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Riflessione filosofico-poetico-musicale

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Goethe: 'Teoria dei colori' e 'Metamorfosi delle piante'. In compagnia del Nietzsche di Stefan Zweig

Post n°999 pubblicato il 08 Febbraio 2019 da giuliosforza

Post 920

 

Abbandonato  per un poco il Goehte poeta e romanziere, riprendo fra le mani il Goethe “scienziato” (virgoletto per non urtare la suscettibilità degli addetti ai lavori), teorico dei colori nella Farbenlehre e naturalista pre-darwiniano nella Metamorphose der Pflanzen, e ancora una volta mi colpisce la sua attitudine alla ricerca e alla teorizzazione  scientifica, che solo un saccente come Geymonat, lo storico della filosofia e della scienza materialista e marxista, come tutti quelli della sua risma supponente e borioso, e infine dogmatico, può liquidare con affermazioni come queste: la Naturphilosophie (di Goethe, ma non solo)" ha costituito un torbido abbandono alle forze sfrenate della fantasia, che ha prodotto le più ridicole assurdità che mai uomo di scienza moderno abbia udito nel campo di sua competenza”. In realtà noi sappiamo quanto la teoria dei colori di Goethe (non la luce derivare dalle cose, ma le cose dalla luce, detto  in estrema sintesi…) sia stata valorizzata e difesa da colui che molti ritengono il più grande pittore inglese, William Turner, nella sua opera di precursore dell’impressionismo; e la teoria della metamorfosi delle piante, alla ricerca della Urpflanz, la pianta tipo originaria, quasi idea platonica, abbia sotto molti aspetti rappresentato una anticipazione delle concezioni darwiniane. Con buona pace di Geymonat. Io non ho attitudine e interesse (è il mio più grosso limite, ma non me ne cale) per la ricerca empirica, io continuo, come il primo uomo che vide un’alba o un tramonto, a meravigliarmi,  e perciò sospendo prudentemente il giudizio. Ma le ipotesi, con necessaria popperiana cautela uso il termine ipotesi, goethiane, mi affascinano, perché mi par facciano luce, oltretutto  valorizzandola, anche su tutta l’opera poetica e letteraria del Francofortese.

 

*

Salvate ahimé le membra dal tarlo del pensiero.

In questa algida fine di gennaio che gela anche i pensieri (particolarmente feroci quest’anno i giorni della merla) voglio riposarmi pensando pensieri altrui, sorbirmi, per darmi calore, goccia a goccia, il buon vino che Stefan Zweig mi mesce in raffinati calici nel suo Lotta col dèmone : voglio centellinarmi, e centellinare con voi e per voi (può darsi il gioco ricercato non vi dispiaccia), il suo vino goccia a goccia, parola per parola, girandola e rigirandola in bocca, nel desiderio di spremerne fin la più riposta essenza e tradurla sinesteticamente in una sensazione che coinvolga sensi esterni e sensi interni. Ticchetterò senza fretta, affettuosamente, sui tasti del mio computer, quasi così umanizzandoli e con essi dialogando, le parole del testo, pronunciandole nel contempo ad alta voce lentamente, lentamente, finché sapori  odori gusti suoni, tutte le più riposte essenze, non ne siano spremuti per il sensuale godimento di ognuna delle mie cellule recettive. Centellino dunque parola per parola, trattengo il più a lungo possibile ogni sillaba (ogni goccia) in bocca finché ogni sua potenzialità…erotica (che è poi l’esercizio che sono aduso fare con poche gocce di vino dall’epoca, ormai son vent’anni, che ebbi la sciagurata idea di diventare astemio) non sia esaurita. Le pagine che scelgo sono quelle da Zweig dedicate a Nietzsche nei paragrafi Doppio ritratto, Apologia della malattia, Il Don Giovanni della Conoscenza, una ventina di pagine che in tre puntate ci faranno compagnia. Chi non ami il Folle di Röcken, direi soprattutto che non l’ami, non salti queste pagine. Sono certo che un Nietzsche nuovo gli apparirà, reso amabile dalla penna di Stefan, e inizierà se non subito ad amarlo, almeno a guardarlo con curiosità, fino a rimpiangere, poco a poco, d’averlo trascurato o addirittura disprezzato, perdendosi uno dei più grandi Spiriti della Storia. Buona lettura dunque con me, lenta lenta  e ad alta voce, per prolungare il più possibile, fino allo spasimo, il piacere della presenza del Fantasma prediletto accanto a me, accanto a voi, vicino al calduccio del termosifone, in un contatto con Lui quasi carnale.

 

«Immagine patetica dell’eroe

«La menzogna marmorea, la leggenda pittoresca, lo raffigurano così: testa dell’eroe eretta in atto di sfida, alta fronte arcuata. Scavata da cupi pensieri, la ricca onda dei capelli che cade sul rigido collo da ribelle. Uno sguardo di falco lampeggia sotto le sopracciglia folte, ogni muscolo della faccia poderosa è gonfio di volontà, di salute, di forza. I baffi alla Vercingetorige, cadendo maschiamente sulla bocca acerba e il mento aguzzo, mostrano il guerriero barbarico; sotto questa testa di leone, forte e muscolosa, ci s’immagina involontariamente una figura germanica di vichingo con spada vittoriosa, corno e lancia. Così, trasformandolo con violenta esagerazione nel superuomo tedesco, nell’antico prometide dalla forza incatenata, i nostri scultori e pittori amano rappresentare il solitario dello spirito, per renderlo più comprensibile a un’umanità di corta fede, che per tradizione di scuola e di teatro è incapace d’intendere la tragicità se non sia drappeggiata teatralmente. Ma ciò che è veramente tragico non è mai teatrale, e perciò il vero ritratto di Nietzsche è infinitamente meno pittoresco che i busti e i quadri di lui.

   «Ritratto dell’uomo – La povera sala da pranzo d’una pensione da sei franchi, sulle Alpi o sulla Riviera ligure. Pubblico indifferente, per la maggior parte signore anziane che parlano di cose qualunque. La campana ha chiamato a tavola per la terza volta. Entra una figura malcerta, lievemente china, con le spalle curve; ‘cieco per sei settimi’, egli entra sempre un po’ a tentoni nella stanza estranea, come se uscisse da una caverna. L’abito scuro, spazzolato accuratamente; scura la faccia, con i capelli folti, bruni, ondulati; scuri anche gli occhi, dietro le spesse lenti rotonde, da malato. Viene avanti piano, quasi timidamente; c’è intorno alla sua persona un’indicibile assenza di suoni. Si sente l’uomo che vive nell’ombra, fuori dalla socievolezza ciarliera, uno che teme ogni suono, ogni rumore con timore quasi nevrastenico. Saluta li altri ospiti cortesemente, con una cortesia ricercatamente distinta, e quelli rispondono con amabile indifferenza al saluto del professore tedesco. Miope, si accosta con prudenza alla tavola, delicato di stomaco, esamina con prudenza ogni portata, che il tè non sia troppo forte, i cibi non siano troppo conditi, perché qualsiasi infrazione alla dieta irrita le sue viscere sensibili, ogni errore nel nutrimento gli rivolta violentemente per giorni e giorni i nervi vibranti. Al suo posto non un bicchiere di vino, non un bicchiere di birra, niente alcoolici, niente caffè, dopo il pasto né sigari né sigarette, nulla di ciò che allieta, rinfresca o riposa; solo il breve, magro pasto e un piccolo urbano scambio di parole superficiali, a bassa voce, col casuale vicino di tavola, parla come uno che da anni abbia perduto l’abitudine di discorrere e teme che gli si chieda troppo.

   «E di nuovo su, nella stretta povera cameretta, col suo mobilio freddo, il tavolino ingombro di innumerevoli fogli di appunti, di scritti, di bozze di stampa; ma non un fiore, non un gingillo, quasi nemmeno un libro e, raramente, una lettera. Dietro, nell’angolo, un baule pesante e massiccio, tutto ciò che egli possiede, con le due camicie e il secondo vestito, frusto. Altrimenti solo libri e manoscritti. Sopra il tavolino infinite boccette e boccettine e tinture: contro il mal di testa che spesso gli toglie il senno, per ore intere, contro i crampi allo stomaco, contro gli spasmi del vomito, contro l’atonia intestinale, e soprattutto i terribile rimedi contro l’insonnia: il cloralio e il veronal. Un pauroso arsenale di veleni e di droghe; e tuttavia i soli aiuti nella vuota quiete di questa camera estranea, in cui non riposa mai se non nei brevi intervalli di sonno carpiti con mezzi artificiali. Stretto nel cappotto, avvolto in uno scialle di lana – la misera stufa fuma soltanto, e non riscalda – le dita gelate, i doppi occhiali quasi schiacciati sulla carta, la mano scrive freneticamente, per lunghe ore, parole che l’occhio appannato non è poi quasi in grado di decifrare. Per lunghe ore sta seduto così e scrive, finché gli occhi gli bruciano e lacrimano; sono rari, fortunati casi, che uno abbia pietà di lui e gli venga in aiuto, prestandogli per un’ora o due la sua mano come copista. Se il tempo è bello il solitario esce, sempre solo, sempre coi suoi pensieri; per via, mai un saluto, mai un compagno, mai un incontro. Il brutto tempo, che egli odia, la pioggia e la neve che gli fa male agli occhi, lo tengono spietatamente rinchiuso nel carcere della sua stanza: mai egli scende fra gli altri, fra gli uomini. Soltanto la sera un altro paio di biscotti, una tazza di tè leggero; e subito, di nuovo, la lunga interminabile solitudine con i suoi pensieri. Veglia ancora per ore e ore accanto alla lampada che fuma e guizza, senza che i nervi tesi si allentino in una stanchezza soave. Poi un ricorso al cloralio o un altro sonnifero qualunque; e finalmente, costretto a forza, il sonno degli altri uomini, di quelli che non hanno idee, che non sono incalzati dal demone.

   «Talvolta rimane a letto per giornate intere. Vomito e crampi fino a perdere i sensi, dolori assillanti alle tempie, cecità quasi completa. Ma nessuno viene a offrirgli brevemente una mano, a mettergli una compressa sulla fronte ardente, nessuno che venga a leggergli qualche cosa, a chiacchierare, a ridere con lui.

   «E questa camera mobiliata è dappertutto la stessa. Cambia spesso il nome della città, ora è Sorrento, ora Torino o Venezia o Nizza o Marienbad, ma la camera mobiliata resta sempre quella, sempre la stanza d’affitto, estranea, coi suoi vecchi mobili freddi, mal ridotti, il tavolino per lavorare, il letto per soffrire e la solitudine senza fine. In tutti quei lunghi anni di vita errabonda mai un lieto riposo in un ambiente gaio e amico, mai, la notte, un caldo nudo corpo di donna accanto al suo, mai un’aurora di gloria dopo le mille nere notti di lavoro. Oh quanto, quanto è infinitamente più vasta la solitudine di Nietzsche che il pittoresco altipiano di Sils-Maria, dove ora i turisti, fra l’ora di colazione e quella di pranzo, usano andare a cercare la sua sfera spirituale: La sua solitudine si estende sul mondo intero, sull’intera sua vita, da un capo all’altro.

   «Di tanto in tanto un ospite, un estraneo, un visitatore: ma, intorno al nocciolo nostalgico, desideroso di contatto con gli uomini, la crosta si è fatta ormai troppo dura, troppo forte: quando l’estraneo torna a lasciarlo alla sua solitudine, il solitario trae un sospiro di sollievo. In quindici anni la sua socievolezza è andata completamente perduta, il parlare lo stanca, lo esaurisce, lo amareggia: si nutre solo di se stesso, e tuttavia ha fame solo di sé. Qualche volta risplende brevissimo un piccolo raggio di felicità: il suo nome è musica. Una rappresentazione della Carmen in un teatro di terz’ordine di Nizza, un paio di arie in un concerto, un’ora al pianoforte. Ma anche questa felicità diventa troppo violenta, lo ‘commuove fino alle lacrime’. La cosa desiderata è già perduta al punto che si fa sentire come dolore, e gli fa male.

   «Quindici anni dura questo pellegrinaggio infernale di camera mobiliata in camera mobiliata, ignorato, misconosciuto, noto solo a sé solo, questo andare nell’ombra delle grandi città, per stanze male arredate, per pensioni miserabili e luridi vagoni ferroviari e camere da malato, mentre fuori, alla superficie del tempo. La variopinta fiera delle arti e delle scienze si arrochisce a gridare. Solo la fuga di Dostoievski, quasi negli stessi anni, attraverso la stessa povertà, lo stesso oblio, ha questa grigia, fredda luce spettrale. Qui come là, l’opera del titano nasconde la scarna figura del povero Lazzaro, che tutti i giorni muore delle sue miserie e del suo male, e che tutti i giorni il miracolo redentore della volontà creatrice ridesta dal suo abisso. Per quindici anni Nietzsche risorge così dalla bara della sua stanza, e vi si ricala, di dolore in dolore, di morte in morte, di resurrezione in resurrezione, finché il suo cervello, surriscaldato da troppe energie, si incrina. Uomini estranei trovano, caduto sulla strada, colui che fu l’uomo più estraneo al suo tempo. Estranei lo portano su, nella camera straniera di via Carlo Alberto a Torino. Nessuno è testimonio della sua morte spirituale come nessuno fu testimonio della sua vita spirituale. Il più chiaro fra i geni dello spirito precipita nella sua morte ignorato e senza compagnia».

 

Satis sunt mihi pauci, satis est unus, satis est nullus. Questa nota affermazione oraziana, che può apparire boriosa e sprezzante, più volte, a cominciare dal Seneca della lettera a Lucilio, ripresa e tramandata in più versioni con minime variazioni, fu anche il motto principale di Nietzsche. Friedrich fu uno di quelli a cui toccò in sorte la solitudine come sola beatitudine, destino delle anime grandi, tanto grandi, verrebbe voglia di pensare, da occupare tutto lo spazio attorno disponibile, Chi ha, o sceglie la solitudine, con la malattia che sovente la definisce e la colma,  non se ne lagni.

E non se ne lagnò il Nostro, che della solitudine e della malattia fece l’apologia, come vedremo nel post seguente.

 

________________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 
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