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« Ancora di Baudelaire. Co...Efemeridi »

Voyage, Frranciscae meae Laudes, Quand le ciel bas...

Post n°1112 pubblicato il 04 Marzo 2022 da giuliosforza

 

1019

   Altro mantra è la lirica, VIII di Voyage, che potrebbe dirsi, come quella di una vecchia e tetra prassi periodica di talune congregazioni religiose non so se ancora praticata, Atto di preparazione alla morte. Ma qui non si tratta di una descrizione quasi masochisticamente compiaciuta di una agonia in tutti i suoi sconvolgenti particolari, bensì di una invocazione piena di speranza a colei che finalmente ci libererà dalle tenebre di questo mondo e ci introdurrà in una dimensione nella quale si chiarirà il mistero dell’essere. Due svelti tetrastici in cui La Morte si invoca come porta che apre al nuovo (inferno o cielo poco importa) dopo la noiosa tediosa e sovente tragica esperienza del mistero della nascita, del mistero della morte e della non meno misteriosa vicenda che fra nascita e morte si svolge e che dicono vita. Dove non è difficile avvertire un barlume di quella fede alla quale Baudelaire fu educato  e che molte tracce ha lasciato nel profondo della sua anima,

   Ô Mort, vieux capitaine, il est temps ! Levons l'ancre !
   Ce pays nous ennuie, ô Mort ! Appareillons !
   Si le ciel et la mer sont noirs comme de l'encre,
   Nos coeurs que tu connais sont remplis de rayons !

   Verse-nous ton poison pour qu'il nous réconforte !
   Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
   Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu'importe ?
   Au fond de l'Inconnu pour trouver du nouveau !

  

   O Morte, vecchio capitano, è tempo! / Sù l’ancora! Ci tedia questa terra, / O Morte! Verso l’alto, a piene vele! / Se nero come inchiostro è il mare e il cielo, / sono colmi di raggi i nostri cuori, / e tu lo sai! Su, versaci il veleno / perché ci riconforti! E tanto brucia / nel cervello il suo fuoco, che vogliamo / tuffarci nell’abisso -Inferno o Cielo, / cosa importa – discendere l’Ignoto / per trovarvi nel fondo, alfine, il nuovo!

  

   Ed ora un mantra giocoso, tale a me piace intenderlo, in cui, nel metro dei versi dello Stabat Mater dolorosa, B. gioca, in un latino semplice quasi liturgico, a celebrare le lodi della sua Francesca. Che scherzi o faccia sul serio non importa. Ma che scherzi lo fa pensare la scelta del metro di una delle poesie più tristi della liturgia cattolica per esprimere tutt’altro che tristezza, addirittura per cantare le lodi dell’amore suo verso una donna in tono catulliano (più che catulliano trovo quel bellissimo Hauriam oscula de te!) in tutte le sue sfaccettature: Francesca è l’opposto perfetto della Mater dolorosa, e in questa contrapposizione è forse l’elemento se non dissacrante di sicuro ironicamente rilevante. La sua figura s’avvicina molto più alla donna del Cantico che alla Madre distrutta del Calvario. Quello che importa è la gioiosità e la serenità degli ottonari, quella gioiosità e serenità, quello stupore infantile, quella semplicità e nel contempo quella arguzia, insomma quello humour nei suoi molteplici sensi, a cui Charles sa abbandonarsi nei suoi momenti, rari per la verità, di luna buona (per fortuna della sua poesia, se non dell’uomo B.).   

 

   Franciscae meae laudes 

 

   Novis te cantabo chordis,
   O novelletum quod ludis
   In solitudine cordis

   Esto sertis implicata 

   O femina delicata   

   Per quam solvuntur peccata!


   Sicut beneficum Lethe,
   Hauriam oscula de te,
   Quae imbuta es magnete.


   Quum vitiorium tempestas
   Turbabat omnes semitas,
   Apparuisti, Deitas,


   Velut stella salutaris
   In naufragiis amaris…
   Suspendam cor tuis aris!


   Piscina plena virtutis,
   Fons aeternae juventutis,
   Labris vocem redde mutis!


   Quod erat spurcum, cremasti;
   Quod rudius, exaequasti;
   Quod debile, confirmasti.


   In fame mea taberna,
   In nocte mea lucerna,
   Recte me semper guberna.


   Adde nunc vires viribus,
   Dulce balneum suavibus
   Unguentatum odoribus!


   Meos circa lumbos mica,
   O castitatis lorica,
   Aqua tincta seraphica;


   Patera gemmis corusca,
   Panis salsus, mollis esca,
   Divinum vinum, Francisca!

 
   Canterò su nuove corde / te, o novale che risuoni / dentro l’eremo del cuore.

   Di ghirlande tu sia ornata / donna, somma di delizie / che rimetti i mei peccati.

   Come da un salùbre Lete / baci suggerò da te, / trversata di magnete.

   Quando il turbine dei vizi / sconvolgeva ogni sentiero. Deità, tu m’apparisti

   Come stella salutare / Nei naufragii amari / voterò al tuo altare il cuore!

   Vasca piena di virtù / fonte di gioventù eterna / Ridà voce ai labbri muti!

   Quanto sozzo era bruciasti; / quanto grezzo levigasti;quanto fiacco rafforzasti.

   Nella fame, mia taverna, / nella notte mia lucerna, / sempre guidami a via certa.

   Forze a forze unisci ora, / dolce bagno profumato / di piacevoli odori!

   Brinda, ai lombi miei avvinta, / o di castità lorica / in serafica acqua intinta;

   Coppa splendida di gemme, / pan gustoso, cibo molle, / divin vino, mia Francesca!

 

   Nella lirica è anche chiarissimo, in più parti, il richiamo al Veni sancte Spiritus, una delle cinque sequenze della messa di Pentecoste, nel passo ove così si invoca:

   Lava quod est sórdidum,
   riga quod est áridum,
   sana quod est sáucium.

   Flecte quod est rígidum,
   fove quod est frígidum,
   rege quod est dévium

 

   Non saprei dire se qualche altro commentatore si sia avveduto di questi, non so quanto inconsci, richiami, che per me sono evidentissimi, alla liturgia cattolica che Charles deve aver da chierichetto chissà quante volte servito. Come sopra rilevato, è difficile liberarsi delle proprie le radici! Ma perché poi doverle estirpare? Rendono ancor più svettante, ramificata  e frondosa in chi ha la ventura di nutrirsene la pianta della cultura.

  

   E per concludere un mantra che sembra restituirmi alla predominante, cupa atmosfera del Nostro vate (vate in quanto poeta, vale a dire profeta, prima di D’Annunzio egli si sentì e proclamò). Si tratta sicuramente di una delle liriche in cui lo Spleen è talmente predominante da sembrar che nessun altro sentimento o stato d’animo possa trovarvi spazio, e perciò una delle più baudelairiane. Venti versi in cui tutto d’un fiato, quasi il poeta non respirasse, in un unico periodo, nessun punto se non virgole e punti e virgola, si dice della morte della Speranza che, vinta, “…pleure et l’Angoisse atroce, despotique, / Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir”.

   Parrà strano, ma in me questo mantra (78 di Spleen et Idéal) non distrugge la serenità speranzosa comunicatami dai precedenti che se mai per assurdo la rafforzano: essi, i precedenti mantra, mi hanno passato l’arma dell’Arte, alla quale nessuna Angoscia con i suoi vessilli ‘svettanti sul mio cranio’ è in grado di resistere.    

  

   Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle

   Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis,

   Et que de l’horizon embrassant tout le cercle

   Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;

   Quand la terre est changée en un cachot humide, 

   Où l’Espérance, comme une chauve-souris,

   S’en va battant les murs de son aile timide

   Et se cognant la tête à des plafonds pourris;

   Quand la pluie, étalant ses immenses traînées,

   D’une vaste prison imite les barreaux, 

   Et qu’un peuple muet d’infâmes araignées

   Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,

   Des cloches tout à coup sautent avec furie

   Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,

   Ainsi que des esprits errants et sans patrie 

   Qui se mettent à geindre opiniâtrement.

   Et de longs corbillards, sans tambour ni musique,

   Défilent lentement dans mon âme; l’Espoir,

   Vaincu, pleure et l’Angoisse atroce, despotique,

   Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.

 

   Quando come un coperchio il cielo pesa / grave e basso sull’anima gemente / in preda a lunghi affanni, e quando versa / su noi, dell’orizzonte tutto il giro / abbracciando, una luce nera triste / più delle notti; e quando si è mutata / la terra in una cella umida, dove / se ne va su pei muri la Speranza / sbattendo la sua timida ala, come / un pipistrello che la testa picchia / su fradici soffitti; e quando imìta / la pioggia nel mostrare le sue strisce / infinite, le sbarre di una vasta / prigione, e quando un popolo silente / di infami ragni tende le sue reti / in fondo ad i cervelli nostri, a un tratto / furiosamente scattano campane, / lanciando verso il cielo un urlo atroce / come spiriti erranti senza patria, / che si mettano a gemere ostinati. / E lunghi funerali lentamente / senza tamburi sfilano né musica / dentro l’anima: vinta, la Speranza / piange, e l’atroce Angoscia sul mio cranio / pianta, despota, il suo vessillo nero. 

 

Avevo scritto di un periodo con un sol punto. Ora m’accorgo che dopo la penultima quartina un altro punto c’è. Ma è come se non ci fosse, e l’Et lo dimostra chiaramente. Et de longs deve leggersi infatti di filato, dopo aver ripreso un po’ di fiato per l’ultimo respiro, il respiro della morte.

_________________

  

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et        absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

  Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 
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