino Palinuro. Conseguentemente, il duo di dj-producers è tra i più quotati al momento che, tornati in studio a distanza da sette anni, hanno saputo sapientemente “innovarsi”, facendo sì che crescessero e fossero coltivate “altre” passioni, in particolar modo per sonorità più lontane, da cui sono derivate ovviamente genuine battute rock più che artefatti in chiave house, strizzando pur sempre l’occhiolino all’indimenticato pop. George Is On (2005), i cui riusciti ed orecchiabili brani sono tanto cantati, tanto strumentali, rappresenta il passo successivo e decisivo per una carriera già soddisfacente.

Progressione sonora. Quattordici tracce, caratterizzate da suoni potenti e ben calibrati, in grado di spostarsi ben al di là delle critiche volte a minare l’impensata staticità del genere. La prima parte dell'album è la più vicina al nuovo corso del duo, con l’apertura “popular” di Floating, l'incalzante Sacramento, terzo singolo estratto, con voce di Richard Morel – già collaboratore in passato - dal corroborato sapore 70's, a cui si mescola un ipnotico groove. È il preludio a quanto accadrà a breve, Sacramento ne è il veicolo, così come nel video, una semplice, ma quanto mai banale, automobile che letteralmente “trasporta” tutto e tutti verso una nuova sonorità.

Perciò, a catturare maggiormente l’attenzione dell’ascoltatore è il primo e ormai noto singolo estratto, addirittura ben un anno prima di George Is On: Flashdance. Leggendaria hit estiva, viva dimostrazione della voglia di stupire. « Flashdance è stata una cosa divertente, fatta in un momento in cui tutti guardavano alle sonorità “progressive”. Avevamo la sensazione che nessuno pensasse più al lato divertente della musica. Ovviamente anche per noi la musica è una cosa seria, ma ci deve sempre essere una certa dose di divertimento. Con Flashdance pensiamo di aver centrato questo obiettivo, pur proponendo qualcosa di un po' diverso da tutto il resto ». Sapiente dichiarazione d’intenti. Una Flashdance costruita, naturalmente, sulla base del cosiddetto “giro di chitarra” del notorio Flashdance, film cult degli 80’s. Quindi, chitarre new wave e powerful beat sono dannatamente accentuati dalla voce sensuale di Anousheh Khalili, adattissima per quanto concerne l’opera dei Deep Dish. conosciuta già precedentemente nel suo omaggio canoro del 1983 nella colonna sonora dell’omonimo film con He’s A Dream. Il video della canzone, piuttosto, è stato girato nella città di Los Angeles, trasformata in Tokyo per l’occasione, dove i Deep Dish e la stessa Anousheh Khalili realizzano la loro performance in un tipico club della Yacuza, la mafia giapponese.

Primo bilancio: con tre brani così, la partenza è, senz’altro, folgorante e giocata su un misto di house e rock veramente gradevole. A seguire, Swallow Me, classico dub strumentale, progressivo ed accattivante, che rimanda come suono al remix di Wrong realizzato dallo stesso duo per gli Everything But The Girl. Con Awake Enough si genera la voragine. È la traccia per sognatori e poeti notturni che l’ascoltatore medio non s’aspetta. Sonorità dolci, da prime luci dell’alba, suggestiva quanto mai grazie anche alla suadente voce di Anousheh Khalili, In Everybody's Wearing My Head ritorna la voce di Richard Morel, che conferisce acidità a ciò che potrebbe sembrare un romantico brano, dove i Deep Dish sono riusciti nell’impresa di “coniugare” un allettante groove a stimolanti suoni che rimandano all’Oriente. Si giunge così al secondo singolo estratto in ordine di tempo e probabilmente uno dei brani più riusciti in assoluto: Say Hello. È ancora una volta la voce suadente di Anousheh Khalili a cullare l’ascoltatore disteso al Sole, mentre assiste al perfetto fondersi delle due anime dei Deep Dish, con un beat fantastico a muoversi discreto al servizio della melodia ancora definibile entro parametri “orientaleggianti”, orientata dalla voce Anousheh Khalili. Say Hello è decisamente rock, con chitarre elettriche chiamate a riempire gli spazi disponibili del brano, il che per l'orecchio resta un piacere. È un suoni pieno, ricercato, espressivo, proprio come il videoclip, dove due bambini, che si trovano esattamente agli angoli del mondo, comunicano attraverso una buca nel terreno, dimostrando la futura fusione tra America del Nord e Asia.

Restando in bilico fra attraenti groove, ecco Dreams, cover dei Fleetwood Mac – tra l’altro, già “coverizzati” dalle irlandesi Corrs in Talk On Corners (1998) – riletta stavolta in chiave house, ma pur “conservando” la presenza, nonché la splendida voce di Stenie Nicks, in un nuovo, però, abito “pop”, tirato a lucido. È attualmente il quarto singolo estratto, in basso il video. Un sogno entro un altro sogno, un montaggio straordinario poiché al contrario, per un videoclip emozionante che inizia con la fine. I Deep Dish dimostrano così tutta la loro creatività.

C’è da restare incantati, appunto, entro i sogni. George Is On, a questo punto, scivola consapevolmente anche in ipnotici e scuri brani clubbing di eccellente fattura tipo Dub Shepherd prima e Sexy I11 poi, che lasciano trasparire, o meglio ri-emergere, la vera natura di selector e di produttori di musica dance, quali sono nati i Deep Dish. Tra le due tracce, stazionano tanto Sergio’s Theme, rilassante, ambigua, re-impastata tra echi mistici e improvvisi muezzin, che la vera “gemma”: In Love With A Friend, dove è lo stesso “Dubfire” ad esibirsi come vocalist, anche se, è lo stesso duo a “improvvisarsi” Röyksopp per l’occasione, riuscendoci piuttosto bene, soprattutto per il testo, timido ed travagliato. Bagels riprende in pieno Sexy I11 e infine No Stopping For Nicotine, in ancora salsa “pop”, conclude il secondo, energico e psichedelico lavoro targato Deep Dish, vera e propria consacrazione mondiale. George Is On non delineerà un vero e proprio stile musicale, perché le varianti sono molte, si passa, com’è noto, spesso da un genere all’altro. Tuttavia, nulla toglie che tutte le tracce e, quindi, in sostanza l’album è stato ben realizzato e concepito per dare nuove vie di crescita alla evoluzione musicale dei Deep Dish. Versatili.

 
 
 

Post N° 80

Post n°80 pubblicato il 31 Dicembre 2005 da Nekrophiliac
 
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RHAPSODY: DAWN OF VICTORY (2000)

Il fuoco infuria per il campo di battaglia… Arwald combatte la Guerra dei Re. L'armata di Dargor si avvicina sempre più, il tuono, la tempesta... l’alba della vittoria non giungerà tarda. La saga dei nostrani Rhapsody così procedeva, a cavallo fra due secoli, con il suo degno e mai come in quest’occasione, aggressivo terzo capitolo, che proprio con ciò si differenzia maggiormente dal suo illustre e ben più melodico predecessore, Symphony Of Enchanted Lands (1998). Dawn of Victory è, fuor di metafora, un nuovo inizio per i Rhapsody stessi: il rimarchevole avvicendamento alle “pelli” tra il buon Daniele Carbonera e l’eclettico Alex Holzwarth (già con i Sieges Even) è il magnifico esempio che corrobora la nuova dimensione sonora, decisamente, tagliente, meno ridondante, più “minimalista” a tratti, forse, a detta di alcuni, più efficace nel complesso. Dalla sinfonia all’impatto immediato. Nel mezzo un artificioso oceano, dove la vox clamantis di Fabio Lione è sempre impeccabile, Alex Staropoli muove solenne le sue dita sulle tastiere, Alessandro Lotta al basso “segue la corrente”, non resta che il virtuoso Luca Turilli ad incantare con i suoi taglienti assoli. Repetita iuvant. È un amalgama, senza esagerazione, che rasenta il concetto di perfezione, finendo per compenetrarla. La più snella struttura degli accattivanti brani, di durata inferiore rispetto al passato e caratterizzati da una maggiore compattezza e linearità, unite alle brillanti soluzioni barocche, mai fuori luogo o monotone, permettono ai quasi cinquanta minuti del disco di scivolare via senza incertezza alcuna. Per di più, la “massiccia” presenza del Helmstedt Kammerchoir, la suadente voce della cantante Costanze Backes e le meravigliose armonie del violino di Maggie Ardorf accentuano il carattere classico-sinfonico del lavoro, elevandone sicuramente il livello qualitativo.

Immancabile è l’introduzione. Una vera gemma da incastonare in un sontuosa e medievale corona: Lux Triumphans, che nel solo corso di due imponenti minuti, concentra, maestosità ed epicità in un tripudio di tenebrosi e maestosi cori tra latino e inglese. Introduzioni simili sono straordinarie per collegarsi alle successive tracce, in tal caso, niente di meno che la title-track in persona, ergo, Dawn Of Victory, raffinata sintesi hegeliana del “crescendo” precedente. Dalla notte all’alba. Una traccia, a dir poco, devastante, che procede veloce grazie agli spunti ritmici tra basso e batteria, seppur quadrata, sino al classico refrain centrale, evocativo di battaglie in lontane terre. Triumph For My Magic Steel, introdotta dai violini, procede sulle stesse coordinate, in quanto allegro brano dotato di un ritmo cadenzato e coinvolgente nelle strofe, stavolta con l''inserimento di qualche leggero elemento "medievaleggiante", in più, l’arioso coro centrale è, senza dubbio, uno dei più riusciti di tutto l''album. Si prosegue con The Village Of Dwarves, in odor di Forest Of Unicorns (da Legendary Tales, 1997), che spezza un po’ il ritmo con un delizioso arrangiamento orchestrale – merito di Alex Staropoli – e da modo a Fabio Lione di mostrare la sua versatilità vocale. La traccia si apre con una dolce voce femminile che introduce l’ascoltatore ad uno schema ripetitivo, a mo’ di stornello, in grado di ricreare perfettamente l'atmosfera descritta nel testo. È pur vero che nel vasto universo musicale numerosi potrebbero essere i gruppi che potrebbero certamente fornire esempi migliori di simili sonorità, ad esempio i finlandesi Finntroll, ma The Village Of Dwarves, sempre gradevole, è l’ottima dimostrazione della polivalenza e della creatività di un sestetto, capace di coniugare ciò che resta di una tradizione propriamente folk a ciò che assolutamente non sarebbe definito come vero e proprio metal. Nella parte centrale del disco i Rhapsody regalano perle che non passano indubbiamente inosservate, si comincia con Dargor, Shadowlord Of The Black Mountain: si punta ancora una volta sullo straordinario e coinvolgente coro, così come altrettanto epico e al tempo stesso melodico è globalmente il pezzo, dotato di un grande assolo di Luca Turilli che irrompe come un fulmine nella parte definibile come la più atmosferica, e sembra ricordare un famoso asso svedese delle sei corde, un tal Yngwie J. Malmsteen. Fin dalle prime note di The Bloody Rage Of The Titans si può intuire su che coordinate si muoverà la traccia: un inizio lento, solenne, quasi interamente parlato apre le porte del suono a quello che sarà uno dei pezzi più maestosi inseriti qui dentro, il coro viene chiamato in causa nel refrain ed infatti il risultato suona abbastanza nuovo ma di sicuro impatto. Dunque, si rallenta sulle dolci note del piano e del flauto di tale elegante e maestosa ballata caratterizzata da improvvise accelerazioni, stacchi sinfonici, ma soprattutto dalla sofferta interpretazione del “Re Lione”. Giunge, infine, l’indiscussa e indiscutibile “sacra forza del tuono”. L’unico singolo estratto dall’album, Holy Thunderforce, di cui è disponibile il video, è ben più di una canzone, poiché assume i connotati d’un manifesto d’intenti: immediata potenza, straordinaria velocità, mistica rabbia, assoli mozzafiato, voci ritmate e accompagnate da vibranti tocchi di batteria, cori mai così epici, suggestioni ed emozioni finiscono per collimare. Un brano insolito rispetto al consueto “stile”, ma che genera un enorme e prezioso vuoto, lì dove è piacevole cadere.

È superfluo aggiungere altro, ma non è scontato che dopo la tempesta di fulmini e soprattutto tuoni giunga la sospirata quiete, perché è in arrivo Trolls In The Dark, brano interamente strumentale, dominato dallo sbizzarrirsi di Luca Turali in facili scale ed elementari assoli, conditi da inquietanti e fanciulleschi vocalizzi. Un davvero piacevole intermezzo prima degli ultimi due episodi di Dawn of Victory: The Last Winged Unicorn e The Mighty Ride Of The Firelord. Il primo, un esempio di ciò che è il complesso “barocco” dei Rhapsody, ampiamente sorretto dalla doppia cassa di Alex Holzwarth e da stupende incursioni di clavicembali e violini, che non possono non riecheggiare The Dark Tower Of Abyss (da Symphony Of Enchanted Lands, 1998), intrecciate a sfuriate soliste e curati fraseggi d’impatto. L'incedere glorioso è poi reso alla perfezione grazie alla imponente sezione corale, che non si “specchia” nell’immediato nel secondo, ultimo e conclusivo episodio, davanti il quale sarebbe opportuno chinarsi e togliersi il cappello. Il fascino esercitato da una architettura complessa tra rimandi ai Carmina Burana di Carl Orff, improvvise fughe strumentali, esplosioni di orchestrazioni, frequenti cambi di ritmo, cori dirompenti e diversificati, melodie accattivanti ma di non facile assimilazione, una tecnica che rasenta l’eccelso è innegabile. Nel corso del suo essere prolissa, The Mighty Ride Of The Firelord finisce per riprendere anche la struttura dell’opener Lux Triumphans per scriver degna fine a nove minuti di musica. Come miglior tradizione di “rhapsodiana” memoria insegna. In conclusione, Dawn Of Victory (2000) ha rispettato a pieno le aspettative che si trascinava con sé e conferma, a pieno titolo, la grandezza dei Rhapsody, non più la felice sensazione di un istante, ma un gruppo di successo. È palese l’evoluzione sonora compiuta dalle “menti” Luca Turilli e Alex Staropoli, ispirati al punto giusto nel saper dar luce a un insieme di vincenti idee, divenute ora suoni. Non si tratta di riproporre la stessa sinfonia, i critici non hanno tempo, né volontà nel giudicare con franchezza un lavoro del genere, forse “pesante” in alcuni frangenti, ma accompagnato dall’originalità e da orchestrazioni di tutto rispetto. Dolce pane per gli altrui denti.

 
 
 

Post N° 79

Post n°79 pubblicato il 24 Dicembre 2005 da Nekrophiliac
 
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RAGE AGAINST THE MACHINE - RAGE AGAINST THE MACHINE (1992)

Los Angeles, California. Primi anni Novanta. Una copertina indimenticabile annuncia la pubblicazione del primo disco di una band che intendeva essere per prima cosa politica e rivoluzionaria, quindi sperimentale e innovativa: i Rage Against The Machine, progetto “post-marxista” di un giovane quartetto, che resterà in vita per un decennio, rilasciando cinque dischi – tre, nel voler essere estremi come loro insegnavano: Renegades (2000) è un disco di cover dall’impatto violentissimo, mentre il postumo Live At The Grand Olympic Auditorium (2003) è soltanto il finale guasto d’immagine, la fine di un piccola leggenda. Talvolta alcuni dischi si ascoltano per una settimana e poi precipitano nel dimenticatoio, altri si ascoltano soltanto una volta e sono gettati dalla finestra o magari rivenduti a metà prezzo, poi esistono i capolavori, i grandi dischi che risultano essere l’emblema di un periodo storico – musicale. Ogni quindici anni, al massimo quattro/cinque dischi, “fanno la storia di un genere”. L’omonimo Rage Against The Machine è proprio uno di questi, un disco “anormale”: dieci potenziali singoli, dieci pezzi che ogni amante del crossover conosce a memoria in ogni loro piccolo sentiero sonoro. E non è tutto. I testi, per esempio. Ciò che è rimasto insuperato dagli stessi Rage Against The Machine per la potenza e la spietatezza di questi, chiaramente e fieramente schierati dalla parte della sinistra estrema e dell'antimperialismo, addirittura violento. Nessuno si era mai spinto così in là nell’ “odio verso il sistema". I Rage Against The Machine sono stati uno dei maggiori nomi del panorama crossover e, a conti fatti, nu metal degli ultimi tempi con le loro violente invettive politiche a ritmo di rap Se mai c'è stata una band che ha saputo unire l'impegno sociale al divertimento, il fuoco attivista della giovane età alla matura e personale presa di coscienza del momento storico, questo gruppo erano, almeno fino agli inizi degli anni Novanta, soltanto i Clash del compianto Joe Strummer. La rabbia contro la macchina è un caso anomalo sotto ogni punto di vista. È forse la prima band a raggiungere un certo livello di popolarità prima di aver firmato un contratto discografico e, fatto ancor più curioso, non nascono come una formazione live, che si crea un proprio pubblico concerto dopo concerto, fino a trovare qualche generoso estimatore che li metta sotto contratto: i Rage Against The Machine registrarono la loro prima demo senza mai essersi esibiti dal vivo. D'altronde la musica che presentano i Rage Against The Machine nel 1991 non può che attecchire con successo in una Los Angeles ben distante dalle sirene del grunge, scossa piuttosto dall'imprevisto scioglimento dei Jane's Addiction, simbolo e germoglio fino a quel momento di un movimento underground vivo come a Seattle, ma ancora lontano dall'essere inquadrato dai canali mediatici che hanno fatto della città del Washington la Mecca del rock di quegli anni. Una scena opposta all'immagine che davano di Los Angeles i Guns N' Roses e i sogni di successo made in Hollywood. Si tratta di crossover, termine ormai volgarmente combinato al cosiddetto nu-metal, ossia una miscela impura di varie esperienze formanti una nuova struttura, in alcuni casi con originalità e spiccato senso artistico, in altri, come del resto anche e maggiormente per quanto riguarda il Seattle-sound, un mero esercizio stilistico in copia carbone, compresi i contenuti delle canzoni. In coda ai crediti di ognuno dei quattro album dei Rage Against The Machine c'è scritto: << No samples, keyboards or synthesizers used in the making of this recording >>; ciò suona puritano e allo stesso tempo non credibile, se non si assiste fisicamente a una performance live del gruppo, dove intorno a una sezione ritmica essenziale, generalmente mai sopra le righe, si inseriscono il rap, monocorde e stridulo, fastidioso e rumoroso - la voce del dissenso non potrebbe essere diversa – di Zack De La Rocha e il geniale corredo dei ritmati effetti scratch e noise, uniti alla matrice “zeppeliniana” dei assoli della chitarra di un ispirato Tom Morello.

Bombtrack è l'inizio ideale, una tranquilla introduzione che porta all'esplosione di potenza di uno dei riff più famosi della storia e, francamente, basterebbe appena una canzone per capire l’effetto novità, qualcosa di mai sentito nel 1992, fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno. Chiaro sin dal principio del disco, Bombtrack, che si sta ascoltando un disco di rottura: Un genere indefinibile, crossover tra Public Enemy e Clash e Red Hot Chili Peppers prima maniera, con maggior rabbia – se possibile – e nessuna concessione melodica. << With the thoughts from a militant mind. Hardline, hardline after hardline. Landlords and power whores. On my people they took turns. Dispute the suits I ignite. And then watch ‘em burn. Burn, burn, yes ya gonna burn >>.

E subito dopo, a schiantare qualunque equivoco, un granitico pezzo “portabandiera” come Killing In The Name, che si schiera senza paura a denunciare gli abusi e le violenze delle forze dell’ordine nelle piazze, regalando un crescendo ossessionante e incancellabile che va configurandosi come parola d’ordine da passare da individuo a individuo, perché la verità e la giustizia stanno proprio in questo approccio: nessuno può impedirvi d’essere liberi: nessuno deve imporre la “sua” libertà ad altri cittadini. Soprattutto se vengono eseguiti gli ordini dei padroni del vapore del momento. << Fuck you, I won’t do what you tell me. Fuck you, I won’t do what you tell me. Fuck you, I won’t do what you tell me. Motherfucker >>. Il verbale concetto è discretamente chiaro e lo spietato messaggio non può cadere inascoltato.

Con Take The Power Back si abbandona il riffing furioso e i Rage Against The Machine si lanciano in una canzone che è sperimentazione sonora mescolata a stilemi Red Hot Chili Peppers in apertura, poderoso basso di Tim Commerford e una gran voglia di far pogare il pubblico in sede live nell’esplosione finale: << Mother fuck Uncle Sam. Step back, I know who I am. Raise up your ear, I’ll drop the style and clear . It’s the beats and the lyrics they fear. The rage is relentless. We need a movement with a quickness. You are the witness of change. And to counteract. We gotta take the power back >>. I Rage Against The Machine, all’epoca, erano alla ricerca della “rieducazione generazionale”: fondando i loro messaggi su un nuovo genere musicale che fosse realmente riconoscibile sia ai ragazzi delle periferie che ai giovani intellettuali, incapaci di rendersi conto del circostante marciume mondiale. La malinconia e la disperazione di Settle For Nothing sembrano oggi un triste presagio di quanto è avvenuto: ossia che l’esito della battaglia politica fosse fallimentare e autodistruttivo. Il brano non smette di ghiacciare il sangue, a distanza dai primi, adolescenziali ascolti: << A jail cell is freedom. From the pain in my home. Hatred passed on, passed on and passed on. A world of violent rage. But it’s one that I can recognise. Having never seen the colour of my father’s eyes. Yes, I dwell in hell, but it’s a hell that I can grip. I tried to grip my family. But I slipped. To escape from the pain in an existence mundane. I gotta 9, a sign, a set and now I gotta name. Read my writing on the wall. No-one’s here to catch me when I fall. Death is on my side… suicide! >>. E più avanti, per il mantra in progressione di un delirante Zack De La Rocha, vale quanto esplicitato per Killing In The Name: le parole-chiave non sono difficili da interiorizzare: << If we don’t take action now, we settle for nothing later, we’ll settle for nothing now, and we’ll settle for nothing later >>. Eccessivi i rimorsi, numerosi i rimpianti, malgrado il tempo abbia fatto ormai il suo corso. Settle for nothing finisce così per apparire la canzone più "canzone" dell'intero disco. Ecco Bullet In The Head: l’assalto sonoro. Memorabile l’assolo sincopatico di Tom Morello, l’effetto della sirena infilato nelle “lyrics” al momento opportuno, il massiccio tappeto sonoro abilmente costruito dal quartetto statunitense. Il finale è poi il più classico dei classici in chiave Rage Against The Machine: un’esplosione non accidentale.

Know Your Enemy, piuttosto, è l’ennesima “sassata”, di quelle assai opportune e indovinate, all’ipocrita giostra propagandistica del cosiddetto “american dream” – adorabile la clausola: << Yes I know my enemies. They’re the teachers who taught me to fight me. Compromise, conformity, assimilation, submission. Ignorance, hypocrisy, brutality, the elite. All of which are American dreams >>. L’assolo di Tom Morello è, ancora una volta, psichedelico e postindustriale. L’ultima ripresa assolutamente energetica. Rabbioso il latrato di Zack De La Rocha: esausto poeta ed immancabile profeta della decadenza del sogno. Know your enemy annovera, inoltre, la partecipazione di un altro personaggio destinato “a fare storia”: Maynard James Keenan, leader dei Tool. Ricordate Aenima (1996)?. Non era un’amicizia casuale. La magica Wake Up ha avuto fortuna cinematografica – senza esser stato adeguatamente, ma era inevitabile, compreso dal pubblico europeo. Si tratta infatti del brano che conclude il primo (e unico) Matrix (1999): elemento che dovrebbe andare a modificare le letture e le interpretazioni del film di tanta critica, perché il significato che aveva, negli States, chiudere un’opera del genere con un pezzo dei primi Rage Against The Machine era fin troppo limpido. È un brano violento e ancora una volta affidato, nelle variazioni e nelle sospensioni, alla genialità di Tom Morello – senza nascondere simpatie e debiti nei confronti dei primissimi Metallica. Il resto è figlio dell’impegno, della satira, dei crescendo nevrastenici di Zack De La Rocha: << How long? Not long, 'cause what you reap is what you sow >>. È ora il turno della trascinante Fistful Of Steel: il sound della band, a questo punto dell’album, è già ben interiorizzato e non spiazza e non disorienta più – né nelle distorsioni, né nelle progressioni, né nello stile punk-rap dell’adrenalinico frontman. S’apprezzano coerenza e coesione, e spirito rivoluzionario. Non importa fosse figlio d’una ideologia sbagliata: è lecito meravigliarsi piuttosto dello spirito e dell’estremismo, e cercare di compredere da cosa derivasse e cosa volesse rappresentare. Tredici anni dopo, i Rage Against The Machine hanno “figliato”: dai Korn sino ai System Of A Down, passando per i contraddittori Linkin’ Park, autori di un buon debutto con Hybrid Theory (2001), ma affogati nel mare dei dollari. Ciò che differenzia e contraddistingue il primo crossover losangelino è proprio l’impronta politica – oltre, ed è superfluo ribadirlo, alla classe e alla tecnica dei musicisti. Chiudono l’album d’esordio Township Rebellion e Freedom: se la prima è martellante e ipnotica, non dissimile da Bombtrack, per struttura, impostazione e sonorità, e da Bullet In The Head nella clausola; la seconda è l’ennesima iniezione di adrenalina e inquietudine, insuperbita dal basso di Tim Commerford – ultimo invito a una ribellione (a fianco degli “Indiani d’America”) che s’è dissolta, isolando ancor più la minoranza che credeva potesse essere realizzata, e deprimendo e frustrando una generazione.

Cosa resterà di tutto ciò? Un disco imperdibile – per quanti intendano ritrovare lo spirito del rock dei primi anni Novanta, per quanti vogliano riscoprire cosa “significava” crossover, per quanti credono che, in fin dei conti, dopo i Clash non era rimasto molto da dire a chi voleva fare politica e rock d’avanguardia. La rabbia, in fondo, è un dono.

 
 
 

Post N° 78

Post n°78 pubblicato il 17 Dicembre 2005 da Nekrophiliac
 
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MASSIVE ATTACK: MEZZANINE (1998)

Capitolo III: << Hai paura della morte? >>.

Crepuscolare e a tratti gotico, Mezzanine è più di un disco: è il battito cupo di Bristol, vale a dire, il trip-hop, tra i generi più interessanti della scena britannica – diventato poi, almeno per qualche tempo, prima che nuove "ossessioni" conquistassero radio e stampa musicale – il simbolo più autentico delle sonorità di fine millennio, segnato dai Massive Attack, operai impegnati nella costruzione di un'inquietante colonna sonora della vita nelle metropoli. I Massive Attack, non a caso, sono una delle “creature” di Bristol, il laboratorio musicale più fertile dell'Inghilterra. Qui è nato il movimento trip-hop, che annovera tra le sue file anche artisti come Portishead, Tricky e, più di recente, Goldfrapp. Uno stile che mescola hip-hop di matrice nera, bassi dub e ritmi dance, con arrangiamenti da colonna sonora cinematografica. Tuttavia, nei brani dei Massive Attack c'e' di più. Tra le note cupe dei loro brani, spira aria di reggae e psichedelia, qualche vibrazione ambient, oltre a uno spirito punk. A seguito di due album di marca prettamente dance e segnati da una particolare ricerca sul ritmo, Blue Lines (1991) e Protection (1994), e mille progetti e remix di pezzi altrui, la lunga gestazione di Mezzanine ebbe termine. L’album esce dopo un periodo di lavorazione lunghissimo, spezzato da. L’attesa si intrecciava alla sensazione che i Massive Attack erano stati fiaccati dal successo e dai loro impegni dispersivi, piuttosto, Mezzanine è un album intenso e curatissimo, che ripagava i quattro anni di silenzio discografico. La novità apparente è che la musica è molto più suonata rispetto agli album precedenti: chitarre e batterie rubano spesso il posto che era stato dei turntables e dei campionamenti. A ben vedere, però, i ragazzi di Bristol non fecero altro che seguire il loro percorso di esplorazione sonora, incuranti delle classificazioni o dei paragoni, non avvertendo per niente la supposta costrizione a “plasmare” musica soltanto attraverso i campionamenti o, al contrario, sfruttando giri di basso nero pece, profondissimi, abissali. E soprattutto meno archi, e più chitarre, che donano all'insieme un suono più corposo. Tutto questo è ben in vista nella depressione esistenziale di Angel, alchimia sonora da brivido caldo. 

Così come nell’onirica Dissolved Girl: melodie inesorabilmente soul, bassa battuta e breaks "chitarrosi", duri e apocalittici. Con la chitarra che geme, ulula, fischia, in un eccesso puramente heavy. Assolutamente incredibile e geniale. Tra l'altro, non fa parte della colonna sonora del primo episodio della saga di Matrix (1999), ma è in cuffia mentre Neo, nelle prime battue del film, è paradossalmente "svegliato" dal suo pc con frasi che sono ormai entrate nella legenda, quali "Matrix has you" e "follow the white rabbit".

I Massive Attack giunsero così alla decisiva svolta nella loro breve ma stellata carriera con Mezzanine, profondo, intenso e maturo, nonché il loro disco più "rock". Le atmosfere dei primi due lavori, in bilico tra techno e lounge music, sono state sostituite da un umore oscuro e crepuscolare, degno erede della migliore scena dark degli anni '80. << Abbiamo voluto puntare soprattutto su profondità e prospettiva - spiega Robert Del Naja, nativo di Napoli, meglio conosciuto come "3D", la mente del gruppo - è un album che dà la sensazione del viaggio e si può ascoltare a vari livelli di coinvolgimento: se si tiene alto il volume, acquista in immediatezza; se lo si abbassa, diventa più imprevedibile >>. All’interno, il cd arancione fa un contrasto abbastanza deciso con l'enorme e minaccioso insetto raffigurato immortalato in copertina. Ed è lo stesso tipo di contrasto che si attua nella musica dei Massive Attack, in cui sotto l'apparente tranquillità dei ritmi e dei suoni si muove un magma inquietante fatto di altri ritmi, di altri suoni oscuri e densi. Che definizione dareste - se è possibile - della musica di Mezzanine? Risponde stavolta Andrew Vowles, alias “Mushroom”: << Roba nuova, fresca. Un passo avanti. Noi facciamo musica per noi stessi, è una attività puramente egoistica, e finché quello che produciamo suona fresco alle nostre orecchie, tutto va bene >>. Un suono tenebroso e ipnotico con improvvise esplosioni di chitarre su intelaiature di bassi avvolgenti e lisergici. Tuttavia, è in mezzo a cotanta oscurità che appare improvviso uno squarcio di luce: la sublime voce eterea di Elizabeth Fraser, splendida protagonista del dark sound anni ‘80 in gruppi troppo presto dimenticati quali Cocteau Twins e This Mortal Coil, che dà vita ad alcune interpretazioni da estasi pura, come nel spettrale e sognante contesto sonoro della suggestiva Teardrop – accompagnata alla sua uscita dal video shock in cui un feto umano si muove e "canta" nel liquido amniotico – o nella meravigliosa ed ineffabile Black Milk. Teardrop è un brano che comunica un senso di purezza incontaminata. “3D”, riguardo il videoclip, racconta: << L'idea di un feto che canta già nel grembo materno era così semplice e bella, che me ne sono innamorato subito. Naturalmente è stata suggerita dal fatto che Elizabeth Fraser era incinta durante la registrazione. Secondo noi toccava in primo luogo a lei approvare una idea del genere. Era una cosa molto delicata, e non spettava a noi giudicare, perché essendo uomini, non possiamo capire che rapporto c'è tra una madre e il suo bambino. Elizabeth ha accettato di cantare davanti alla telecamera che avrebbe ripreso i movimenti delle labbra che sarebbero diventati quelli della bocca del bambino. Molti trovano quel video un po’ inquietante. A me piace il fatto che rappresenta l'inizio e la fine allo stesso tempo: la paura prima di nascere e quella prima di morire sono la stessa cosa, perché in tutti i due casi ti trovi ad affrontare qualcosa di sconosciuto. E' la chiusura di un cerchio, come in "2001: Odissea nello spazio" >>. Continua Grant Marshall, in arte “Daddy G”: << A dir la verità, a me l'idea di un feto che canta - odio la parola feto - non mi piaceva, all'inizio. Ero preoccupato, temevo che non avrebbe funzionato. Ma poi - buffo - quando l'ho visto, ho detto: "cazzo, questa è una vera celebrazione della vita", mentre io avevo pensato che sarebbe stato esattamente il contrario >>. 

Nel techno/dub straniante di Black Milk, poi, il raffinato cantato di Elizabeth Fraser raggiunge un'intensità assolutamente non-umana.

Ciò che accomuna i suoni di Mezzanine è la ricerca di vibrazioni cupe e avvolgenti, che costruiscono atmosfere inquietanti e misteriose, a volte condite di melodie orientaleggianti: gli strumenti sono mai banalmente sfruttati per mescolare i suoni e tirarne fuori variazioni imprevedibili. I brani sono tutti interessanti e fanno centrare al gruppo un altro bersaglio nella loro carriera. Ai suoni cupi si affiancano testi altrettanto scuri: tutto il disco è giocato sul filo dell’ansia, della paura, ed è dichiaratamente ispirato al paranoico Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, regista venerato dai Massive Attack; che, dal canto loro, si “danno da fare” alla loro maniera; si ascolti lo stordente assalto dub della tetra angoscia espressionista di Risingson, in grado di far impallidire i pur massicci Cypress Hill.

Il trio non si limita esclusivamente al mero "attacco" frontale, ed anzi, colpisce fragorosamente il bersaglio indulgendo nelle sonorità ipnotiche e subliminali della title-track, Mezzanine, e della pazzesca ed ambientale Group Four, fascinoso ed indescrivibile affresco modernista. Roba da far accapponare la pelle. Invece, la sinfonia cosmica di Exchange, in entrambe le sue versioni, risulta essere costruita su un campionamento di Isaac Hayes, splendidamente interpretata dal mitico Horace Andy, amico di lungo corso della band, che dà saggio della sua mirabolante e smagliante ugola reggae anche in una blues Man Next Door, che sembra davvero fluttuare in una navetta spaziale ai confini dell'universo. Sulla Terra si ritorna quanto prima, catturati dall'insinuante ed inatteso tribalismo ritmico della mediorientale e notturna Inertia Creeps.

È “Mushroom” a parlarne: << è una canzone nata in modo interessante: durante il vecchio tour abbiamo passato un po’ di tempo a Istanbul, in Turchia, e siamo stati colpiti dalla musica Sufi. A Istanbul ci sono solo negozi di cassette e io ho passato un po’ di tempo frugando qua e là finché non ho trovato alcuni nastri che mi suggerivano delle buone idee >>. Continua “3D” con i ricordi: << così abbiamo trovato le battute, il groove, e la struttura dei cambi della canzone. il testo in generale parla delle relazioni che non funzionano, e in particolare di come le nostre relazioni possono disintegrarsi in ogni momento, con le nostre ragazze lasciate a casa e noi sempre in giro che non siamo mai presenti. Anche quando sei in studio, la musica ti porta in uno spazio mentale completamente separato, non reale né presente, e non sei più in grado di comunicare davvero con le persone che ti stanno vicino ma non condividono la stessa tensione. In queste condizioni è molto difficile tenere assieme una relazione in modo onesto. Per usare una immagine, la canzone descrive il punto in cui moto e stasi si scontrano: musicalmente volevamo dare l'impressione di qualche cosa di rotola via fuori controllo, ma si ritrae allo stesso tempo >>. Sarebbe alquanto inutile, praticamente superfluo, comunque, soffermarsi su un brano in particolare: in Mezzanine (1998) la parte è il tutto e viceversa, il concetto di "canzone" si dilata nel tempo e nello spazio fino a creare una nuova geometria, una nuova cronologia. Volenti o nolenti, l’elettronica è il suono del 2000, un suono accusato di essere troppo artificiale e "costruito", ma allo stesso tempo innegabilmente ricco di sottili sfumature che ne fanno apprezzare la complessità e la bellezza. << Mezzanine è quel particolare punto del tempo in cui la sensazione della notte prima si trasforma in quella del mattino dopo >>. Sagge parole.

 
 
 

Post N° 77

Post n°77 pubblicato il 10 Dicembre 2005 da Nekrophiliac
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SIGUR RÓS: ÁGÆTIS BYRJUN (1999)

Capitolo II: << Se fossi un pittore, dipingeresti fiori? >>.

Chi saranno mai i Sigur Rós? Sono un gruppo formatisi nel 1994 a Reykjavik ed è composto dal chitarrista/cantante Jon Thor Birgisson, il bassista Georg Holm ed il batterista Agust. Debuttano nel 1997 con l'album Von (Speranza), un lavoro scuro, fratturato con una certa pesantezza negli arrangiamenti delle strings, rendendolo un po’ troppo pomposo accanto alla loro voglia di sperimentare suoni ed atmosfere. Al trio si aggiunge poi Kjartan Sveinsson alle tastiere e la band incide il lavoro spartiacque per la loro giovane carriera: Ágætis Byrjun (Buon Inizio), un viaggio, in un’ancestrale e fredda terra lontana, un viaggio in un’eterea musica: emozionanti e soavi archi, dilatati suoni che richiamano gli spazi selvaggi e incontaminati dell’Islanda, con i suoi fiordi aspri e le sue distese lussureggianti di verde, con la sua lava e con i suoi ghiacci eterni. La musica di questa band riflette il Paradiso, un Paradiso chiamato Islanda, uno dei pochi angoli del mondo occidentalizzato ancora incontaminato. È da essa che traggono linfa vitale, ed è a essa che si ispirano. In Ágætis Byrjun, nei suoi ermetici, infantili e incomprensibili testi – scritti e cantati interamente in islandese, inframmezzati ad un vernacolo inventato dal gruppo, il cosiddetto “Hopelandic” – c’è tutta la luce e il buio dell’isola, tutto il candore della neve, la vulcanica lava o la potenza di un geyser. Non è indispensabile comprendere i testi nello specifico, perché, in questo caso, il puro suono ha una immensa forza evocativa e finisce così che l'opera acquisisca un unico magico e arcano fascino. Diviene così inutile ricercare influenze, cercare di ricostruire dettagliatamente dieci gemme, ipotizzare un genere di riferimento. È meraviglia allo stato puro.

Il disco si apre con una magnetica Intro, che dischiude le porte dell’alchimia elettronica di Svefn-G-Englar (Sonnambuli), descrizione del suono del pianto di gioia di un angelo. È una canzone che ha in sé qualcosa di terribilmente lugubre, per la sua stessa barocca attitudine. Incede maestosa, attraverso i lunghi e corposi suoni ottenuti da Jonsi grazie all’utilizzo dell’archetto, con cui accarezza le corde della sua chitarra. All’improvviso esplode, un cambio di atmosfera repentino, fondo, che calamita l’attenzione dell’ascoltatore. Atmosfere sospese tra fantasia e realtà.

A seguire, Olsen Olsen (click), una sorta di canzone natalizia, dominata in principio da un oscuro basso e da vocalizzi dolenti, si trasforma in un’ancestrale, indescrivibile “ninna nanna” cinematica che sembra giocare direttamente con le sinapsi cerebrali evocando fiabe infantili, epopee cavalleresche e canti di guerra fino ad esplodere in un inaspettato finale hollywoodiano, ma perfettamente coerente. 

E giunge solenne l’ovattata ed intimista title-track, Ágætis Byrjun (Buon inizio) (click), che riporta le atmosfere a una dimensione quietamente rarefatta e carica di sinuosa magia. Racconta di come la band reagì quando, per la prima volta, si radunò per ascoltare Von: s’accorsero che il sound non era all’altezza delle loro aspettative, ma erano tutti d’accordo: avrebbero fatto meglio in futuro, questo non era che un buon inizio: appunto, un Ágætis Byrjun. Ed infine la crepuscolare Avalon, frammento di una “rallentata” Staràlfur, è l’epilogo di questo grande album, ma soprattutto una terra magica, approdo, capolinea di un memorabile percorso. In conclusione, nessuna retorica: Ágætis Byrjun è l’uovo di un islandese Colombo del terzo millennio.

 
 
 

Post N° 76

Post n°76 pubblicato il 03 Dicembre 2005 da Nekrophiliac
 
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UNDERWORLD: BEAUCOUP FISH (1999)

Capitolo I: << Ti piacciono le riviste di meccanica? >>.

Darren Emerson (d.j.), Rick Smith (chitarra) e Karl Hyde (vocalist) sono gli storici fautori umani del concreto progetto musicale Underworld, un gruppo che dai primi anni ‘90 traccia le coordinate musicali dell’avanguardia elettronica. Esigui gruppi, nella seppur breve storia di siffatta musica, sono in grado di vantare una seminale importanza come quella degli Underworld che, spalleggiati da gruppi come Prodigy, Chemical Brothers e Orbital, hanno trovato il loro migliore mezzo di espressione artistica nel “verbo” musicale sintetico e sono riusciti a trasformare il genere elettronico in un “faro guida” sonoro. Il linguaggio elettronico utilizzato dagli Underworld è quello della techno colorata da suoni ambient, acidi, funk e house, un “concentrato” sonico a 360°, tuttavia, diversamente da altri gruppi contemporanei, il loro stile punta alla minimale semplicità, al diretto impatto del suono sulla mente e sul corpo di chi ascolta, e questa caratteristica dona ai loro brani un’immediatezza inconsueta in un settore musicale che spesso eccede per l’eccessiva stratificazione sonora. Parallelamente all’incisione di album di grande successo, seppur con qualche difficoltà di “titolo”, come Dubnobasswithmyheadman (1994), il trainante singolo della colonna sonora del film culto Trainspotting (1996), che rafforza ulteriormente la loro fama, Born Slippy – il loro brano più conosciuto e ballato – e il conseguente Second toughest in the infants (1996), gli Underworld partecipano con grande successo a diversi festival live come il Tribal Gathering ed il Fuji Rock in Giappone, dimostrando come il loro stile elettronico, fatto di lunghe “introduzioni” che convulse esplodono nella coinvolgente battuta ritmica, sappia essere estremamente trainante anche dal vivo. L’intera produzione musicale degli Underworld è sempre stata assunta come vero e proprio esempio di una techno sofisticata e di spessore, adatta alla pista come all’ascolto tra le mura domestiche. Tale disco riconferma la caratura internazionale del gruppo e, al tempo stesso, riprende i “caratteri generali” dei suoi “predecessori”, elaborando, contemporaneamente, una propria personalità, seppur sempre conforme allo straordinario stile Underworld. Così, Beaucoup Fish (1999) finisce per assumere una forte carica introspettiva, sorretta da magiche atmosfere che “pochi” sarebbero in grado di “plasmare”, realizzando un “informe” materiale elettronico e tenendo saldo un’eguale grazia e ricercatezza, trade-mark caratterizzante della sofisticata produzione degli Underworld sin dagli esordi. Cos’è allora Beaucoup Fish? Il nome richiama New Orleans e il miscuglio di suoni e culture, un intento dichiarato e rispettato. Con maggiore definizione rispetto al passato, emerge in questo disco la più grande dote degli Underworld: nell'elettronica, dove un nuovo stilema è soltanto un vetro che si spezza irrimediabilmente in mille altri frammenti, i britannici riescono ad abbracciare con lo sguardo uno stellato cielo musicale, che non sarà mai completamente visibile, ma “suona” filtrato da un’impareggiabile musica, imparagonabilmente esaustiva, ricca, superiore; dove techno e trance si intrecciano con molteplici elementi sonori in cangianti forme, verso la sublimazione. In questo disco risiede stabile il marchio ossessivo della techno, ma anche la soffice e onirica ricerca di paesaggi nuovi, con voci ed effetti che fanno pensare al nuovo che avanza, ovviamente con un irresistibile passo ritmico. Nelle sue undici tracce, gli Underworld definiscono ulteriormente il loro sound, realizzando un monolite di settantaquattro minuti di Grande Musica, dalle mille e una sfaccettature.

L'iniziale Cups apre le danze, e ci si trova quasi catapultati in un fumoso locale della Londra più underground, tra atmosfere soffuse e acidi deliri tastieristici: apnea bassa, distorta, intervallata da stacchi che sembrano i respiri di un nuotatore, muore poi trionfalmente in un assolo di tastiere acide. La successiva e famosissima Push Upstairs comincia a scaldare le casse, lo scarno loop di pianoforte e la voce lisergica e distante di Karl Hyde vanno di pari passo, fino a sfociare nell'acid – techno più ossessiva, amalgamata da tonalità morbide di accordi (la c.d. "old school"). Da applausi scroscianti.

I suoni delicati ed ambientali della splendida Jumbo, con una tempistica semplicemente perfetta, che sposa il dream-pop e il minimal drum'n bass con un semplice << click >>, fanno quasi sollevare in volo l'ascoltatore sulle mille luci notturne della robotica metropoli.

Tuttavia,  il deflagrante hardcore – trance di Shudder/King Of Snake è lì dietro l'angolo, pronta a sconvolgerlo e a proiettarlo, lentamente, nel baratro.

Winjer, piuttosto, altro non è che quattro – minuti – quattro di techno tribale. Precisa. Gli Underworld esprimono tutta la loro maestria sonica, da un lato nel “trattare” i suoni elettronici e dall’altro nel creare corpose sequenze musicali coinvolgenti e mozzafiato. Si potrebbe menzionare ogni minimo sussulto del disco, ogni fruscio impercettibile, dal funk sghembo che accarezza il break – beat di Bruce Lee alla ricercata e sperimentale, nonché malinconica ballata digitale Skym (click), passando per il frenetico battito tribal – ambient di un’estatica Kittens, la disarmante calma di Push Downstairs – lo specchio nero del ritmo galvanizzato della gemella Push upstairs, il suo negativo, il "down" che accompagna l'aria fredda dell'alba – con le casse che ancora ronzano nelle orecchie e la pura bellezza di una seducente Something Like A Mama, con i suoi battiti sincopati, fino alla conclusiva e strepitosa Moaner, vero manifesto di una tribù che balla e per nulla intenzionata a smettere.

Gli Underworld, in definitiva, colpiscono a segno, e danno l'addio al ventesimo secolo con un album incredibile e dall'intensità unica, un'intensità che il successivo A Hunderd Days Off (2002) riuscirà a ripetere a metà, sancendo, invece, l'inizio del declino del gruppo inglese, ridotto a duo dopo l'addio di Darren Emerson, che ha finito per dedicarsi interamente alla carriera solista e alla sua etichetta Underwater. Una tegola che, anni fa, lasciò numerose domande irrisolte sul futuro degli Underworld. Tuttavia, Beaucoup Fish (1999) resta lì, intoccabile, un album affascinante che non finisce di sorprendere ad ogni ascolto e superbo manifesto di una generazione che, forse, già non c'è più, nonché sintesi perfetta di una decade di elettronica che molti faticheranno a dimenticare. Eclettico.

 
 
 

Post N° 75

Post n°75 pubblicato il 30 Novembre 2005 da Nekrophiliac
 
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RAMMSTEIN: ROSENROT (2005)

A distanza di soli tredici mesi ritornano i teutonici angeli industriali: i Rammstein. L’attesa è stata snervante, un nuovo loro (capo)lavoro è sempre un evento. Il motivo di un così affrettato ritorno è da ricercarsi nel fatto che gran parte dei brani, precisamente sei su un totale di un undici, risalivano alle sessioni di registrazione del lavoro precedente, Reise Reise (2004), dove non avevano (purtroppo) trovato luogo nella sua scaletta definitiva. È quanto mai opportuno fare alcune premesse. In primo luogo, i Rammstein, senza ombra di dubbio, sono uno dei pochissimi gruppi che nell’ultimo decennio possano essere definiti, in maniera compiuta ed esatta, come “originali”, ed ancora una volta confermano il loro trademark compositivo con canzoni di indubbio valore. In secondo luogo, il gruppo si è imposto senza concedersi minimamente alle tentazioni e senza stravolgere il proprio sound, evolvendolo passo per passo, mantenendo la propria proverbiale durezza, il suono marziale, l'innata propensione per enfasi, teatralità e drammaticità, la forte identità germanica e l'eccezionale “sense of humor” che più nero non si può. In terzo luogo, l'enorme senso estetico del gruppo è riconfermato, con un’inquietante cover azzurra e bianca, raffigurante una gelida landa innevata con una nave (la rompighiaccio USS Atka, ritratta quando si trovava alla McMurdo Station in Antartide il 13 marzo 1960) frenata dall’immanente ghiaccio, e un booklet superiori alla media, oltre alle varie photo-session pubblicitarie e agli inarrivabili effetti scenici. Tirando le somme, non si può andare al di sotto di un certo punteggio. In un'epoca in cui è di moda cantare in falsetto o spingere la voce a livelli estremi, i Rammstein sembrano emergere localmente dall’abisso dell’oltretomba; mentre gli attuali dischi sembrano costituire una mera fonte di incasso e popolarità, i Rammstein rilasciano brani inediti esclusivamente dal vivo; quando è stato chiesto loro di avvicinarsi, attraverso un comodo testo in formale inglese, alla massa, i Rammstein hanno rincasato le dosi, aggirandosi sempre più nei meandri della criptica costruzione linguistica tedesca; con un intero mondo che si occupa di quisquiglie e pinzillacchere, i Rammstein disquisiscono di questioni realmente concernenti la complessa natura umana. La loro condotta “morale” è immutata; la novità, invece, è nello stile, dotato, comunque, di quelle graffianti distorsioni e martellanti ritmiche, ma rivolto ad un’equità prossima alle sonorità elettroniche ed ai risvolti melodici, notevoli in questo “seminuovo” lavoro. L’ossimoro più evidente sta proprio nella resa sonora di Rosenrot, dove alle sonorità piene e corpose degli strumenti si contrappone la rigidità del tedesco, consueto idioma di base dei testi, qui abbandonato in un paio di occasioni. La vincente formula è riproposta con successo e si presta a poche eclatanti modifiche (leggi, novità), che tratteggiano Rosenrot come un geniale capitolo a sé stante nella storia dei Rammstein e che ne esaltano la proposta musicale primordiale. Non si presta a confronti, è un “crescendo” continuo (come la maggior parte dei lavori della formazione), che è dotato di vita propria e rappresenta un nuovo momento di pienezza per la band, che ha definitivamente abbandonato parte della sua ineguagliabile potenza per affidarsi ad un songwriting epico e orchestrale, pur contenendo accelerazioni degne di passare ai posteri. I Rammstein sunteggiano qui una personale visione del mondo: esiguamente orientati verso un candido e ben delineato futuro, assolutamente privato di continue sfide, lo vedono, piuttosto, come una catastrofe inevitabile. La vera difficoltà sta, dunque, nell'attribuire un preciso aggettivo (oscuro e/o melanconico?) ad un lavoro di tale potenza demagogica. È trascorso solo un anno e ciò che effettivamente resta altro non è che un album targato “Rammstein” tra le mani, avvenimento alquanto insolito per la band tedesca, abituata a lunghe pause – utili a fondere e forgiare le idee di sei musicisti diversi per estrazione, gusti musicali, idee e progetti – i tra un’uscita e la successiva, durante le quali la band girava in tour, con tutta la baracca, i burattini, i petardi e quant’altro. Sorpresa su sorpresa (e quando mai) il sestetto non intraprenderà alcun tour di supporto all’uscita del nuovo capitolo discografico. Troppo lungo ed estenuante il precedente, il progetto solista del chitarrista Richard Kruspe-Bernstein che bolle in pentola ed un naturale, fisiologico bisogno di non vedersi per un po’, come ogni coppia affiatata conosce a perfezione. Subito dopo la pubblicazione del mastodontico Mutter (2001), peraltro, si rischiò addirittura la rottura proprio per la forzata e oltremodo lunga convivenza a cui i membri della band furono sottoposti da un tour interminabile, e da forti contrasti a livello compositivo ed artistico. Tutto alle spalle ormai, o così sembra. A conti fatti, Rosenrot può sembrare un album semplice semplice, ma non bisogna lasciarsi ingannare. La (nuova?) marziale fatica dei Rammstein deve essere assimilata un po’ per volta, al fine di  essere apprezzata nella sua eccellente interezza, in poche parole, il solito grandioso album dei musicisti della Berlino Est. Achtung! Ora che Rosenrot è stato pubblicato, c’è da chiedersi che strada prenderanno in futuro; la più probabile è che inizieranno a sperimentare “divergenti” sonorità nuove in modo da realizzare album simili ma, concettualmente, sempre diversi. Inarrivabili.

L’apertura è affidata alla molesta Benzin (Benzina), primo singolo sinora rilasciato, nonché diretta e ficcante Rammstein song al 100% dotata di un tiro e una potenza devastanti, altro non è che un’esaltazione del fuoco e della benzina, elementi da sempre centrali nelle funamboliche esibizioni live. Infatti, nel break centrale, << Willst du dich von etwas trennen, dann mußt du es verbrennen(Vuoi separarti da un qualcosa, allora devi bruciarla). Willst du es nie wieder sehen, lass es schwimmen in Benzin (Vuoi non vederla mai più, lasciala nuotare nella benzina) >>.

D’impatto anche il restante memorabile testo che focalizza, a rovescio, l’eccesso stereotipato del mito della rock star (droga, alcol, donne), infatti, << Ich brauche Zeit (Ho bisogno di tempo), kein Heroin, kein Alkohol, kein Nikotin (Non eroina, né alcool, né nicotina). Brauch keine Hilfe (Non ho bisogno di nessun aiuto). Kein Koffein (Né caffeina). Doch Dynamit und Terpentin (Certamente dinamite e serpentina). Ich brauche Öl für Gasolin (Ho bisogno di olio per gasolina). Explosiv wie Kerosin (Esplosiva come il kerosene). Mit viel Oktan und frei von Blei (Con molti ottani e senza piombo). Einen Kraftstoff wie Benzin! (Un carburante come benzina!) Brauch keinen Freund (Non ho bisogno di nessun amico), Kein Kokain (Nè cocaina). Brauch weder Arzt noch Medizin (Non ho bisogno di medico né medicina). Brauch keine Frau nur Vaseline (Non ho bisogno di nessuna donna solo vaselina). Etwas Nitroglyzerin (Un po' di nitroglicerina)… >>. Spazio poi alla maligna Mann Gegen Mann (Uomo contro uomo), che inizia con un bel giro di basso di Oliver Riedel, e dopo pochi secondi la miccia innesca la seconda bomba del disco. La prova che i Rammstein non hanno perso la voglia di provocare. Prosegue con un ritmo un po' inusuale, anche se, decisamente, orecchiabile. Arrangiamenti più ricercati, pur non perdendo nulla della carica debordante della band con distorsioni semplicemente granitiche, e copiosi inserti elettronici supportano un cavernoso e possente ritornello a più voci, residuo di Sehnsucht (1997), ove si denuncia l’amore omosessuale: << Mann gegen Mann (Uomo contro uomo) . Meine Haut gehört den Herren (La mia pelle appartiene ai maschi). (Uomo contro uomo). Gleich und gleich gesellt sich gern (Gli uguali si uniscono volentieri). Mann gegen Mann (Uomo contro uomo). Ich bin der Diener zweier Herren (Sono servo di due padroni). Mann gegen Mann (Uomo contro uomo). Mann gegen Mann (Gli uguali si uniscono volentieri) >>. Uomo contro uomo, un non-inno alla stupidità e alla follia dell’essere umano, che non accetta il diverso, l’omosessuale in questo caso. Fortunatamente non manca all'appello la perla assoluta, quando uno spiritato Till Lindemann, sempre sopra le righe, perde la ragione nelle urla dissennate della feroce variazione: << Schwulah! (Gay)>>.

Ambiguità e brividi di Mann Gegen Mann, futuro singolo primaverile. E, finalmente Rosenrot (Rosa rossa, Rosella), la title-track che era nell’aria già da tantissimo, essendo stata addirittura preannunciata come primo singolo di Reise, Reise (2004), ed essendo poi stata sorprendetemente accantonata dalle undici passate tracce. Ennesimo pezzo industrial, ma più cadenzato, roboante. Il camaleontico tastierista Flake Lorenz conferma di essere un piccolo genio, con suoni, campionature e loop che rendono i pezzi dei Rammstein quello che sono, veri scrigni d’arte. Rosenrot: una parola come una poesia, traboccante di significato e importanza. Una poesia che unisce il bello e il brutto, il gentile e il crudele, la vita e la morte. I Rammstein uniscono cose che non stanno insieme: i Fratelli Grimm e Johann Wolfgang von Goethe. Sì, sembra assurdo, ma è semplicemente un mezzo stilistico. I Rammstein hanno gettato l'ancora nelle acque profonde della letteratura tedesca. Il titolo del brano Rosenrot fonde la favola dei fratelli Grimmm "Schneeweisschen und Rosenrot" ("Biancarosa e Rosella") con l'opera "Heidenröslein" ("La rosellina della landa") di Goethe: << Sah ein Mädchen ein Röslein stehen (Una ragazza vide una rosellina). Blühte dort in lichten Höhen (Fioriva lì sulle chiare alture). So sprach sie ihren Liebsten an (Chiese al suo amato). Ob er es ihr steigen kann (Se la può cogliere per lei). Der Jüngling steigt den Berg mit Qual (Il ragazzo scala la montagna con sofferenza). Die Aussicht ist ihm sehr egal (La vista non gli interessa). Hat das Röslein nur im Sinn (Ha in mente solo la rosellina). Bringt es seiner Liebsten hin (La porta al suo amore). An seinen Stiefeln bricht ein Stein (Ai piedi dei suoi stivali si rompe una pietra). Will nicht mehr am Felsen sein (Non vuole più essere sulle rupi). Und ein Schrei tut jedem kund (Ed un urlo lo fa sapere a tutti). Beide fallen in den Grund (Entrambi cadono al suolo) >>. Till Lindemann cita così la famosa poesia di Goethe. Ma non solo, le dà un particolare tocco distintivo: la forma femminile. Il vocalist è rinomato per gli arrangiamenti ambigui, anche se preferisce nascondere il suo talento naturale per le rime strappalacrime, le metafore commoventi e le parabole emozionanti dietro un aspetto esteriore molto duro.

La marea di immagini che fluisce da Rosenrot è quasi inesauribile. L'album brulica di storie scritte dalla gente per la gente e s'immerge con loro nelle profonde acque infide dell'abisso emotivo. In questa loro teatrale discesa i Rammstein salvano prima di tutto i problemi, le assurdità e le anomalie nascoste dietro la facciata della nostra cosiddetta normale vita quotidiana e convenzionale. Spring (Salto) ne è la chiara e solenne dimostrazione. La storia più toccante di Rosenrot. << Auf einer Brücke ziemlich hoch hält ein Mann die Arme auf(Un uomo, su un ponte piuttosto alto, tiene le braccia aperte). Da steht er nun und zögert noch (Là lui sta in piedi ed ancora esita). La gente affluisce subito in massa (Die Menschen strömen gleich zuhauf)>>. Quando… Heimlich schiebt sich eine Wolke vor die Sonne es wird kalt (Una nube si muove in segreto di fronte al Sole e si fa freddo). Doch tausend Sonnen brennen nur für dich (Ma mille soli bruciano solo per Te). Ich schleich mich heimlich auf die Brücke (Mi arrampico sul ponte di nascosto). Trete ihm von hinten in den Rücken (Gli do un calcio da dietro nella schiena). Erlöse ihn von dieser Schmach (Lo libero da questa vergogna). Und schrei ihm nach: Spring (E gli grido: Salta). Erlöse dich, Spring (Salvati, salta). Enttäusch mich nicht, Spring für mich (Non mi deludere, salta per me). Spring. Enttäusch mich nicht (Salta, non mi deludere) >>. Delle chitarre minaccianti si innalzano, la canzone è molto ritmata, fino a quando un pianoforte arriva ad alleggerire l’atmosfera. Dopo ciò la canzone accelera un po', prima del grande salto: le chitarre intensamente urlano e soffiano pesantemente: allora i Rammstein riducono la velocità e gli strumenti muoiono come onde. Alla fine si può sentire una folla rumoreggiare. Toccante. In Spring Till Lindemann, invece, fa uso di linee vocali conosciute e collaudate, su di un impianto cupo e sentimentale in cui si erge la tastiera atmosferica che crea vari giri melodici molto riusciti, come anche il coro di voci. Coro che in chiusura crea la giusta atmosfera preparatoria per il successivo dolce giro di flauto di Wo Bist Du? (Dove sei?), che viene presto interrotto, prima dai tamburi ben strutturati e delle tastiere che ricordano quelle dei Depeche Mode, che si insinuano nella canzone e dominano il tutto, e poi dagli assoli di chitarra in funzione di muro sonoro melodico. È un’industriale ballata, la probabile erede di Ohne Dich (Senza te), di cui l’arrangiamento è però ben diverso). C’è una piccola citazione alla classica Du Hast (Tu hai/odi), sotto forma di come è cantata la frase iniziale: << Ich liebe dich (Io ti amo) >>, ripetendo la frase iniziale più volte ogni volta aggiungendo nuove parole per formare una frase più lunga. << Ich liebe dich (Io ti amo). Ich liebe dich nicht (Io non ti amo). Ich liebe dich nicht mehr (Io non ti amo più). Ich liebe dich nicht mehr oder weniger als du (Io non ti amo più o meno di te). Als du mich geliebt hast (Meno di come mi hai amato). Als du mich noch geliebt hast (Meno di come mi hai ancora amato) >>. Wo bist du? è comunque uno dei maggiori picchi d’espressività del tonante sestetto. A metà disco, succede ciò qualcosa difficilmente prevedibile, un pezzo decisamente fuori dagli schemi. Stirb Nicht Vor Mir – Don’t Die Before I Do (Non morire prima di me) è, piuttosto, una canzone delicata, struggente, dove la migliore prestazione melodica di Till Lindemann si sposa con una special guest inaspettata alla voce: la soave Sharleen Spiteri, dei Texas. Le due voci si rincorrono, come i due amanti tristi narrati nel testo della stessa. Il risultato è assolutamente apprezzabile, soprattutto se contiamo l’estraneità al genere di un gruppo come i Rammstein, segnale, questo, di una grande versatilità. Quattro minuti per sognare. Nemmeno il tempo di rendersi conto di quanto appena ascoltato che i Rammstein ritornano quelli di sempre, un misto di elettronica e chitarroni pesanti. Zerstören (Distruggere) è la classica traccia che sarà da apprezzare in sede live con chissà quali effetti speciali. Inizialmente un muezzin, la persona che dalla torre della moschea richiama i fedeli alla preghiera, immediatamente dopo, nulla rimane veramente intatto. Tutto è schiacciato, annichilito, invertito, distrutto. Una distruzione ai massimi termini. Sia a livello di testo che a livello musicale. Zerstören è rapida e radicale. Alla fine, nulla resta più: << Zerreißen zerschmeißen (Lacerare e fracassare). Zerdrücken zerpflücken (Schiacciare e sfogliare). Zerhauen und klauen (Tagliare e rubare). Nicht fragen, zerschlagen (Non domandare, rompere). Zerfetzen verletzen (Lacerare e ferire). Zerbrennen dann rennen (Bruciare e poi correre). Zersägen zerlegen (Segare scomporre). Zerbrechen sich rächen (Rompere e vendicarsi)>>. Che sia un grottesco affresco dei brutali tempi che corrono? Devastante scontro di civiltà o guerra al terrorismo? Tuttavia, dall’inconsueto silenzio finale, emerge la nostalgica musica di un solitario carillon. << Er traf ein Mädchen das war blind (Ha incontrato una ragazza che era cieca). Geteiltes Leid und gleichgesinnt (Stessa passione e stessi pensieri condivisi).Sah einen Stern vom Himmel gehen (Ha visto una stella cadere dal cielo). Und wünschte sich sie könnte sehen (E si é augurata di poterla vedere) Sie hat die Augen aufgemacht (Lei ha aperto gli occhi). Verließ ihn noch zur selben Nacht (Ancora abbandonati alla notte stessa) >>. Da brividi. Hilf Mir (Aiutami) è il brano più oscuro di tutti, grazie all’avvolgente riff – uno dei più duri di sempre per i Rammstein – rivolto verso un oscuro cielo tempestoso rappresentato da cupe partiture di macabre tastiere. Stoppate e ripartenze al cardiopalma rendono l’ottava traccia qualcosa di affannoso, proprio come il singolarissimo testo: stavolta si prende spunto dalla fiaba “Die gar trauriger Geschichte mit dem Feuerzeug” (“La tristissima storia degli zolfanelli”) contenuta nel libro “Der Struwwelpeter” (“Pierino Porcospino”) scritto da Heinrich Hoffmann. La protagonista della fiaba è una bambina rimasta sola a casa, mentre i genitori erano fuori, che vede una bella “scatolina” e accese un fiammifero, finendo per << Ich bin verbrannt mit Haut und Haar (Mi sono bruciata la pelle e i capelli). Verbrannt ist alles ganz und gar (Tutto é completamente bruciato). Aus der Asche ganz allein (Dalla cenere tutto sola). Steig ich auf zum Sonnenschein (Salgo verso la luce del Sole). Das Feuer liebt mich (Il fuoco mi ama). Das Feuer liebt mich nicht (Il fuoco non mi ama). Hilf mir (Aiutami) >>. Poi con la “divertente” Te Quieto, Puta! (Ti amo, puttana!) sopraggiunge la follia: << Vamos vamos mi amor (Andiamo andiamo mio amore). Me gusta mucho tu sabor (Mi piace molto il tuo sapore). No no no no tu corazón (No no no non il tuo cuore). Mucho mucho tu limón (Molto molto il tuo limone). Dame de tu fruta (Dammi la tua frutta). Vamos mi amor… (Andiamo mio amore…) >>. Interamente cantata in spagnolo con trombe e quant’ altro è umano immaginare, la canzone resta in perfetto stile Rammstein con suoni soddisfacenti. Assurda. Il suo esatto opposto, la cupa e dolente Feuer Und Wasser (Fuoco e acqua), delinea per due minuti un insieme di arpeggi e atmosfere oscure apparentemente monotono nel suo divenire, ma non appena le intorpidite chitarre si risvegliano, irrompe subito il ritornello, con un’altra prestazione superlativa del gruppo. Nostalgia profonda di una donna e passione bruciante dominano la canzone. Fuoco e acqua, lui e lei si inseguono, si rincorrono, non potranno mai aversi completamente, l’uno uccide l’altra, come fuoco ed acqua: << In Funken versunken steh ich in Flammen (Immerso nelle scintille sono in fiamme). E sono bruciato nell'acqua (Und bin im Wasser verbrannt) >>. Infine, come immancabile sigillo finale, la lenta e sognatrice Ein Lied (Una canzone), ennesima ballata, interamente dedicata ai fans. Sottovoce, l’atto d’amore verso il loro pubblico (me compreso) lascia ai posteri le seguenti parole: << Wir sind für die Musik geboren (Noi siamo nati per la musica). Wir sind die Diener eurer Ohren (Noi siamo i servitori delle vostre orecchie). Immer wenn ihr traurig seid (Noi suoniamo sempre). Spielen wir für euch (Quando voi siete tristi) >>.

Sotto zero… un viaggio senza fine. Raggelanti onde piangono sommessamente. Lì soltanto cresce una straordinaria Rosa Rossa, un fiore sì bello ma dal gambo irto di spine taglienti e affascinanti e culminante con un capo dai petali sensibili e vellutati, che necessita di cure, che attende il vano scioglimento dei ghiacci per ammaliare e, sul più bello, pungere…

 
 
 

Post N° 74

Post n°74 pubblicato il 23 Novembre 2005 da Nekrophiliac
 
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DISSECTION: STORM OF THE LIGHT'S BANE (1995)

Correva l’anno… 1995 e i leggendari Dissection, capitanati dal cantante e chitarrista Jon Nödveidt, dopo aver dato alle stampe un concreto debut album, quale The Somberlain (1993), ritornarono con ciò che è, soprattutto in termini di fiorente originalità, uno dei più grandi capolavori del genere, un metallico concentrato suonato con una tecnica invidiabile e un gusto per la composizione raramente sentito prima in un qualsiasi altro disco, dove le canzoni sono lunghe e varie, le parti melodiche e quelle più furiose mescolate  in un alchimia che rende il suono di questa band unico e riconoscibile tra mille, il tutto accompagnato da una produzione ottima ottenuta presso gli Unisound Studio di Dan Swano. Accasatisi sotto la Nuclear Blast che ha consentito loro di avere un certo tipo di produzione, curata come non mai, e di supporto tecnico, i Dissection sono riusciti ad edificare una “grande opera” contraddistinta da aggressività, atmosfere oscure, riffs pesanti come macigni, continui cambi di tempo, dovuti anche alla lunga durata di ogni corposa singola traccia, tragici canti dal sapore leggermente gotico, riflessi in stupendi arpeggi acustici che sfociano poi in un unico impatto sonoro, sino ai poetici testi, a dir poco stupendi, intrisi di una malinconia unica. Al di là dell'importanza che può avere avuto all'interno della scena scandinava, questo lavoro è di una bellezza mostruosa e, a tutt'oggi non esiste un gruppo (Prophanity, In Aeternum) che sia riuscito nel vano tentativo di imitarli. Il motivo? La loro unicità “scolastica”. Nei Dissection la fredda Svezia ha potuto osservare la massima espressione possibile del suonare tanto death metal quanto black metal in maniera melodica. Del primo genere raccoglie in sé molte malefiche caratteristiche tecniche, del secondo alcune crude “estremità”. Una discussione sui generi, comunque, sparisce davanti alla bellezza del lavoro. La sensazionale particolarità di Storm Of The Light’s Bane è l’impatto al momento dell’ascolto, proprio come la splendida e raggelante copertina.

La tempesta sonora è inaugurata dall'introduttiva e guerreggiante At The Fathomless Depths, il giusto lento ritmo per riscaldarsi in vista della tenebrosa Night's Blood: quasi sette minuti di “tirata” musica, a dir poco frenetica, e allo stesso tempo rilassante e melodica, con momenti molto diversi tra di loro che trionfalmente si alternano fondendosi alla perfezione. Caratteristiche queste che emergono di continuo, già a partire dalla rabbiosa Unhallowed, la vera forza della natura. Così carica di atmosfera da far venire i brividi ad ogni ascolto e culminante in un assolo dalla bellezza disarmante pur nella sua incredibile semplicità. Nel complesso e se analizzato con distacco, il sound stesso non è assolutamente nulla di particolare: da qui proviene l’assoluta grandezza della band. Pur non inserendo tastiere nei loro brani, ma affidandosi interamente ai classici strumenti di una qualsiasi band, i Dissection “partoriscono” qualcosa al di là dell’umana concezione. Da cieli neri a notti stellate. L’unica ballata di Storm Of The Light’s Bane è la glaciale quarta traccia. Paradosso. Dagli stacchi acustici a quelli più in tensione, tutto sembra rimandare ad una concezione melodica della musica, ma non per questo “easy”. Qui i Dissection dimostrano tutta la loro forza, prendendo tutto ciò che avevano precedentemente realizzato, lo esaltano all'ennesima potenza compattandolo nella nostalgica Where Dead Angels Lie, attraverso con uno strapotere di gusto, tecnica, velocità, padronanza delle arie e dell'ormai "loro" genere, sfruttando a pieno l'esperienza maturata nella capacità compositiva e quella vena creativa sempre più ricca. Lenta e soffocante, Where Dead Angels Lie diviene così una traccia sensazionale, cadenzata e da un feeling assolutamente incantevole.

Spazio poi alla violenta title-track, Retribution - Storm Of The Light's Bane, dai chiari influssi thrash, che stordisce più del dovuto, ma, non a caso, è affiancata dall’evocativa Thorns Of Crimson Death, culmine della velocità raggiungibile con tempi davvero riusciti e sostenuti ritornelli. Il vorticoso ritmo, a cui è impossibile sfuggire, genera l’ultimo uragano con Soulreaper, rilevante suggello finale prima della quiete dell’outro, validamente eseguito al pianoforte, quale No Dreams Breed In Breathless Sleep. In conclusione, l’impeccabile Storm Of The Light’s Bane resta una vera e propria “icona” del mondo musicale, ma, purtroppo, a seguito dell’arresto – causa omicidio di un omosessuale algerino – del principale compositore della band, cioè il già menzionato Jon Nödveidt, dei Dissection non è restato granché. Il nulla ed il disastro, peccato.

Meno uno... la Rosa Rossa è prossima ad essere colta: la febbrile attesa è quasi giunta al termine...

 
 
 

Post N° 73

Post n°73 pubblicato il 16 Novembre 2005 da Nekrophiliac
 
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DARK TRANQUILLITY: CHARACTER (2005)

La Terra si scalda, il mondo liquido evapora e non resta che polvere su cui piangere di rimorso e solitudine. In un solo posto al mondo regna il caos infernale che riporta ogni cosa al suo posto ed ogni giudizio all'attributo che lo genera. Quel posto è lambito da venti come respiri caldi di un cataclisma prematuro ma atteso e temuto, mentre nella poca aria che resta echeggia l'impeto violento dei Dark Tranquillity. Se si parla di Character non si può fare riferimento ad un concept, eppure ogni nota, ogni riga ed ogni fotogramma riporta alla paura della fine di un mondo come l'abbiamo conosciuto, amato e deriso. Scioltasi almeno in parte la triade svedese In Flames, At The Gates e, appunto, Dark Tranquillity, non restava che attendere quest'onestissima uscita della band di Mikael Stanne per tirare le somme di un decennio che si chiude dopo aver modificato per sempre la faccia del metal estremo portandolo lì dove, forse, nessuno avrebbe voluto o sperato potesse arrivare. Con Character i Dark Tranquillity hanno scelto di non rischiare, di non modificare gli aspetti teatrali e oscuri che li accompagnano dall'epoca di Skydancer (1993) prima e The Gallery (1995) poi; tempi in cui Göteborg era al centro del mondo avendo regalato pulizia sonora ed una dignità artistica inusitata ad un genere pronto per espandersi e conoscere spazi fino ad allora vagamente immaginabili. La parola d'ordine, come al solito, è evoluzione. Un'evoluzione frutto della classe che ha sempre contraddistinto la band e che è la causa dell'attesa che anticipa ogni lavoro dei Dark Tranquillity. Se con Damage Done (2002) era già stato detto tutto, è giunto il momento di cambiare idea e viene da sé che i nuovi brani sono unici. In questo disco vengono definitivamente fissate le giunture di un puzzle di suoni che risultano quanto mai quadrati e precisi. Nessuno strumento in tutta la durata del disco fa la parte del leone, ma ognuno di essi ha un ruolo determinante e decisivo per lo spirito che i sei vogliono conferire ai brani. Le sperimentazioni "audaci", emerse dall’ascolto del precedente Lost To Apathy EP (2004), che si temevano potessero comparire, sono soltanto dei fantasmi cacciati via da una prestazione da incorniciare. Mai come ora il connubio tra l'epicità, la profondità dei brani e la potenza esplosiva espressa dalla band è stato così perfetto. Nulla è fuori posto, anzi, tutti gli ingredienti classici del marchio di fabbrica “Dark Tranquillity” sono ampiamente presenti e sviluppati in quarantotto minuti di assoluta grandezza. Character è un gran bell’album e ciò è assolutamente fuori discussione: intrecci chitarristici curatissimi e avvincenti, melodie trascinanti, produzione eccellente e classe ineguagliabile, sempre una spanna sopra chiunque si confronti sul loro stesso campo. Un disco che emoziona, colpisce, convince in ogni istante e che riconsegna al mondo un sestetto capace di mettersi in discussione, rinnovandosi ad ogni uscita. Nessun cambiamento di genere dalle ultime opere, è, piuttosto, l’approccio nei confronti di ogni canzone appare diverso, come se tutto il disco fosse ambientato in un futuro sì distante, ma ricercabile anche nella realtà circostante e che controlla le menti altrui.

Un esempio di quanto scritto finora è rappresentato dall'opener, The New Build (click), il cui coinvolgente riff introduttivo altro non è che spettacolare. Feroce come da anni non si sentiva. La disperata e determinata voce di Mikael Stanne, che ha abbandonato le pur ottime vocals “pulite” di Projector (1999) torna ad esprimersi su tonalità che non riproponeva da tempo, le chitarre sembrano rasoi, e la sezione ritmica di Anders Jivarp, nonché il pulsante basso di Michael Niklasson si fanno sempre più incalzanti e veloci. Death svedese di alta fattura, unito ad elementi elettronici che il sintetizzatore di Martin Brändström riesce ad inserire con efficacia, propria di un pezzo d’impatto come The New Build, che lascia veramente correre un brivido lungo tutta la schiena.

Sulla stessa strada è la seguente Through Smudged Lenses. Stessi stilemi compositivi, stessa raffinata e brutale cattiveria. Dotata di un bridge potente e melodico al tempo stesso, la seconda traccia tinge l’atmosfera di un’aggressività cupa e disperata, mentre il testo e la sua espressione si fanno cariche di rabbia e angoscia, almeno sino all’arpeggio finale. Non può che rimandare immediatamente ai tempi di The Mind's I (1997), disco in cui emergeva la parte più genuinamente estrema del gruppo, sia per le ritmiche che per gli assoli, facendo sì che Character costituisca, da subito, la risposta innovativa e attuale della formazione scandinava, capace di rompere gli schemi di ciascun pezzo con intermezzi lenti e riflessivi. Proprio così si chiude la seconda traccia e irrompe penetrante Out Of Nothing, forse unica connessione a Damage Done (2002) all’interno di questo disco, poiché l’alternanza di sezioni più tirate a distensioni di notevole rilievo permette di instaurare un collegamento con brani come Monochromatic Stains e The Treason Wall, le due perle del precedente full-lenght. Un ruolo fondamentale e' qui giocato dalle tastiere. Ma ancora degne di nota le chitarre, che si fondono magicamente. Out of nothing, pur mantenendo ancora alta la tensione sposta le coordinate più sulla corrente heavy metal dei Dark Tranquillity, giocando molto di più sull'epicità e lasciando poi spazio ad arrangiamenti più complessi e soprattutto al fascino di The Endless Feed, dagli oscuri riflessi e dalle graffianti distorsioni. L'ascolto prosegue, come la piacevole sensazione di déja vu. E arrivano le prime vere contaminazioni con tale traccia dalle venature industrial in cui, però, non si smarrisce mai l'identità della band, sempre capace di  improvvise sfuriate. Un pezzo più “catchy” dei precedenti, ma che non sfigura affatto.  Il lavoro dove più si sente l’impegno di Brändström è The Endless Feed, brano realmente innovativo per i Dark Tranquillity a dispetto di quanto detto prima, dove l’elettronica tesse giri cupi e fascinanti e le chitarre spaziano in un industrial metal oscuro ma capace sempre È uno dei brani migliori dell’album, invece, il trascinante singolo apripista Lost To Apathy (click), che è delineato da uno splendido motivo di sintetizzatore, su cui si inseriscono con puntualità le chitarre elettriche e una batteria sì estrema, ciò nonostante dotata di certa raffinatezza. In contrasto alla rabbia incontrata in Through Smudged Lenses, tali piacevoli orchestrazioni accompagnano lo straordinario “vocione” di Mikael Stanne. Si perde un po’ la furia iniziale, ma la struttura compositiva del brano e' notevole. La traccia spezza in due l’andamento dell’opera, poiché le successive sembrano quasi un ritorno ai timbri violenti del passato riesaminati in chiave sperimentale ed elettronica: l’alone futuristico e rabbioso che troneggia in tutto il lavoro si abbandona ad aperture leggere e apprezzabili, in cui le note si rincorrono giungendo al percorso finale di ciascuna canzone.

Se l’immediatezza di Lost To Apathy tributa a Projector (1999) tutta la propria stima, la cadenzata Mind Matters è costruita attorno ad un elaborato songwriting e con atmosfere, ancora una volta, epiche, su cui spiccano i bellissimi duetti di chitarra e una parte centrale caratterizzata da una potente compattezza sonora. Notevolissima anche l’impressionante creatività di One Thought, tra i capolavori di quest'opera. Infatti, pianta a fondo l'acceleratore, conducendo l’ascoltatore a sfrenato head-banging, prima di lasciarlo respirare su un delizioso break, per poi ripiombare nella propria “graniticità”. Fondamentale anche qui il ruolo all’intero della band del tastierista Martin Brändström. Dry Run, piuttosto, rappresenta forse la canzone più introversa e drammatica del lotto, in cui le tastiere stesse delineano la strada ove la voce di Mikael Stanne, sempre growl e mai pulita, riesce ad esprimere tutta la propria sofferenza, marcando duramente la scelta compositiva di esaltare le vorticose chitarre e le orchestrazioni. Scale abbastanza lente creano contrasto con il substrato inarrestabile e incontenibile. Pura passione impregna le note suadenti di pianoforte, presenti sia nell’eccellente Dry Run sia nella seguente Am I 1?, forse la più traccia più “atmosferica” del disco nei temi di chitarra, sebbene l’uso della tastiera spezzi i canoni tipici del genere. Colpisce senz’altro per il malinconico break centrale, dove e' eccellente il lavoro di Anders Jivarp. Ancora forti componenti elettroniche per Senses Tied, ma a farsi notare sono ancora le ritmiche feroci e serrate, senza tregua. Considerato che Senses Tied segue la linea melodica tracciata dai nove brani intrecciati e singolarmente validi, la chiusura con la lenta ed evocativa My Negation stupisce e sorprende per l’originalità acquisita dal timbro dei nuovi Dark Tranquillity, nonché per la loro rinnovata ricchezza melodica. Toni progressivi aleggiano su questa ultima meravigliosa e ruvida traccia, connotata dal growl di Mikael Stanne simile all’interpretazione su The Gallery (1995) e su The Mind’s I (1997), da chitarre strazianti e da passaggi sentiti, che impreziosiscono il risultato raggiunto complessivamente da Character (2005), efficace disco senza passaggi a vuoto né sbavature. Da consumare fino alla nausea.

Meno due... la Rosa Rossa è facile da amare, tanto di giorno, quanto di notte...

 
 
 

Post N° 72

Post n°72 pubblicato il 09 Novembre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

ANNIHILATOR: WAKING THE FURY (2002)

Mai titolo fu più azzeccato! E… mentre nella nostra cara vecchia Europa continua a mietere vittime la “sacra triade tedesca”, composta da stoici e storici gruppi quali Destruction, Kreator e Sodom, dall’altra parte dell’oceano, dove le sonorità thrash sembrano morte e sepolte da alcuni anni, almeno da quanto si evince dagli sconfortanti dati di vendita, ritornarono, agli albori dell’anno di grazia 2002 – propizio per molti dei grandi nomi della scena metal mondiale come Blind Guardian, Down, In Flames, Iron Maiden, Rhapsody e Sentenced – gli immancabili ed inossidabili Annihilator. Ad un anno di distanza da Carnival Diablos (2001), il potente combo canadese capitanato dal folle e adrenalinico chitarrista Jeff Waters approdò al decimo notevole disco, che non smentì le loro grandi capacità artistiche. Per tale nuova uscita della band, la line-up fu “ritoccata” per l'ennesima volta, col graditissimo ritorno alle “pelli” di Randy Black, già batterista della band tra il '93 e il '97, e la sostituzione di Dave Scott Davies alla chitarra, da parte di Curran Murphy (già con i Nevermore) ed, infine, l’ingresso in pianta stabile dell’aggressivo e convincente cantante, Jon Comeau si rivelò essere un acquisto realmente azzeccato e pieno di rosee previsioni per il successo duraturo della band. Insomma, niente di nuovo, tuttavia, per la prima volta, "mastro" Jeff Waters ha permesso a Russ Bergquist di suonare tutte le parti di basso sull'album ed a Curran Murphy di registrare alcuni assoli. A questo punto, con Waking the fury, gli Annihilator si erano dichiaratamente posto l'obiettivo di pubblicare il lavoro più pesante in assoluto, il lavoro con cui far risplendere ancora una volta l'intransigenza sonora tipica del thrash metal più violento e veloce. Discostandosi parecchio dalle sonorità della loro precedente pubblicazione, con le sue bellissime aperture melodiche, quest'album suona veramente duro e tagliente, merito anche di una produzione che si avvicina molto più al death, seguendo una tendenza che era già stata inaugurata da un'altra grande thrash band: i Testament, in quel magistrale lavoro che è The Gathering (1999). In una personale variazione sul tema, gli Annihilator uniscono a sonorità provenienti dagli 80’s un sound decisamente più tecnologico, compressissimo, affilato come un rasoio, lasciando come sempre ampio spazio ad una linea ritmica complessa e variegata. Attraverso suoni roventi, martellanti, che colpiscono, per la loro sovraumana potenza, fin dal primo ascolto, la band canadese dà vita ad un thrash con forti contaminazioni death, ma senza disdegnare qualche citazione stile Iron Maiden (Striker), un richiamo ai sempre immensi Slayer (Ultra Motion), o un cenno ai Metallica, dei gloriosi tempi passati, in Nothing to me. L'intero lavoro della band canadese si regge su una perfetta alchimia fra parti cadenzate, ossessive e brusche, velocissime sterzate basate su fulminanti fraseggi di chitarra, eseguite in maniera magistrale da Jeff Waters e Curran Murphy, creando così un efficacissimo mix, che riesce a dar vita a pezzi articolati, ma, allo stesso tempo, di una freschezza compositiva, a dir poco, eccezionale. Non c'è un attimo di tregua durante i soli cinquanta minuti di Waking the fury, in cui gli Annihilator sembrano veramente posseduti da qualche inquietante entità demoniaca, tanta è la furia che riescono a tirare fuori nei loro pezzi, merito anche di un'eccezionale performance vocale di Joe Comeau, è obbligatorio sottolinearlo, che dimostra di essere davvero in gran spolvero. Dobbiamo, quindi, acclamare l'avvento del "Reign In Blood" degli Annihilator? A volte il destino gioca proprio brutti scherzi. Durante questi anni gli Annihilator hanno spinto il techno – thrash a livelli qualitativi davvero alti, e dopo un periodo di difficoltà dovuto in parte ad un certo calo d'ispirazione ed in parte alla nota intolleranza del pubblico metal, la band ha finalmente riguadagnato la posizione che le spetta nel firmamento metallico. Una seconda giovinezza.

L'apertura è affidata alla mostruosa Ultra Motion, canzone che non lascia tregua per la sua cattiveria caratterizzata dalle chitarre pressanti e veloci. Un Joe Comeau molto irruente e graffiante, “gratta” decisamente parecchio con la suo voce. Contraddistinta da un furioso sound tipicamente “americano”, non a caso, ricorda tantissimo le produzioni dei gruppi della Bay Area. Deliziosamente “retrò”. La traccia seguente cattura al primo ascolto. Assicurato. Infatti, Torn (Real Player), tanto per le sue melodie heavy, quanto per il memorabile ritornello, colpisce da subito l'ascoltatore. Le chitarre efficaci e presenti, spingendo la band a “dilettarsi” nello spaziare su piani ritmici decisamente diretti quanto contenuti. Davvero un pezzo fantastico quanto unico. Lunatic Asylum (Real Player), invece, è molto più “cattiva”, incede veloce con un martellare di batteria decisamente inarrestabile. Jeff Waters rilascia una “dura” prestazione in grado di scatenare il più furioso degli head-banging. Non per altro, ma sono la sua persona e la sua chitarra il fulcro di tutte le composizioni. Genio. Si prosegue con Striker che ha un mood davvero coinvolgente; comunque questa sensazione è presente in più di un brano di Waking The Fury. Eufemico è ripeterlo ancora. Nella parte centrale, tra l’altro, il drum solo di Randy Black si lascia ampiamente apprezzare. Si passa poi a Ritual, che ha una struttura semplice: le chitarre macinano continuamente riffs e la batteria non ha tregua. Breve ed affossante. Prime Time Killing, al contrario, è letteralmente imprevedibile. Canzone corredata da suoni industriali ed elettronici. Tempo medio e cadenzato in cui le chitarre stridono in maniera “ipnotica”. La settima traccia, The Blackest Day (Real Player), si apre con una sorta di fruscio che lascia dopo pochi secondi spazio alla velocità delle chitarre, sempre molto “strette” e caratterizzate da quella produzione digitale che ha loro conferito questo sound maestoso. Al tempo stesso, esaltante è la performance di Joe Comeau. Nothing To Me, piuttosto, nella parte iniziale è caratterizzata da tempi molto più intimisti e meno cadenzati, per poi trasformarsi in una canzone tipicamente hard rock. Peccato che di parti acustiche ci sia solamente l'introduzione di suddetta traccia, ma evidentemente questo album è stato “architettato” per fare parecchia presa soprattutto suonato dal vivo e non ha lasciato praticamente nessuno spazio a ballad e/o canzoni lente. In tutto ciò, l’enfatica Fire Power è influenzata da un sound propriamente heavy. Il background di Jeff Waters è sublime e riflette la sua specifica attitudine “chitarristica” dei suoi preziosi componimenti. A chiudere Waking The Fury ci pensa Cold Blooded (Real Player), che è intimamente dotata della violenza e della velocità proprie dell'opener e ne altrettanto segue lo stile feroce di ovvia scuola thrash. È il colpo finale inferto all’ascoltatore, da non riuscire a rimanere fermi. In conclusione, Waking The Fury è un album, senza dubbio, ben più che interessante: non “prende” subito come i suoi nobili predecessori, ma dopo qualche ascolto non se ne potrà fare più a meno! Impetuoso e moderno, la giusta evoluzione della band ed in questo senso pare che l'ispirazione per Jeff Waters non abbia mai fine. Head – Bang assicurato.

Meno tre… la Rosa Rossa continua a crescere intensamente…

 
 
 

Post N° 71

Post n°71 pubblicato il 02 Novembre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

HIGH ON FIRE: BLESSED BLACK WINGS (2005)

Urla di dolore e di esaltazione. L’oscurità della notte, la cortina di fumo delle esplosioni. La battaglia è al culmine, è quel momento di stallo in cui la sorte sta per essere segnata. In un attimo, sarà vittoria o disfatta. Intanto, si danza attorno all’orlo del precipizio. La sfida per qualsiasi metal band o, meglio, per quelle metal band che non desiderano pascersi nei più tristi luoghi comuni, consiste sostanzialmente nel far coesistere modalità espressive aggressive e sintetiche per natura e velleità comunicative potenzialmente profonde senza ricorrere a soluzioni di maniera. In questo senso gli High On Fire sembrano aver trovato una formula miracolosa, che li rende capaci di fare un tutt'uno coerente di suggestioni epiche e cavalcate oniriche, doom e thrash, Venom e Slayer, riuscendo là dove in tanti falliscono. Blessed Black Wings è un album scuro ed implacabile, strepitosamente evocativo, difficile, scontroso, nichilista. Ridotte all'osso le reiterazioni proprie del doom ancora presenti nel precedente Surrounded By Thieves (2002), la band di Matt Pike (già mente degli Sleep, autori del mastodontico Jerusalem del 1999) sembra aver trovato la chiave di volta del proprio suono in quelle frequenti accelerazioni che rendono Blessed Black Wings tanto spigoloso. Psichedelia plumbea ed massiva in odore di Black Sabbath da un lato e inarrestabile aggressività dall'altro; quello che sembra essere un distillato perfetto di un modo tradizionale eppure personale di intendere il metal trova un'incarnazione concreta e sorprendentemente efficace nel nuovo lavoro degli High On Fire. Non è scomparsa l'inclinazione mistica già presente nei lavori degli Sleep e comune a tutti i progetti che vedono coinvolto Matt Pike; si è piuttosto ibridata con le strutture compatte ed impetuose di Blessed Black Wings, che accantona buona parte delle tendenze riflessive e reiterate in favore di un approccio più incisivo, sistematicamente violento, quasi ad incarnare quella trascendenza propria della battaglia che, in definitiva, rimane uno degli aspetti più complessi ed affascinanti del corollario concettuale da sempre associato al metallo nudo e crudo. Le vocals, poi, non fanno altro che accentuare questa sensazione di accerchiamento e rassegnazione di fronte ad una creatura troppo grande per poter essere domata, regalando momenti di pura estasi di fronte della svalutazione della realtà con cui vengono lacerate le proprie corde vocali e mandati a quel paese tutti i propositi del buon canto. La produzione poi, a cura di Steve Albini, è di quelle col botto: talmente rumorosa e deragliante che vi ritroverete ad abbassare continuamente il volume del vostro fidato stereo, tanto è il fragore che uscirà dalle sue casse. Farà parlare di se per molto tempo, questo Blessed Black Wings, che concretizza al meglio il ritorno nel nero crepuscolo degli High On Fire.

L’apertura è quella di un drum-beat tribale che evoca il finale di Surrounded by Thieves (2002). Poi Matt Pike fa il suo ingresso in scena con un riff violentissimo che trasforma immediatamente Devilution (click) nel primo, annientante atto di Blessed Black Wings. Una cavalcata annichilente e inarrestabile: semplicemente fenomenale. Retorico, dilungarsi.

Il desiderio di suonare nel modo più stritolante e sporco possibile rimane, invece, immutato anzi, probabilmente, si delinea ancora più accresciuto, come risulta chiaro dal secondo possente brano, The Face Of Oblivion (click), in cui su un sinistro impianto doom, quasi alla Mastodon, si inseriscono ampie fioriture acustiche e il modo di cantare di Matt Pike svela una varietà e un senso della “melodia” mai udito prima d’ora. The Face Of Oblivion, più lenta e ragionata, caratterizzata dal suo riffing ossessivo, intervallato da arpeggi e stacchi di batteria azzeccati. In altre occasioni gli High On Fire costruiscono “mantra” metallici basati su chitarre serrate ma libere di vibrare e cymbals assoluti protagonisti che ripetono pattern crushing; le fila di questo tessuto magmatico sprigionano una melodia primitiva che tiene assieme in maniera molto flebile tutta la massiccia architettura. Altro episodio, medesimo risultato: Brother In The Wind, un altra bordata heavy. Riff iniziale che strizza l’occhio a sonorità sfacciatamente alla Motörhead, repentini intervalli di chitarra e batteria, e la voce angosciante del cantante a formare una nenia che sembra provenire direttamente dagli inferi. Cometh Down Hessian, piuttosto, di seguito a un ostile intro di chitarra, detona in una rozza combinazione tribale, rivelandosi uno dei pezzi più coinvolgenti e ruvidi, ma anche meno complessi del disco. Tuttavia, il suono riesce ad amplificarsi senza sosta, divenendo illimitatamente massiccio nella title-track, Blessed Black Wings, dalla trama ipnotica, dove Matt Pike canta ancora una volta alla maniera strascinata del miglior Lemmy Kilminster, che tesse otto minuti di immense sonorità, seguiti da una parte ancora più veloce e aggressiva che fa completamente a pezzi il brano. Lenta ma cattiva, cerebrale ma prepotente nel suo incedere, la title track riprende esattamente da dove c’eravamo fermati con The Face Of Oblivion. Anche la marcia Annointing Of Seer è introdotta da un riff che si ripeterà per tutto lo scorrere dei cinque minuti della durata della canzone e, naturalmente, anche qui, soliti temi caratteristici di tutto l’ album, ovvero un grandissimo lavoro dietro le pelli di Des Kensel, la voce di Matt Pike che graffia i timpani dell’ascoltatore e stacchi di chitarra straordinari. Il finale è così affidato al trittico To Cross The Bridge, Silver Back, Sons Of Thunder: apocalisse e redenzione. La prima traccia del lotto, To Cross The Bridge, è la descrizione di un’animata battaglia fantastica in cui la band dà prova di poter suonare con ogni possibile variazione di tempo, mentre Silver Back devono qualche credito a Tom Araya e soci, in particolar modo, ricorda War ensemble. Il che è tutto dire. Le canzoni filano via nella loro spasmodica velocità deturpando il muro del suono più volte. Impossibile non darsi ad un frenetico head-banging ascoltando questi due pezzi che risulteranno poi, a giochi fatti, gli episodi più distruttivi dell’album. Il definitivo cameo è affidato a Sons Of Thunder, titolo alla Manowar per una canzone veramente fuori dalle righe, che rafforza la sensazione di solida efficacia di tutta l’opera attraverso un potente brano strumentale aperto da due minuti acustici, fluttuanti e cristallini, rifiniti dal fedele tocco ritmico di Des Kensel. Per quasi tutta la durata, il brano è un irto crescendo di tamburi roboanti e chitarre straripanti, salvo poi lasciare spazio ad un arpeggio che sbuca dal nulla fermando l'aria in una istantanea dai colori grigi. Blessed Black Wings si chiude sospeso, pesante come la bruma, lasciando che le note si depositino lentamente sulla terra e vi affondino. È lì che tutto ha avuto inizio. Intanto, sull’orlo del precipizio, gli High On Fire danzano benissimo.

Meno quattro... la Rosa Rossa risplende magicamente di vivida luce propria...

 
 
 

Post N° 70

Post n°70 pubblicato il 31 Ottobre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

PRODIGY: THE DIRTCHAMBER SESSIONS VOL. 1 (1999)

<< I’ve decided to take my work back underground >>… a buon intenditor poche parole. L'origine del disco, un trip denso di suoni e (r)umori, risale ad un "megamix" di un'ora, mandato in onda nell'ottobre 1998 dall'inglese Radio One durante il Breezeblock show di Mary-Anne Hobbs, ed a differenza di quanto trasmesso durante il programma radiofonico, mancano, infatti, alcuni minuti a causa di problemi legati al copyright dei brani (Beatles vs. Prodigy quel brano non si tocca). Un disco che incuriosisce, che spesso stupisce, con un'ottima veste grafica e che coinvolge fino in fondo. No, non è un cd nuovo dei Prodigy, per i fans del genere però è un'occasione assai ghiotta. All’interno giace il delirio e la delizia di qualsiasi superappassionato di musica: di che cosa si tratta? Se ipoteticamente potessimo fare un salto indietro nel tempo agli inizi degli anni Ottanta, Liam Howlett (considerato da me medesimo alla stregua di un Dio), oggi il leader nonché la mente del gruppo inglese dei Prodigy, era un dj dell’Essex che suonava i suoi dischi in una band hip-hop chiamata Cut To Kill. Una passione lontana, un primo amore per la musica e per la miscelazione che Liam Howlett ha coltivato in tutti questi anni e che ora, forte del successo avuto con i Prodigy, ha deciso di rispolverare. The Dirtchamber Sessions Vol. 1 è proprio una compilation di brani, come se fosse una di quelle cassette di una volta, realizzate in casa con un mixer all’interno delle quali il dj di turno andava a miscelare le canzoni più forti del momento, quelle più ballabili. Otto brani e cinquanta minuti che racchiudono il mondo musicale di Liam Howlett e degli stessi Prodigy, praticamente, un frenetico viaggio a cavallo di tutti i dischi e le sonorità che hanno segnato la sua personale crescita creativa, e di conseguenza del suo gruppo. Insomma è come se potessimo sbirciare nella collezione privata di Liam.

Track 1 [7:18]:

PRODIGY - Intro beats

RASMUS - Tonto's release

HARDNOISE – Untitled

CHEMICAL BROTHERS - Chemical beats

ULTRAMAGNETIC MC'S - Kool Keith housing things

LIGHTNING ROD featuring JALAL – Sport

ULTRAMAGNETIC MC'S - Give the drummer some

TIME ZONE – Wildstyle

Track 2 [6:44]:

BOMB THE BASS - Bug powder dust

GRANDMASTER FLASH & THE FURIOUS FIVE - Pump me up

THE CHARLATANS - How high

PRODIGY – Poison

JANE'S ADDICTION - Been caught stealing

TIM DOG featuring KRS ONE - I get wrecked

Track 3 [6:03]:

BABE RUTH - The Mexican

THE B-BOYS - Rock the house

CHEMICAL BROTHERS - Best part of breaking up

WORD OF MOUTH - King Kut

Track 4 [7:52]:

DJ MINK-  Hey can you relate

KLF What - Time is love

FRANKIE BONES - Funky acid marossa

FRANKIE BONES - Shafted off

FRANKIE BONES - And the break goes again

MEAT BEAT MANIFESTO - Radio Babylon

HERBIE HANCOCK – Rokit

MARK THE 45 KING 900 – Number

PROPELLERHEADS - Spybreak!

BEASTIE BOYS - It's the new style

Track 5 [4:57]:

SEX PISTOLS - New York

FATBOY SLIM - Punk to funk

MEDICINE - I'm sick

Track 6 [5:48]:

D.S.T. - The Home of hip-hop

JVC FORCE - Strong Island

PRIMAL SCREAM – Kowalski

BEASTIE BOYS - Time to get ill

BARRY WHITE - I'm gonna love you a little more baby

PUBLIC ENEMY - Public Enemy No 1

JB's - Blow your head

T-LA-ROCK - Breakin' bells

Track 7 [3:59]:

LL COOL J - Get down

DIGITAL UNDERGROUND - Humpty dance

UPTOWN - Dope on plastic

COLD CUT - Beats and pieces

Track 8 [8:40]:

LONDON FUNK ALL-STARS - Sure shot

WEST STREET MOB - Breakdance electric boogie

HIJACK - Doomsday of rap

RENEGADE SOUNDWAVE - Ozone breakdown

THE BEGINNING OF THE END - Funky Nassau

THE JIMMY CASTOR BUNCH - It's just begun

Diremmo di più. Con questo dj - set riusciamo a capire più chiaramente quello che Liam Howlett intendeva anni fa, quando, in concomitanza con l’uscita del loro The Fat Of The Land (1997), reclamava la sua non appartenenza alla scena dance. Lo si comprende meglio, proprio perché in questa ideale session sono pochissimi gli accenni alla techno e all’acid house (che comunque è parte integrante del patchwork sonoro di Prodigy), mentre è un puzzle di suoni abilmente composto e combinato che ripercorre una varietà di generi musicali che vanno dal rock della west coast, al punk, dal rap old-skool all’hip hop, dall’acid house fino al big beat e la indie dance. Con un occhio di riguardo per tutto ciò che suona sporco e un modo di accatastare dischi e hit che è schizofrenia degna di un "firestarter" illuminato. Più di cinquanta tracce fuse assieme alla maniera dei vecchi guerrieri del Bronx attraverso peripezie cutting, scratching e crossfading che tributano un sentito omaggio e riconoscimento a supremi maestri del giradischi. Un’esperienza trans-temporale nella memoria vinilica specificatamente disegnata per giovani che, come il Liam Howlett, di allora stanno scoprendo l'energia ri-ciclica della old-new school. Non una semplice scelta di canzoni, ma il tentativo di restituire quel feeling di euforica sperimentazione e frenesia cut'n'mix che si respirava nel periodo a cavallo tra i '70 e gli '80 manipolando in studio un campionatore, due giradischi e un DAT per ri-creare qualcosa di nuovo e differente dall'originale come nel vero spirito dell'hip-hop. E davvero sembra di ascoltare i megamix “brutti sporchi e cattivi” che all'epoca erano serviti dai dj più virtuosi direttamente su rarissime lacche auto-prodotte. Come ha detto lo stesso Liam Howlett: << Questo mix-up-tape non è per i night-clubber ma per tutti i b-boys e b-girls che ancora non conoscono le vere radici dell'hip-hop >>. Di compilation è intasato il mercato, soprattutto quello dance. Ogni etichetta pensa una raccolta per creare vetrine discografiche in cui esporre i propri "cavalli di razza". La conseguenza? La maggior parte delle volte ci si trova a dover/poter comprare compilation in cui l’unico pretesto, per l’etichetta, è quello di racimolare soldi in royalties. Che fare allora? Stare lontano dalle raccolte. Monito da metallaro. Se faceste così con The Dirtchamber Sessions Vol. 1 fareste un errore madornale. Già perché questo disco è una bomba ad orologeria pronta ad esplodervi in faccia. Un'opera estremamente accattivante tanto per coloro, me compreso, che seguono da sempre i Prodigy, che per chi ama seguire gli sviluppi delle sonorità del terzo millennio.

Meno cinque… la sindrome di Stendhal, il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell'arte, miete l’ennesima vittima: il Necrofilo, letteralmente assuefatto alla nuova e sanguinante Rosa Rossa, sbocciata soltanto quattro giorni fa nel bel mezzo degli Oscuri Reami…

 
 
 

Post N° 69

Post n°69 pubblicato il 10 Ottobre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

DREAM EVIL: EVILIZED (2003)

Prima di tutto, scusate il ritardo. La settimana è stata pienissima di impegni: l’esame di Relazioni Internazionali & Studi Strategici, il mio ventunesimo compleanno, il corso di informatica, i tanti colloqui con professori vari, il torneo di calcetto e chi più ne ha, più ne metta. Finalmente, arrivato al venerdì, termine ultimo di una “cinque – giorni” vissuta intensamente, posso dedicarmi ai “miei” Dream Evil, malvagi… ma non troppo. Dunque, Evilized: secondo capitolo, dopo il debut album Dragon Slayer (2002). La giovane band conferma in tale lavoro, ottimo esempio di Heavy Metal classico suonato con verve e convinzione, la stratosferica line-up del disco precedente e precisamente; alla chitarra il talentuoso chitarrista greco Gus G. (Mystic Prophecy, Firewind); dietro le pelli, lo straordinario Snowy Shaw (ex King Diamond, Mercyful Fate); alle tastiere e seconda chitarra Fredrik Nordstöm (si è anche occupato della produzione: per chi non lo conoscesse è il proprietario del prestigioso Studio Fredman, ed ha prodotto tra le altre, bands del calibro di Dimmu Borgir, Hammerfall, In Flames, Arch Enemy); alla voce Niklas Isfeldt, backing vocals per gli Hammerfall e Peter Stålfors al basso. Non un’ accozzaglia di pivellini quindi, piuttosto personaggi di una certa levatura nell’ambito metallico. Musicisti di questo calibro non possono di certo sfornare un disco deforme ed, infatti, Evilized pur non esprimendo particolari novità nell'ambito del melodic power metal, è un album davvero riuscito, con un guitar – work molto in primo piano, metallico e tagliente. In questi casi ci si deve aspettare per forza di cose un lavoro egregio, cosa che, a mio parere, Evilized rappresenta a tutti gli effetti. La produzione è potente e nitida, praticamente stratosferica: i maestosi ed orecchiabili refrain, più o meno potenti ed incisivi a seconda delle situazioni, rappresentano la punta di diamante di canzoni pianificate alle perfezione, costruite per catturare l'attenzione anche dei più distratti (leggi Cane_nero, scherzo!), saturati dalla miriade di gruppi similari in circolazione. 4/5 di Svezia ed 1/5 di Grecia: la strana composizione geografica non è che una delle prime caratteristiche che balzano all’occhio leggendo la biografia del quintetto. La seconda è come la band, grazie anche alla presenza al suo interno di musicisti con una notevole esperienza alle spalle (Frederick Nordstöm e Snowy Shaw su tutti), abbia bruciato molte tappe: formatasi nel 1999, al termine del 2005 si trovi già con tre solidi album alle spalle ed un contratto per una label come la Century Media, che per giunta sembra attribuire loro una notevole priorità. Impeccabili, come si addice ad un gruppo con un contratto così importante, produzione ed artwork. Evilized è meno immediato di Dragonslayer, ma ascolto dopo ascolto cresce e questo è un segnale positivo. I Dream Evil fanno bene quello che hanno imparato in anni di milizia metallica. Chitarre aggressive, toni epici, cori coinvolgenti e ritmi serrati, up tempo a go-go, un paio di “raffinate” ballads: nient’altro che il primo “accenno” all’enciclopedia dell'heavy – metal (leggi, The Book Of Heavy Metal, 2004). La deflagrante apertura è affidata a quella marcia in più di Break The Chains (click), che rompe gli indugi, risultando esser quadrata, potente e soprattutto persiste in testa subito, privilegio solo dei grandi pezzi. Tuttavia, Break the chains è la punta di un tellurico tridente, poiché non da meno sono la granitica By My Side e Fight You 'Till The End, dove riecheggiano sintomaticamente i Judas Priest più duri. Brani aggressivi e coinvolgenti sembrerebbero spianare la strada a un mostruoso crescendo. Paradossalmente, è con la title-track (click), Evilized, che i Dream Evil mostrano il loro lato più melodico e lirico in un coriaceo cadenzato che mette in risalto il lavoro ritmico della chitarra e l'ugola diligente del vocalist. La quinta traccia, Invisible, presenta nuovamente un taglio alquanto heavy - grazie al favoloso drumming di Snowy Shaw e ai duetti chitarristici – risultando essere, nel contempo, decisa e piacevole. Devastante, ancora una volta, per i suoni di batteria e di chitarra, il mid-tempo di Bad Dreams, la song che ho apprezzato di più dell'intero album. Si arriva così alla prima stucchevole ballad: Forevermore, che annovera pianoforte e partiture orchestrali. I Dream Evil esprimono qui tutto il loro gusto per la melodia di classe. Se è possibile, procuratevi il testo. Children Of The Night infiamma l’ascoltatore, profumando, mentre, di Scorpions. Davvero niente male. Di tutt'altro spessore le seguenti tracce Live A Lie e Fear The Night: meno scontate e con un songrwriting più articolato, coinvolgente e accattivante. Un cenno ora al momento epico dell'album, costituito dall'undicesima traccia, la simpatica ma sin troppo stereotipata Made Of Metal (il titolo è già tutto un programma), caratterizzata da un refrain ossessivo e corale che è diventato un quanto mai “pacchiano” inno dal vivo. Di chiara ispirazione Manowar, Made of metal con i suoi cori austeri ed il suo incedere guerrafondaio, ha lasciato il segno. Nel bene e nel male. La lenta conclusione è affidata a The End, scritta da Snowy Shaw in persona in un momento di estro musicale, che mette in evidenza la penetrante ed intensa voce di Niklas Isfeldt, proprio come le semplici linee melodiche, efficaci al punto giusto, senza dimenticare un onesto assolo di chitarra. Ciliegina sulla torta. Da assaggiare.

 
 
 

Post N° 68

Post n°68 pubblicato il 03 Ottobre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

MASTODON: LEVIATHAN (2004)

« This is Metal ».

PART III) Che la qualità alla fine risulti sempre premiata e riesca ad avere anche ragione delle logiche, a volte distorte, del music business viene sempre più spesso testimoniato dalle uscite della label statunitense Relapse, capace di sfornare dischi di grande valore, ma allo stesso tempo lontani dalle tentazioni e dai miraggi del mercato. E il fatto che sempre più frequentemente alle band e ai video della sopra citata etichetta siano dedicati più passaggi televisivi credo non debba essere sottovalutato. Avvicinandosi ai Mastodon, invece, si deve subito constatare che Leviathan rappresenta la consacrazione definitiva a livello internazionale di una formazione che, dopo solo un delizioso EP ed uno strabordante album all’attivo, è riuscita a dar vita ad un suono davvero maturo e personale. E’ già passato un anno. Sembra ieri che la grande e grossa balena bianca, raffigurazione letteraria abilmente narrata nelle righe di "Moby Dick" da parte del suo “creatore” Herman Melville (1819-1891), è emersa dalle profonde acque, carica di sventura. Sfondo perfetto per ambientare dieci parabole epiche ed avventurose. I Mastodon, ciò nonostante, hanno osato di più, poiché la balena, incarnazione del male, ha un nome preciso: Leviatano. Un orribile mostro marino, stavolta, appartenente alla tradizione religiosa biblica, descritto nel libro di Giobbe, nonché, adottato dal filosofo Thomas Hobbes (1588-1679), tanto per la mostruosità che per le caratteristiche dell’animale, che il testo biblico enumera. Il Leviatano è il potere più alto che esista; è stato creato in modo tale da non aver paura, anzi incuterla; signoreggia e tiene a freno i superbi; infine, con lui non si possono stringere patti. Queste sono appunto le caratteristiche dello Stato. Tutto ciò si addice perfettamente alla “mastodontica” costruzione sonora espressa in siffatto disco, supremo concept elaborato dal quartetto di Atlanta. L'impressione è quella di trovarsi di fronte ad uno di quei dischi "importanti per la scena", che saranno ricordati come icone di riferimento nella musica a venire. I Mastodon tirano fuori dal cilindro quello che potrebbe essere il post-heavy metal, amalgamando con naturalezza attitudini, idee e suoni provenienti da scenari distanti, creando un blocco di canzoni stupefacenti dall'inizio alla fine e confezionandole con l'abilità di un artigiano minuzioso, che cura ogni dettaglio e non disdegna di mostrare un'esagerata abbondanza di capacità esecutive. Un flusso musicale nuovo, un'onda anomala che sembra volerci travolgere... eppure è così rabbiosa e spumeggiante che non riusciamo a distogliere lo sguardo: vediamo che ha inghiottito la nave dei Neurosis, un antico relitto dei Metallica, la scialuppa dei Voivod, frammenti di heavy metal, thrash, death, hardcore ed una vecchia bottiglia di whisky dei Motörhead. Sembra che si siano presi i resti di un genere alla deriva e se ne siano usati i pezzi per costruire una nuova ammiraglia indistruttibile. Il capitano Ahab di questa spedizione alla caccia della balena bianca - l'innovazione? - potrebbe essere il riffing inarrestabile della coppia Hines-Kelliher, se non fosse che spesso al timone c'è addirittura una piovra, Brann Dailor, davvero incredibile alla batteria, ma insomma tutti gli strumentisti coinvolti sono ventimila leghe sopra gran parte della concorrenza. In Leviathan il concetto di metal estremo viene filtrato con grande abilità e gusto attraverso strutture compositive complesse ma non impenetrabili, che con un uso intelligente della tecnica strumentale fanno trasparire emozioni ed atmosfere che non è più così semplice rintracciare nelle uscite di questi ultimi anni. Un disco che non perde il groove dall'inizio alla fine, che gioca a velocità assurde pur piazzando aperture e mid-tempo, non c'è un solo pezzo che non valga la pena di essere ascoltato e non cala nemmeno per un momento la curiosità di sapere "che cosa segue". Una volta finito il viaggio non si aspetterà un attimo per risalire a fianco dell’arpionere Queequeg e vivere nuovamente la stessa affascinante avventura; francamente, di questi tempi, non è una cosa che capita molto spesso. Marginale in questi casi, ma da annotare ugualmente, la veste grafica sopraffina: sembra di avere tra le mani uno stralcio di quella peculiare mitologia partorita dal mistero del mare, con bestie immense, abissi, eroi. I Mastodon sono già salpati verso nuovi orizzonti. Nel corso degli anni il gruppo americano ha raffinato sempre di più la sua proposta dando ordine al violento caos primordiale, smussando gli angoli ed iniettando una dose sempre maggiore di melodia, soprattutto vocale, e sono proprio le partiture vocali e le armonie a segnare il grande distacco dall’approccio precedente. I Mastodon fondono il tutto con una struttura portante prettamente metal, fatta di riffs granitici e squadrati: compiono insomma un’opera non troppo dissimile dalle varie compagini melodic death/hardcore che si stanno risvegliando negli ultimi anni (God Forbid e Shadowsfall), ma di gran lunga più personale e coesa. Non ce n’è per nessuno. Per i Mastodon questo è comunque il momento della consacrazione internazionale, probabilmente della fuoriuscita dal limbo degli emergenti underground, dell'abbandono della nicchia frequentata da pochi cultori per infilarsi nel circuito che conta a livello mediatico.

Fin dall’opener si ha la misura di dove i Mastodon abbiano voluto arrivare con questo disco: al cuore del metal, direttamente al nocciolo, senza dovere né volere strafare per raggiungere l’obiettivo. Si comincia con l'abbondante profusione di sangue e tuoni dell’epica e grandiosa Blood And Thunder (click), che si apre con un riff di chitarra semplicissimo e devastante di Brent Hinds, che viene poi condito dall'entrata in scena della precisissima batteria di Brann Dailor e dalla possente voce del cantante/bassista Troy Sanders, alternando growl a screamed e melodic vocals.

Caratteristica dell'intero album è quella di passare da momenti di devastante metallo ad altri di più ampio respiro. I Am Ahab procede sulla stessa scia, rallentando un po' il ritmo e appesantendo i toni, chiudendo bruscamente come nella traccia precedente. Da segnalare, comunque, l'incedere di I am Ahab, eccezionale lavoro di chitarre che dona dinamismo al tutto. Con l’intro di Seabeast, invece, si evidenzia la passione per i riffs inconsueti dei chitarristi Brent Hines e Bill Kelliher, che trasportano l’ascoltatore in mezzo alle onde fluttuanti dell'oceano, combinando al classico sound “mastodontico” una incredibile vena rock-stoner.

La perizia del gruppo sta proprio nel riuscire ad integrare diverse anime interne alla band, frustando l'ascoltatore a suon di sterzate death/hardcore, prima di rientrare in territori più riflessivi e concedersi digressioni strumentali e ipnotiche. E poi non bisogna dimenticare che Leviathan è stato registrato e mixato a Seattle, e non è un caso (forse lo è) che certi inizi come, per esempio, proprio le prime strofe di Seabest evochino lo spettro di Kurt Cobain, o comunque più in generale del grunge figlio di quella città piovosa e fredda della West Coast. È la batteria, piuttosto, a trovare il miglior modo di esprimersi nella titanica Island. Non sorprende che sia per l’ennesima volta il drummer Brann Dailor ad introdurre Iron Tusk (click), prima che le chitarre irrompano con tutta la loro potenza. In questo pezzo il cantato di Hines si barcamena ancora tra death e hardocre. Iron Tusk, non per altro, recupera le spirali chitarristiche dei dischi precedenti fondendole con armonizzazioni alla Thin Lizzy, Decisa e potente, Iron Tusk è un piccolo gioiello di tre minuti, dove i Mastodon riescono a esprimere tutti loro stessi.

Un inizio tranquillo, scandito da batteria e chitarre introduce Megalodon, diretto pezzo che poi si articola in vari momenti che vanno dal mid-tempo più classico a delle improvvise sfuriate che ricordano i bei vecchi tempi delle veloci accelerazioni thrash della Bay Area (Slayer e Testament fra tutti). A un certo punto, proprio quando il pezzo sembra destinato ad abbracciare sonorità quasi speed, ecco che batteria, basso e voce staccano la spina per pochi, inaspettati secondi, e la chitarra di Brent Hines si lascia andare a un assolo oserei dire blues. I toni sembrano alleggersi di nuovo, mantenendo però quello stato di ansia che aveva dominato le canzoni precedenti ad Iron tusk, con cambi di tempo inattesi e strane sonorità. E' solo un attimo, un improvviso sprazzo di luce che buca la coltre di nuvole, dopo di ché, la bufera torna ad abbattersi sull’ascoltatore, implacabile, una vera tempesta di riffs taglienti e drumming martellanti. La linea melodica c'è sempre, ma al posto di procedere per via retta si concede qualche deviazione. Megalodon è incredibile, per peso specifico, ma soprattutto per la capacità della band di saper plasmare a proprio piacimento la materia musicale estrema, senza barriere né timori di sorta. A seguire una triade di canzoni che sembrano uscite da un film di alta tensione - purché abbia una colonna sonora di buona qualità ovviamente. Uno straordinario assolo introduce Naked Burn, con la voce di Troy Sanders, che sembri voler imitare lo stile degli Alice In Chains. Inutile ribadire che il pezzo è scandito dall’ottimo lavoro di basso e batteria, che dettano i tempi al resto della band. Complessivamente, Naked burn, fin dall'inizio, inquieta l'ascoltatore con una certa vena melodica e un ritmo differente da quello sfrenato di Seabeast - che viene però ripreso nell’annichilente Aqua Dementia, impreziosita dalla presenza della voce di Scott Kelly (Neurosis). Costui influisce pesantemente il brano, rendendolo aggressivo in una maniera che ricorda i suoi Neurosis. Aqua dementia ripropone i deliranti intrecci chitarristici, trademark del gruppo, prima di affondare il colpo con una ripartenza "in your face", che riesce a tessere un ritmo che definire assassino sarebbe riduttivo. Un raro esempio di violenza sonora. Il capolavoro di Leviathan è però la splendida Hearts Alive, dove la tendenza al progressive rock che si era evidenziata negli altri pezzi si manifesta in tutta la sua maestosità: in tredici minuti di sperimentazione sonora ogni strumento dà il meglio di sé. Le chitarre esplodono di creatività e creano dei pezzi di grande valore espressivo e compositivo. Hearts Alive è, insomma, una lunga suite di raffinata eleganza che riprende quella Ol'E Nessie di Remission (2002) e costituisce la prova superba di tutti i membri della band, capace di gettare un ponte tra la concezione metal di oggi e quella originaria dei primi anni '80. A seguito dell’intro strumentale, il ritmo comincia lentamente a farsi sempre più pesante e roccioso, tanto da creare nell’ascoltare quasi una sensazione di tremenda attesa per cosa possa accadere. Il ritmo nei primi minuti si mantiene molto sincopato e per certi versi si discosta dallo stile degli altri, non fosse altro per il cantato di Troy Sanders che, a parte qualche sfuriata tipicamente death, si mantiene molto pulito. I minuti di spaventosa intensità continuano a scorrere via, cavalcata implacabile in un crescendo di potenza drammatica che trova sfogo in un limpido assolo puro stile hard rock, ultimo cameo di un album veramente memorabile. Al termine della canzone, "manifesto" in note del pensiero dei Mastodon, un accordo lasciato in fade-out sfocia nell'ultima traccia di Leviathan: Joseph Merrick, degno epilogo di un disco sopra le aspettative, pezzo strumentale suonato con una chitarra acustica, una chitarra elettrica leggermente "sporca", una batteria che lentamente scandisce il ritmo e qualche effetto di tastiera che rende bene la sensazione del mare placatosi dopo la bufera. Che con questa traccia conclusiva i Mastodon abbiano raggiunto la pace che freneticamente cercavano nei ritmi cangianti delle altre canzoni? Difficile non rimanere abbagliati da cotanta classe, perizia tecnica e raffinatezza compositiva. La dimensione che i Mastodon hanno raggiunto è quello stato di grazia artistica che permette loro di dedicarsi completamente alla musica, senza troppo curarsi di dover soddisfare una certa parte di critica, di fans o di settore musicale che pretende da loro di essere più o meno metal, più o meno hardcore, più o meno portabandiera di qualcosa. Esclusivi.

 
 
 

Post N° 67

Post n°67 pubblicato il 03 Ottobre 2005 da Nekrophiliac
 
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MASTODON: REMISSION (2002)

« This is Metal ».

PART II) Soltanto osservando la bellissima e surreale copertina, realizzata da Paul Romano, si comprende che questo non è un disco normale: un senso di inquietudine assale il cervello attraverso l’immagine, attratto e turbato da un cavallo alato fiammeggiante, sofferente e squarciato a metà, che desidera ancora nitrire, nonostante stia morendo. Un cavallo che sembra esser stato estrapolato da un quadro di Hieronymus Bosch. La copertina di Remission rappresenta perfettamente il divincolìo nervoso ed agitato della musica dei Mastodon. Affezione e distacco, sono questi i sentimenti contrastanti che comunica. A tratti, una furia iconoclasta pervade le canzoni. Si spalancano porte verso l’oscurità, canzoni senza speranza, il metallo più nero e apocalittico che potreste immaginare, realmente trascinante. Difficile trovare una definizione ad una miscela sonora che, come la loro, sembra essere stata creata apposta per disorientare al passare dei brani: sono, infatti, molteplici le influenze che la band statunitense, nel corso degli undici pezzi di tal disco. La base della loro musica è composta da quello che può benissimo essere definito post-core, per il suo insieme inscindibile di ritmiche quadrate e scarne e di sonorità sporche e noisy, il tutto reso solido e squadrato da una buona dose di ritmiche metal. Rispetto all'EP di debutto Lifesblood (2001) questo full-lenght presenta, però, una maggiore raffinatezza sonora, il suono della band è stato reso meno compresso e pesante, senza però perdere quel feeling volutamente sporco ed abrasivo che ne sta alla base: quella pesantezza death metal che prima costituiva componente essenziale dei Mastodon è stata alleggerita e trasformata in una maggiore varietà di soluzioni melodiche, talvolta al limite del gothic con quel suo incedere mesto ed apocalittico, imparentato in qualche modo coi Neurosis più malinconici. Varietà si, perchè Remission appare davvero come un qualcosa di multiforme e cangiante, sempre sull'orlo dell'abisso. La monotonia non fa certo parte di questo favoloso album. L'assalto sonoro dei Mastodon non lascia prigionieri. La traccia d'apertura è affidata all'irrequieta Crusher Destroyer, che parte all'attacco con un riff maligno e deragliante mentre la batteria intreccia partiture dispari e contorte assalendo l'ascoltatore senza la minima intenzione di lasciare tregua. Due minuti di noise, vocals filtrate, un epilettico lavoro dietro le pelli da far invidia anche a grandi nomi, ed un muro sonoro di chitarre distorte, sporche. Niente male come inizio. È la volta poi della malefica March Of The Fire Ants, un blocco di roccia di canzone che inizia proprio come una marcia, per poi sfociare in territori propriamente doom: magnifica l’apertura melodica a metà traccia che perdura per l’intero finale, un ibrido fra accordi classici ed altri di matrice più noise, tipici della band, il tutto supportato dal lavoro di Brann Dailor alla batteria: preciso, chirurgico, non sbaglia un colpo, tra sfuriate di doppia cassa, momenti rilassati ed altri più tecnici, senza dimenticare, però, le mostruose e psicopatiche urla. I Mastodon rapiscono con fierezza.

All'apocalittica ossessività di March Of The Fire Ants è contrapposta Where Strides The Behemoth, la traccia più pesante - a dir poco spaventose chitarre e batteria - dell'intero Remission, un disco caratterizzato da una cura minuziosa per gli innumerevoli e variegatissimi suoni, tre minuti di autentico terremoto! Where Strides The Behemoth, fonde deliziose sonorità thrash ad altre vagamente progressive, chee lasciano subito spazio al capolavoro di Remission, cioè la dinamica Workhorse. Certo, non sarà la traccia dove i Mastodon esprimono tutta la loro proposta musicale, eppure questa canzone ha un riff iniziale (ed un Brann Dailor eccezionale come sempre), che difficilmente si dimentica. Una cantilena infernale. A seguito di un’intro molto “arpeggioso”, tipico neologismo malmstiano, Troy Sanders urla subito quelle poche parole che fanno da cornice a Ol’E Nessie, poche parole che sono una particolarità dell’album. Ol’e Nessie affascina grazie al crescendo melodico e sinuoso, sempre profondamente intriso di mestizia e rassegnazione, probabilmente uno degli episodi dalle migliori costruzioni armoniche dell'intero disco: lunga, lenta e quasi strumentale Ol'E Nessie punta sulle atmosfere folli e schizoidi tipiche di questo difficilmente classificabile "Relapse sound" tanto in voga negli ultimi anni. All’ascolto di Burning Man, invece, si incrociano sonorità più death-core. Seppur nella brevità o nella eccessiva, ma mai stancante, durata delle loro canzoni, il gruppo dimostra di avere un tasso tecnico elevatissimo. In ogni modo, è tutto il disco ad essere imperdibile, così grondante di contraddizioni, schizofreniche divagazioni e scorribande tra generi apparentemente distanti. Uno di quei lavori che ti fa gridare al miracolo e ti permette di asserire a voce alta che il rock non è morto. Basta prendere un brano dove si toccano quasi i sette minuti come Trainwreck, che mette in piedi una toccante introduzione arpeggiata, seguita poi da un chirurgico assolo che rimette le carte in tavola e confonde ulteriormente le idee. Rallenta il ritmo nella sua parte iniziale per poi accelerarlo drasticamente nella seconda. Disomogeneo? Neanche per sogno! La bellezza di questo disco è tutta qui, non c'è una nota in più, non una sbavatura, alla fine l'idea che rimane è quella di aver ascoltato una grezza gemma di pura dinamite, una di quelle scariche di energia dosata in maniera esemplare e mai fine a se stessa. Tanto per rincarare la dose, la successiva Trampled under hoof, con il suo ritmo incessante, conduce inevitabilmente ad un head-banging senza sosta. Ogni singolo brano meriterebbe di essere citato ed analizzato al meglio, perché la carne al fuoco è tanta e sempre di eccellente qualità. Anche Trilobite, proprio come le altre tracce (Trainwreck su tutte), si assesta su di un giusto equilibrio sia la melodia, che gli schizofrenici momenti di puro assalto, mentre con Mother Puncher è facilmente comprensibile il termine “devastante”. A dispetto di fasi strumentali che a volte ricordano certo “root rock” della vecchia America Sudista (la band è originaria di Atlanta, è il caso di ricordarlo), sono forgiate nel fuoco dell’inferno e solo la mitezza della conclusiva e strumentale Elephant Man, la più lunga traccia dell'intero album coi suoi otto minuti (che includono tuttavia una ghost track), riesce a dare pace dopo tanto sferragliare di metallo. Sempre tempi più rilassati, messi insieme ad altri più heavy, impreziositi da un assolo di chitarra finale sognante come non mai. Splendida. Non capita tutti i giorni di ascoltare un disco come Remission: al suo interno c'è il sudore, il sacrificio e la rabbia. E tanta ottima musica. Ben più d’una bella ventata d'aria fresca in un panorama che, per certi versi, stava iniziando a diventare asfittico, ecco giungere l’uragano sonoro che testimonia una gradita riconferma della nascita di una nuova (ferruginosa) stella.

 
 
 

Post N° 66

Post n°66 pubblicato il 03 Ottobre 2005 da Nekrophiliac
 
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MASTODON - LIFESBLOOD (2001)

« This is Metal ».

PART I) Mastodonte, nome dato da Georges Cuvier (1769-1832), padre del Catastrofismo, ad un possibile Mammifero, che assomiglia all’elefante. Signore e Signori, lasciamo la biologia a chi ne compete. Ciò nonostante, la scelta del moniker della band è sintomaticamente perfetta. I Mastodon non sono la classica band sbucata fuori dal nulla. Due quarti di loro facevano parte dei leggendari Lethargy, autori di un sublime post-hardcore iper tecnico ispiratori di molte band del roster Relapse. Dopo lo scioglimento dei Lethargy e la breve esperienza nei Today Is The Day, Brann Dailor (batteria) e Bill Kelliher (chitarra) mettono i loro strumenti in un furgone e si mettono in viaggio verso Atlanta in cerca di fortuna. Lì, durante un concerto degli High On Fire, conoscono Troy Sanders (basso) e Brent Hinds (chitarra). Nel giugno del 2000 registrano un demo di nove tracce e, grazie ad esso, suonano nei locali della zona aprendo per Queens Of The Stone Age, Cannibal Corpse e Morbid Angel. Nomi altisonanti. Le infuocate esibizioni live attirano le attenzioni della Relapse per cui esordiscono con questo EP. La label in questione pubblicizza la band come "A unique, hard-hitting, metallic hybrid". Per farvi un'idea di come possano suonare, immaginatevi di prendere i Lethargy e farli suonare più ordinari, in modo da ottenerne in impatto e potenza. Assoli potenti ed incisivi, stacchi virtuosi, cantato graffiante e sporco ma, soprattutto, una serie di ottime songs costruite con gusto cercando la via tortuosa, più che quella di facile presa. Per chi si aspettava un'altra band come i Lethargy rimarrà effettivamente deluso ma, ogni tanto, oltre che la mascella spalancata è giusto pretendere le orecchie sanguinanti. E i Mastodon sapranno farvi uscire il sangue a dovere. Lifesblood, dalla durata complessiva di poco più di un quarto d’ora, contiene ben cinque canzoni non inquadrabili in un genere ben preciso: denominatore comune sembrano essere la rabbia e il furore che accompagnano le liriche e la musica. I Mastodon mescolano death metal e punk ad elementi rock n' roll, ottenendo un risultato spiazzante. Sarebbe errato bollarli semplicemente come una band death metal, poiché, anche se ad un primo ascolto la batteria, la chitarra e la voce sono tipicamente death metal, ad un ascolto più approfondito è possibile cogliere alcune sottigliezze, come passaggi quasi blues, parti acustiche e variazioni prettamente rock n'roll. Disumane anche le vocals, non gutturali, ma ugualmente impossibili da decifrare persino coi testi alla mano, mentre la produzione calza, letteralmente, a pennello: suoni secchi, definiti, crudi e pulitissimi. La struttura della canzone è quindi piuttosto varia: le parti più lente non fanno perdere efficacia all'insieme, ma anzi mettono maggiormente in luce la potenza e la brutalità della musica. L’opener Shadows That Move e la successiva Welcoming War sono due inni intrisi di rabbia, furore ed energia. We Built This Come Death presenta, invece, un cantato più pulito e più sofferto: a parti più lente, melodiche e sussurrate, quasi blues, si alternano feroci sfuriate di blast beats, praticamente grind. I due estremi finiscono col congiungersi. E’ il pezzo più imponente del lotto. La veloce Hail To Fire e una decisa Battle At Sea, contraddistinta da un cantato growl demoniaco, chiudono l’EP, delineando le premesse per la nascita di una vera band nella scena estrema mondiale. Il futuro appartiene ai Mastodon.

 
 
 

Post N° 65

Post n°65 pubblicato il 28 Settembre 2005 da Nekrophiliac
 
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STILL REMAINS: OF LOVE AND LUNACY (2005)

Una prima riflessione. Il 2005, che si avvia alla conclusione, rimarrà probabilmente negli annali per esser stato l’anno più prolifico per il filone chiamato metal-core. Numerose sono le band che si sono affermate o riaffermate, così come quelle nate in scia al successo che il genere continua a riscuotere. E gli Still Remains si collocano esattamente nel mezzo. Hanno pubblicato un EP lo scorso anno, If Love Was Born To Die (2004), mentre nello scorso maggio hanno rilasciato, accompagnato da una veste grafica tanto affascinante quanto inquietante, Of Love And Lunacy. Si fa fatica a crederlo, eppure tale disco è davvero opera di cinque ragazzi di Detroit, non di Goteborg. Già, perché in nessuno dei dodici brani che compongono il disco è percepibile anche solo lontanamente un minimo di influenza rock. C'è di più: Of Love And Lunacy (2005) è la chiara dimostrazione di come gli Still Remains abbiano seguito con attenzione la scena metal europea, cercando di avvicinarsi quanto più possibile allo stile che la contraddistingue. Il disco, infatti, oltre a sprigionare una carica sconvolgente data da potenti riffs di scuola metal e ad un growl di matrice death, riesce ad unire elementi hardcore e melodie. Senza ombra di dubbio, operazione non facile. Soprattutto per un gruppo inserito nel contesto statunitense, nel quale allontanarsi dallo "standard" è un rischio indicibile. Dietro al nome Still Remains, comunque, ci sono sei giovanissimi ragazzi statunitensi, con le idee chiare in merito al modo di creare la loro musica. Tutto ciò ha portato il gruppo a produrre un buon lavoro, riuscendo a trovare facilmente un contratto con la Roadrunner Records. Parte del merito deve essere attribuito anche al famoso e talentuoso Garth Richardson (in passato con gli immensi Rage Against The Machine), che ha prodotto questo lavoro, conferendo amabilmente un tocco di esperienza e qualità in più ad una band che ha, e spero di non essere il solo a sostenerlo, potenzialità indiscutibili. Il combo è formato da T.J. Miller alla voce, Jordan Whelan e Mike Church (anche back vocals) alle chitarre, A.J. Barrette alla batteria, Evan Willey al basso e Zack Roth alle tastiere. Il livello tecnico è inappuntabile, pur non sfoggiando exploit solistici rilevanti, originali nel riffing senza sconvolgere i canoni di un genere che difficilmente dimentica le proprie origini e si lascia andare a particolari innovazioni. Dodici le tracce mai piatte ove è possibile apprezzare una sapiente gestione delle atmosfere ed un intelligente studio delle metriche, grande velocità alternata a parti potenti e cadenzate per allontanarsi in situazioni melodiche propriamente inerenti al titolo dell'album. L’opener del disco è To Live And Die By Fire: ampie dosi di cantato growl, grossi riffs con aperture metal, un cantato più melodico durante il ritornello, dove si mette in luce anche il sound elettronico delle tastiere. La seconda energica traccia, The Worst Is Yet To Come, incattivisce da subito l'atmosfera brandendo una granitica venatura hardcore durante le strofe e, snodandosi successivamente, tramite un bridge ben cantato, ad un ritornello dalle sonorità più emo-core.

Spazio poi all’emozionante In Place Of Hope, che ha nel giro di chitarra la colonna portante del brano nel quale si interpone riccamente, ma senza tediare, l'accompagnamento della tastiera a conferire atmosfera al brano. Arriviamo così a White Walls (click), il primo singolo estratto da questo album, canzone caratterizzata dalla potenza dei riffs e del cantato, scortati da una sezione ritmica devastante, in particolare nella strofa, dove il doppio pedale della batteria detta legge. Interessante è, sicuramente, anche l'utilizzo della tastiera, che assume le “fattezze sonore” di un vero e proprio pianoforte in alcuni intermezzi. Nel complesso, accattivante. Bliss, invece, è un pezzo distruttivo, violento dall'inizio alla fine, pur modificandosi per intensità durante il corso della canzone; mentre con Cherished la costruzione del brano torna ad essere quella cara alla band, tuttavia, il brano perde un po' di intensità verso la metà. E’ pur sempre il disco d’esordio. In ogni caso, è un interludio di malinconico pianoforte, With What You Have, a sancire la conclusione della prima metà del disco. È il punto di svolta fra una parte iniziale più "muscolare" e veloce, e una seconda con sonorità marcatamente emo, che dà una sterzata netta al tono generale dell'album. Kelsey ne introduce tale siffatta seconda parte, confermando i buoni propositi del disco in questione, vale a dire, potenza delle distorsioni ben accompagnate da una batteria impegnata in continui cambi di ritmo e divagazioni. A seguire, Recovery si imposta come brano intenso e cadenzato, schiudendo nella sezione centrale una lunga parte melodica veramente piacevole, che tende ad inasprirsi successivamente, concludendosi in un finale oscuro. I Can Revive Him With My Own Hands è una canzone potente, impreziosita da piacevole tastiera e nel finale esplodono le urla che conducono direttamente a Stare And Wonder, canzone più lunga del solito, che ha nel ritornello, la parte più interessante e facilmente memorizzabile, quando poi l'ultimo minuto di canzone si rivela essere un outro melodico, sostenuto dal pianoforte. La chiusura del disco è affidata a Blossom The Witch, ultima gemma realizzata per confermare all'ascoltatore il fatto che gli Still Remains non scherzano, il crescendo conclusivo. Cosa aggiungere? Finalmente un gruppo metal-core differente! Degli Still Remains ne sentiremo parlare, perché promossi. A pieni voti.

 
 
 

Post N° 64

Post n°64 pubblicato il 19 Settembre 2005 da Nekrophiliac
 
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DEFTONES: WHITE PONY (2000)

Una due giorni infernale. Il computer mi lascia a piedi. Fuori diluvia. Altro non posso fare che rispolverare qualche vecchio disco. White Pony (2000) dei multirazziali Deftones, per esempio. Cosa pensate che possano suonare un californiano di origine sino-ispaniche, un cinese, un irlandese e un americano? La risposta è subito pronta: cross-over, inteso idealmente come unione di più razze e di più tradizioni musicali. Tra i primi a mescolare i ritmi sincopati del rap alla forza d'urto del metal dell’ultimo decennio del ventesimo secolo, i Deftones virarono verso lidi deserti cavalcando il bianco destriero e partorendo uno dei migliori lavori di un'intera scena musicale. Contaminazione, fusione di generi opposti in un nuovo plurale ibrido, neologismi improbabili occorsi a classificare nel tempo la musica dei Deftones, band rispettata e di riferimento di una scena cui probabilmente non hanno mai fatto parte, se non agli esordi. Il loro genere è un po' particolare, ormai è noto: i ritmi sono lenti, ma, in un modo o nell'altro, riescono sempre a coinvolgere anche chi risulta essere amante di un più "violento" frangente musicale. White Pony, per i suddetti motivi, è un disco “sopra le righe”, anche se, immancabilmente, può sembrare un po' piatto, in alcuni momenti, proprio a causa dell’esasperante e strisciante suono di alcune canzoni. Ciò nonostante, è stata la conferma che tutti aspettavano: i Deftones non sono (e chissà se lo saranno mai) il fenomeno da baraccone che sono diventati i Linkin’ Park o i Limp Bizkit. Il quartetto di Sacramento lasciò, infatti, le scene con Around The Fur (1997), apprezzabile lavoro che ingiustamente aveva guadagnato loro dell’ennesima band che seguiva le orme dei Korn, causa qualche duetto e l'appoggio che il già celebre già celebre aveva loro offerto. I malcapitati Deftones, in realtà, non c'entravano nulla con la "new wave" di gruppi simil - KoRn, piuttosto, avevano scelto il momento sbagliato per lanciare il loro prodotto sul mercato discografico. L’accostamento era d’obbligo per gli addetti ai lavori. In questo contesto, non perdiamo di vista il percorso dei Deftones, che alla vigilia delle registrazioni di tale terzo studio – album, annunciarono l'allargamento a cinque membri della loro line-up, con l'ingresso in pianta stabile del dj Frank Delgado, già collaboratore in passato della band. La notizia inizialmente suonò come una rincorsa patetica all'ultima tendenza: la musica dei Deftones, fino ad allora, non aveva avuto affatto bisogno di nient’altro. White Pony, anche in ciò, si rivela essere singolare, poiché Frank Delgado stesso si rivelerà più che un “domatore” di scratches sia un abile manipolatore di suoni, campionando gli strumenti in modo da catturare quelle sonorità insite nei Deftones sin dai loro esordi e sorgenti dalle loro influenze precedenti. Mossa azzeccata. Tuttavia, se Around The Fur (1997) era libera interpretazione, White Pony (2000) è colmo di suoni duri, psichedelici, organici, addirittura industrial, per sfruttare un termine che sembrerebbe, all’apparenza, essere improprio a recensioni del genere. I Deftones dimostrarono di essere fatti di una pasta diversa e più densa dal resto della solita minestra riscaldata. Chino Moreno, il vocalist, spese molto tempo proprio nella ricerca di melodie efficaci che potessero fare da contrappunto alle atmosfere pesanti del suo gruppo e, certo è che, proprio la sua voce costituisce la reale differenza fra i Deftones e la “volgare” massa. Ogni parola è vissuta al limite dell'isteria, in ogni versante è possibile percepire l'anima di Chino Moreno, specchiarci in lui, emozionarci con lui. L’orecchiabilità non è tradita. Questo disco, tutto sommato, si può giustamente considerare come il completamento di un percorso cominciato con il debuttante Adrenaline (1995), ma al tempo stesso si distanzia parecchio dai predecessori. Capolavoro di suoni e di atmosfere melanconiche e sognanti; graffiante, mai spregiudicato.

Una chitarra nervosa inizia la corsa, aspettando che poi tutto il gruppo la segua. Rumorosamente la canzone esplode, potente come un vulcano in eruzione; le note colano spazzando, bruciando via tutto. << Slegami adesso, hai detto che lo avresti fatto, vero? E avevi ragione (presto ti lascerò andare) presto sarà tutto finito spero presto lei cantava, lei cantava così (presto ti lascerò andare) >>. La calma distorta. Di metà canzone. La voce di Chino Moreno, meravigliosa. Alterna il cantato, calma e schizofrenia a braccetto. E la rabbia. La chitarra domina ancora. Tagliente, distorta, potente corre veloce. Il basso nascosto pulsa note. Ecco Feiticeira. Digital Bath, piuttosto, è una delle due canzoni in cui Chino Moreno suona anche la chitarra. Stavolta la batteria cavalca da sola all’inizio. Conferendo poi il giusto “feeling” al pezzo. Tappeti sonori di chitarra e tastiera incantano, mentre la voce intona manciate di parole. Molto soffusa. Quasi delicata. Bellissimo l’arrangiamento delle chitarre sulle strofe, pulite. << Stasera ho voglia di qualcosa di più. Respiravi poi hai smesso. Respiravo poi ti ho seccato e stasera ho voglia di qualcosa di più >>. Esplode, poi. Adirata sui ritornelli, con le chitarre che disintegrano qualunque pensiero, rilasciandomeli poi, modificati. Sembra gocciolare adesso il suono, ed i sussurri si possono udire dalle più impervie viscere. Improvvisamente, giunge la calma, ma è cosa da poco, riespode, infatti, ancora meravigliosamente, la rabbia, distorta fino alla fine. Terrificanti gli stacchi di batteria, notevoli davvero. In piedi per gli applausi.

Elite, stranamente, è il pezzo che entusiasma meno. La voce canta irregolare. Il pezzo è quasi un treno metal. Un bel riff, comunque, scuote tutta la canzone quasi sempre uguale. Niente di speciale, insomma. Ancora batteria, con alcuni suoni elettronici a dipingerla un po’ strana. La chitarra scalda l’ambiente con un vellutato suono. Ancora la voce, serena. Apertura distorta. E poi ancora calma, apparente, nervosa. Pronta ancora una volta ad aprirsi in sentieri più rumorosi. Rx Queen è aperta dal rullante che, letteralmente, entra in testa, elettronico e oscurato. << Poi voleremo più lontano perché tu sei la mia ragazza e questo va bene. Se tu mi pungi non ci penserò. Ci fermeremo per riposare sulla luna e faremo un falò >>. Carino il finale, con echi distorti di chitarra, feedback taglienti, e la batteria vestita di suono “industrial”. Tanto per cambiare, la seguente Street Carp non si sottrae al rumore, anche se, rispetto a Elite, appare molto più piacevole. Cantata senza distorsione e con più espressività. Quasi una continua strofa rap. Riff di chitarra molto robusto, ai limiti ancora del metal. La batteria ed il basso macinano un bel serrato ritmo. Scorre via, velocemente.

Si passa poi alla “chicca”: Teenager. Una di quelle canzoni che spezzano il ritmo, che cullano ogni ascoltatore. Provocano, sensazioni. Altro non è che un “tappeto” di suoni elettronici creati da Frank Delgado e dai suoi macchinari. Di batteria “decadente”. Una continua scalata prima di inciampare. Rialzandosi ogni volta. Sotto, è come sentire un arpa cantare. Particolareggiata. Con Knife Party il ritmo trafigge come lama appuntita dopo i primi accordi puliti di chitarra. Poi si placa, ed infine annienta tutta la canzone. Dal buio di un feedback poi nasce la voce di Rodleen, una special voice-guest, che strazia. Urla e geme. L’ambiente che viene ricreato è proprio come viene descritto dalle parole di Chino Moreno. Mentre il charleston, rullante e cassa scandiscono il tempo. << Allora va a prendere il tuo coltello va a prendere il tuo coltello ed entra. Va a prendere il tuo coltello. Va a prendere il tuo coltello e sdraiati. Va a prendere il tuo coltello. Va a prendere il tuo coltello e baciami. Oh… potrei fluttuare qui per sempre. In questa stanza non possiamo toccare il pavimento. Qui siamo tutti anemici e dolci… >>. Il finale è geniale. Ancora un grosso riff di chitarra distorto riporta l’ascoltatore sul pianeta. Korea devasta. Di fatti, potente ed urlante vomita rancore. Magnifica. Finalmente è il turno di Passenger, ove l’ospite è Maynard James Keenan (Tool, A Perfect Circle). Non uno qualunque. La canzone è meravigliosa. Senza se e senza ma. Feedback di chitarra lontani. Come sirene. Sospiri nascosti. La chitarra ruggisce. La batteria martella il ritmo, danzando. E poi maestoso il basso e le loro voci che si mischiano in un unico viatico. Quando il suono sembra rallentare, la voce di Maynard James Keenan provoca chiari sintomi di “pelle d’oca”. Tra gocce di note di chitarra che cadono lente. Irrompe una distorsione, melodia e furore. La ricetta dello spettacolo. << Io sono il tuo passeggero ora alzati e mettiti qui. Ti chiedo solo di non accostare e di guidare più velocemente, ti prego. Abbassa i finestrini. Questa aria notturna è curiosa. Lascia che il mondo ci dia un’occhiata a chi importa che cosa vedono stanotte abbassa questi finestrini appannati per prendere fiato ancora e poi vai, vai, vai. Basta che mi porti a casa dove torno di nuovo a stendermi. Non lasciarmi. Vieni a prendermi all’angolo >>. Struggente. Ed è solo il preludio al gran finale, che, degnamente, spetta di diritto alla mia preferita: Change [In The House Of Flies] (click). << Ti ho vista cambiare in una mosca. Ho guardato lontano E tu eri in fiamme. E ho visto un cambiamento in te, è come se tu non avessi mai avuto le ali. Adesso ti senti viva, ti ho vista cambiare, ti ho portata a casa, ti ho messa sul vetro, ti ho tolto le ali e poi ho riso. Ho visto un cambiamento in te. È come se tu non avessi mai avuto le ali >>. Da brividi. Ecco l’altra canzone che vede anche Chino Moreno chitarrista. Stupendi gli accordi distorti che introducono la canzone. L’ambiente è spaventosamente sublime. Il giro di basso depredante. La batteria fila via che è un piacere, soprattutto il charleston impazza. Il cantato è intimo, praticamente una confessione sussurrata. Seguita da grida, potenti sull’inciso, che echeggiano virulente. Sembra che tutto si rilassi, ma, indugiando nervosamente, il canto ritorna bisbigliato tra gli armonici e i flebili accordi di chitarra. Una carezza in un pugno.

Pink Maggit chiude il cerchio. << Ti bloccherò un po’. Abbastanza. Adesso porta via il tuo ossigeno. Io ti incendierò. Perché io sono in fiamme. Ed io sono con te solo. Sono così. Dentro questa puttana. Spiacente. Potrei perderla. Così che mi dimentichi. Perché ti bloccherò >>. Basso, batteria. Energica e rumorosa. La voce di Chino Moreno. Le grida. Incessante la chitarra, milioni di note. Ora che entra il finale. Che si abbassa pian piano. Le luci si spengono con lo stesso arpeggio iniziale. Un vortice avvolgente. White Pony (2000) è da avere. Costi quel che costi.

 
 
 

Post N° 63

Post n°63 pubblicato il 12 Settembre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

ICED EARTH: THE GLORIOUS BURDEN (2003)

Un salto nel recente passato. Ad inizio del 2003 si verifica la scossa dal terremoto più grande della storia degli Iced Earth: Matthew Barlow, una delle più grandi voci in circolazioni, ha deciso di lasciare la band. Il segno indelebile di un tragico e mai dimenticato 11 settembre. Matthew Barlow non se la sente di proseguire una carriera che non potrebbe dare nulla al suo paese e così decide di proseguire gli studi e riprendere il suo impiego governativo. Scelte. Non è mai facile per un gruppo separarsi dal proprio cantante "storico" (o comunque dal carismatico front-man con il quale si è raggiunto un certo successo); vuoi perché a volte i fans proprio non digeriscono la sostituzione o perché la voce è uno dei pilastri sui quali poggia il song-writing della band, rimane il fatto che un cambiamento così evidente rischia di compromettere lo stato di salute del gruppo. In tutto questo, il nuovo album The Glorious Burden era già pronto e registrato con il precedente vocalist, ma Jon Schaffer sostiene di non sentire il cuore di Matthew Barlow in quelle registrazioni, perciò si mette alla ricerca di un potenziale sostituto. In pochi giorni la notizia: Tim “Ripper” Owens diviene, a tutti gli effetti, il nuovo cantante degli Iced Earth. Approfittando della sua fuoriuscita dai Judas Priest, l’abile Jon Schaffer se n’è prima assicurato i servigi per registrare nuovamente The Glorious Burden e successivamente è integrato nella band, non nuova a stravolgimenti di line-up. Infatti, tempo prima, anche il chitarrista Larry Tarnowsky aveva piantato in asso gli Iced Earth, perché voleva più spazio in fase di song-writing ed era stato sostituito da Ralph Santolla. Riepilogando, a tutt’oggi, la mitica formazione degli Iced Earth prevede: Jimmy Mc Donough al basso (tanto per cambiare, un altro “rientrante”), Richard Christy alla batteria, Jon Schaffer e Ralph Santolla alle chitarre e Tim Owens in vesti di cantante. The Glorious Burden è un album scritto e suonato col cuore: celebra gli Stati Uniti D’America, senza mai cadere nella banalità cinematografica tipicamente a stelle e strisce. Il tema centrale sono le guerre combattute dagli Statunitensi: dalla guerra di indipendenza, passando per quella di secessione, sino alla prima guerra mondiale. È Jon Schaffer a mettere in risalto un concetto chiaro come non mai: la guerra è terribile, lascia milioni di morti, ma la storia insegna che, in determinate circostanze storiche, si rivela inevitabile e talvolta persino decisiva per assicurare un futuro migliore ad un triste mondo malato, abitato, per giunta, dall’animale più stupido di sempre. L’uomo. Articolando parole riguardo il lato strettamente musicale ritengo sia necessario l'ormai consueto track-by-track.

The Star-Spangled Banner. Per chi non lo sapesse si tratta dell’inno nazionale degli Stati Uniti. Rivisitato, naturalmente, in chiave chitarristica, con la solista in primissimo piano. Purtroppo, è presente solo nell’edizione limitata ed in quella statunitense, non nell’europea regolare. Sventola una bandiera a stelle e strisce, è ora il momento di Declaration Day. Direttamente collegata alla precedente, di fatti, il finale concluderà il precedente inno nazionale, tratta della dichiarazione d’indipendenza della Stati Uniti del 1776 e della guerra sostenuta per ottenere la libertà.

Spazio ora al singolo estratto: The Reckoning (Don’t Thread On Me): incredibilmente ispirato con un riffing forsennato di tipico stampo “schafferriano” (i primi cinquanta e più secondi) che poi proseguirà grandiosamente in tutto il pezzo, e con delle maestrali vocals tirate di un Tim Owens al vetriolo - una delle rare volte in cui usa la sua voce in stile Judas Priest - ottimo come il drumming del “mostro-sacro” Richard Christy.

Sfortunatamente, anche Greenface è presente solo nell’edizione limitata ed in quella statunitense, davvero un peccato, perché si tratta dell’unica killer-track dell’album (alla Stand Alone, da Something Wicked This Way Comes, 1998). Riesce ad unire un riffing tipicamente heavy-metal con dei tempi terribilmente thrash, violenza allo stato puro. Attila, piuttosto, è una delle poche tracce ambientate fuori dagli States, ma non delude di certo. Nella strofa Tim Owens e Jon Schaffer sono efficacissimi, il chorus è alquanto epico con delle stupende backing vocals nelle quali compare anche il compianto Matthew Barlow. La settima traccia è Red Baron/Blue Max. Ascoltato, per la prima volta, il riffing iniziale rimasi assolutamente attonito: violento e cadenzato, suono moderno, innovativo, poco Iced Earth e, ciò nonostante, spettacolare. Non comprendo ancora quale sia l’apporto di Tim Owens a questo pezzo, ma sicuramente si tratta di una delle sue prove più efficaci. Per quanto riguarda la ritmica è difficile non restare a bocca aperta. Capolavoro. Il tutto condito, nel bel mezzo, da un assolo monumentale e schizoide di Ralph Santolla. L’augurio è che un chitarrista del genere non scappi come gli altri. Nuova ballata emozionale con Hollow Man: testo molto profondo, interpretazione vocale nella norma; mentre, la seguente Valley Forge regala un assolo corposo ed una dignitosa parte solista. Waterloo è il secondo pezzo ambientato al di fuori dagli States, e questa volta non è contenuto nella versione statunitense, ma solo nella limitata e in quella europea. Epico e solenne nel coro e molto ritmato nelle strofe. Fila liscio. La chiusura del primo disco è affidata, come già enunciato in precedenza, a When The Eagle Cries (Unplugged), presente solo nella versione limitata. Niente male.

Sotto con il secondo disco: Gettysburg (1863). Il ritorno della trilogia. In Horror Show (2001) erano state accantonate, ma con The Glorious Burden Jon Schaffer ha voluto fare le cose in grande: la bellezza di trentadue minuti per descrivere i tre storici giorni della battaglia di Gettysburg, con la partecipazione dell’Orchestra Filarmonica di Praga. In prima battuta: The Devil To Pay. La trilogia stessa è introdotta dall’inno degli Stati Uniti, stavolta completamente orchestrale; e quando il pezzo attacca si è introdotti in una dimensione molto rock. Tim Owens è strepitoso dall’inizio alla fine, descrivendo una prima vittoria dei Sudisti, e Jon Schaffer, appassionato di storia, ha lavorato per quattro per poter ricreare l’atmosfera della battaglia, davvero d’effetto l’interludio con canzoni storiche americane. Al secondo posto, Hold At All Costs che sunteggia un singolo avvenimento, cioè, una mossa improvvisa che permette di raggiungere un ragguardevole vantaggio all’esercito dell’Unione. Infine, High Water Mark: l’apice compositivo. Dall’inizio sussurrato, passando per la conversazione tra Lee e Longstreet e concludendo con le due strofe finali: quella dell’attacco dei Sudisti e quella delle recriminazioni del generale Lee, picco interpretativo di Tim Owens. Tirando le somme, un disco del genere non è per niente inferiore ai capisaldi della discografia Iced Earth. È l’ennesima certezza che pur cambiando i fattori stessi, il risultato non ne risente affatto. Immenso.

 
 
 

Post N° 62

Post n°62 pubblicato il 02 Settembre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

TOBIAS SAMMET'S AVANTASIA: THE METAL OPERA PT. II (2002)

Napoli, cielo velato. Come quel giorno di settembre di tre anni fa. Quando la luce dell’ambizioso progetto »Avantasia« dissipò le tenebre. Complice un negoziante che mi lasciava ascoltare qualsiasi cosa gli proponessi - incluse obbligatoriamente le nuove uscite - ebbi fra le mani, e naturalmente in cuffia, il disco che non ti aspetti, o meglio una grossa fiaba, davvero bella nella sua semplicità, raccontata attraverso una sorta di grande musical fantasy. Così si concludeva ad un anno di distanza dall'uscita della prima parte, abilmente partorita dalla mente dell'eclettico Edguy, Tobias Sammet. Un eufemistico progetto solista. E si concludeva con grande classe, la stessa immancabile e cristallina classe che traspariva e trasudava proprio da The Metal Opera (2001). Forse definirla "opera" è un po' troppo, in quanto sono assenti alcuni elementi fondamentali del genere in questione - persino le parti orchestrali sono presenti in maggior numero in un qualsiasi album di symphonic metal - ma di fronte ad un concept di così ampio respiro, supportato da una storia interessante, curato nei minimi dettagli a livello di arrangiamenti e nobilitato dall'interpretazione dei vari personaggi affidata al gotha della musica metal internazionale non potevo che inchinarmi. Il “cast” d’eccezione della prima parte ricompare praticamente al completo, anche perché le registrazioni sono state effettuate praticamente nello stesso periodo, e annovera Michael Kiske e Kai Hansen (Helloween), André Matos (Angra, Shaman), David De Feis (Virgin Steele), Sharon Den Adel (Within Temptation), Oliver Hartmann (At Vance), Timo Tolkki (Stratovarius), Rob Rock (Metallica), Bob Catley (Magnum) ed Eric Singer (Kiss). Di certo non comparse, bensì sublimi interpreti metallici. Per quanto riguarda la formazione della band, guidata dalle potenti linee vocali di Tobias Sammet, questa presenta Henjo Richter alla chitarra, Markus Grosskopf al basso e Alex Holzwarth, batterista dei Rhapsody, alle pelli. Davvero niente male. Un connubio di potenza, melodia, danno vita a dieci potenziali capolavori. Il songwriting è straordinariamente complesso, ciò nonostante l'elemento portante della musica di Tobias Sammet & Co. rimane la melodicità e l'immediatezza dei brani. Dopo il breve e solito intro con tanto di cori e contro-cori, non si parte a raffica con Seven Angels, un mid-tempo assolutamente affascinante. Una strofa fantastica e un ritornello trascinante come pochi sono i punti forti della prima parte di questa canzone. Impossibile non cantare l'attacco delle strofe assieme ad Oliver Hartmann, o ad un sempre straordinario David DeFeis. Ed ovviamente c'è spazio sia per il redivivo Michael Kiske che per il patron del progetto, Tobias Sammet. La seconda parte, invece, dopo un interludio tirato, assume toni pacati, quasi un'altra canzone. In ogni caso, questo istante della canzone esprime a lettere cubitali il concetto di atmosfera teatrale, in cui si inseriscono magnificamente i due "folletti" Kai Hansen e André Matos. Quindici minuti che passano in piacevole fretta e che lasciano poi spazio alla seguente No Return e ai suoi tempi da classica speed-song. Stavolta entra in scena il grandissimo Bob Catley, straripando con The Looking Glass, che beneficia a pieno della sua presenza, e rimane uno dei momenti più belli e riusciti di tutto il disco, così come la seguente e robusta In Quest For. Con The Final Sacrifice si torna su ritmi più tirati e un riffing alquanto aggressivo. Qui a farla da padrone è nuovamente quel David DeFeis, perfettamente a proprio agio con le linee vocali scritte da Tobias Sammet. Costui è riuscito, come un provetto sarto, a cucire un abito perfettamente a misura per ogni suo ospite. Attento a non rovinare la stoffa. Piuttosto, per chi conosce uno degli ultimi lavori targati Edguy, Mandrake (2003), l'attacco di Neverland risulterà senza ombra di dubbio ben più che familiare. E' infatti stranamente identico a quello di All the clowns. Ciò nonostante, a seguito di un po' di ascolti la canzone riesce ugualmente ad entrare in testa, e magari la si può anche canticchiare mentre si passeggia. Anywhere, la traccia seguente, è la classica romantica ballata, unica cantata interamente da Tobias Sammet, che, suo malgrado, è riuscito a ritagliarsi un suo discreto spazio. Anywhere fa però il verso alla splendida Farewell. Non l’eguaglia, ma ne rinverdisce i fasti. Di sicuro. Ennesimo cambio completo di registro, sia dal punto di vista della velocità che della qualità, per Chalice Of Agony (click), una speed-song ma dotata di un coro imponente, per maestosità, pomposità e bellezza. Ritornello che fa il paio con quello di Memory, con un Ralf Zdiarstek scatenato. Un finale col botto, quindi, rasserenato solo un po' dall’outro della conclusiva Into The Unknown dove fa la sua seconda breve apparizione l'ammaliante Sharon Den Adel e la sua sognante voce. In conclusione, Tobias Sammet con il secondo capitolo della fantastica saga è riuscito ad affermare la sua capacità nel creare melodie di un certo tipo e nel curare in maniera sopraffina orchestrazioni e liriche, dando vita ad un disco fresco e originale. Da non perdere.

 
 
 

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