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La generazione del nulla

Post n°31 pubblicato il 05 Ottobre 2007 da p_i_a_n_o
 
Foto di p_i_a_n_o

Dall'introduzione dell'ultimo libro di Umberto Galimberti L´ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani

I giovani, anche se non sempre lo sanno, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un
ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro
sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca
la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui. Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si
interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove
ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano
obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro
capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia,
ma perché promette di seppellire l´angoscia che fa la sua comparsa ogni volta
che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso. Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai raggiunto
quell´analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri sentiment
e soprattutto di chiamarli per nome. E del resto che nome dare a quel nulla che
li pervade e che li affoga? Nel deserto della comunicazione, dove la famiglia
non desta più alcun richiamo e la scuola non suscita alcun interesse, tutte le
parole che invitano all´impegno e allo sguardo volto al futuro affondano in
quell´inarticolato, all´altezza del quale c´è solo il grido, che talvolta
spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la
solitudine della loro segreta depressione, come stato d´animo senza tempo,
governato da quell´ospite inquietante che Nietzsche chiama
"nichilismo" e così definisce: «Nichilismo: manca il fine, manca la
risposta al "perché?". Che cosa significa nichilismo? Che i valori
supremi perdono ogni valore».E perciò le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti più o meno
sincere, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che
vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono intorno a loro come rumore
insensato, in quella stagione dove i nostri giovani passano, dalla primavera in
cui la vita li ha immessi, a quell´inverno dell´anima dove anche il rigore del
gelo si fa sempre meno avvertito.Un po´ di musica sparata nelle orecchie per cancellare tutte le parole, un po´
di droga per anestetizzare il dolore o per provare una qualche emozione, tanta
solitudine tipica di quell´individualismo esasperato, sconosciuto alle
generazioni precedenti, indotto dalla persuasione che, stante l´inaridimento di
tutti i legami affettivi, non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi,
nel deserto dei valori, a quell´unico generatore simbolico di tutti i valori
che nella nostra cultura si chiama denaro.Va da sé che quando il disagio non è del singolo individuo, ma l´individuo è
solo la vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, quando
non di sensi e di legami affettivi, in cui la nostra cultura particolarmente si
distingue, è ovvio che le cure farmacologiche a cui oggi si ricorre fin dalla
prima infanzia o quelle psicoterapiche che curano le sofferenze che originano
nel singolo individuo sono per la gran parte inefficaci. E questo perché se
l´uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso
(Sinngebung), nel deserto dell´insensatezza che l´atmosfera nichilista del
nostro tempo diffonde, il disagio non è più "psicologico", ma
"culturale". E allora è sulla cultura collettiva e non sulla
sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la
causa, ma la conseguenza di un´implosione culturale di cui i giovani,
parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono
le prime vittime.E che dire di una società che non impiega il massimo della sua forza biologica
che i giovani esprimono dai quindici ai trent´anni, progettando, ideando,
generando, se appena si profila loro una meta realistica, una prospettiva
credibile, una speranza che, proprio perché non è una promessa vuota, è in
grado di attivare quella forza che i giovani sentono dentro di sé e poi fanno
implodere, anticipando la delusione per non vedersela di fronte? Non è in
questo prescindere dai giovani il vero segno del tramonto della nostra cultura?
Un segno ben più minaccioso dell´avanzare degli integralismi di altre culture,
dell´efficientismo sfrenato di popoli che si affacciano nella nostra storia e
con la nostra si coniugano, avendo rinunciato a tutti i valori che non si
riducano al valore del denaro.Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci
appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa
perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra
che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in
quella formula ridotta della "ragione strumentale" che garantisce il
progresso tecnico, ma non un ampliamento dell´orizzonte di senso per la
latitanza del pensiero e l´aridità del sentimento. E in effetti, scrive
Heidegger, «l´esito dell´aggirarsi del più inquietante fra tutti gli ospiti è
lo spaesamento come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta,
perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa.
Ciò che occorre è accorgersi di quest´ospite e guardarlo bene in faccia». (...) Vorrei intanto che si facesse piazza pulita di tutti i rimedi escogitati senza
aver intercettato la vera natura del disagio dei nostri giovani che,
nell´atmosfera nichilista che li avvolge, non si interrogano più sul senso
della sofferenza propria o altrui, come l´umanità ha sempre fatto, ma - e
questa, come ci ricorda Günther Anders, è un´enorme differenza - sul
significato stesso della loro esistenza, che non appare loro priva di senso
perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile
perché priva di senso. La negatività che il nichilismo diffonde, infatti, non
investe la sofferenza che, con gradazioni diverse, accompagna ogni esistenza e
intorno a cui si affollano le pratiche d´aiuto, ma più radicalmente la sottile
percezione dell´insensatezza del proprio esistere. E se il rimedio fosse
altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione
giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi
propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per
dirla in greco, del proprio daímon che, quando trova la sua realizzazione,
approda alla felicità, in greco eu-daimonía? In questo caso il nichilismo, nella desertificazione di senso che opera, può
segnalare che a giustificare l´esistenza non è tanto il reperimento di un
senso, sognato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre
effettive capacità, quanto l´arte del vivere (téchne tou bíou) come dicevano i
Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seautón,
conosci te stesso) e nell´esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà
métron).Questo spostamento dalla cultura cristiana a quella greca potrebbe indurre nei
giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa
scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a
quell´espansione della vita a cui per natura tendono la giovinezza e la sua
potenza creativa. Se proprio attraverso il nichilismo i giovani sapessero
operare questo spostamento di prospettiva capace di farli incuriosire di sé,
"l´ospite inquietante" non sarebbe passato invano. Ma perché ciò
possa avvenire è necessario che gli adulti non si consegnino alla rassegnazione
e alla fatalità, ma sappiano accompagnare i giovani alla scoperta della loro
simbolica, che è custodita e secretata nel loro cuore ora silenzioso ora
tumultuoso, della cui forza, forse, li abbiamo privati, spuntando quelle che il
Salmo 127 definisce "frecce": «Come frecce in mano a un eroe sono i
figli della giovinezza».Per riscoprire questa simbolica occorre distanziarsi dallo sguardo sociologico
che punta gli occhi sulla devianza (i drogati, i violenti, gli sfaccendati),
versione scientifica delle ansie genitoriali che si nutrono di timore per il
futuro, senza neppure il sospetto che la devianza forse altro non è che la
frustrazione della simbolica che anima la giovinezza. E anche dallo sguardo
psicologico che considera la giovinezza come un´età di mezzo in cui non si è
più bambini e non si è ancora adulti, e perciò età faticosa, difficile, fonte
di sofferenze e di ansie, età di transito, età inadeguata. Niente di più falso.
La loro età non è un "transito". Il futuro è già ben descritto nel
loro presente giovanile che, se può apparire aberrante, è solo perché noi
adulti, consegnati alla nostra rassegnazione, quando non al cosiddetto
"sano realismo", abbiamo svilito il segreto della giovinezza, che è
quel dispositivo simbolico in cui sono già ben scritte e descritte le figure
del futuro, che solo la nostra pigrizia mentale e affettiva ci impedisce di
cogliere.

 
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