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Riflessione filosofico-poetico-musicale

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Otello verdiano, Atto quarto. Rilke citato in "Quartett". "la Sonnambula"

Post n°992 pubblicato il 18 Settembre 2018 da giuliosforza

Post 913

Sarà che sono un romanticone impunito e impenitente, ma il quarto atto dell’Otello verdiano, che ho seguito in Rai, non smette di commuovermi fino alle lacrime. E non  tanto per i il dramma in sé, il solito dramma della gelosia e della diabolica perversità jaghesca che da che uomini e donne esistono continua a far vittime in barba ad ogni pretesa di incivilimento dell’umana specie, quanto per l’altissima religiosità che dal canto di Desdemona traspira. Fin da piccolo la “Canzone del salice” e l’”Ave Maria” intonate dalla moritura han rappresentato per me i vertici di quel lirismo, che dirò devoto, verdiano, uno di quei vertici che l’amico Paolo di Nicola, autore di un interessante saggio dall’azzeccato titolo Un credente in maschera, immagino usi per dimostrare la sua tesi, per me ardua, di una presunta, ben mascherata appunto, ortodossia cattolica del Cigno di Busseto. La religiosità è un conto, la religione un altro (una cosa il simbolo altra cosa il dogma, a vicenda a rigor di termini escludentisi), indiscutibile la prima in Verdi, non solo discutibile ma chiaramente secondo me da negarsi, per sua stessa ripetuta esplicita dichiarazione. Ma per la mia emozione queste sofisticherie poco contano. E non conta il fatto che Otello, penultima opera del Maestro, sia dall’ultima, il Falstaff, definitivamente contraddetta con quel conclusivo, beffardamente urlato come un cachinno diabolico, “Tutto nel mondo è burla”, che, esso sì, per me rappresenta la summa della filosofia verdiana. Sarà che i vecchi son troppo facili alle commozioni? Sia. Ma io in vita mia ho pianto molto spesso, da giovane e da uomo maturo; perché dovrei ora, da vecchio, nel tempo dell’indurimento dell’anima e della cute, vietarmi il dolce refrigerio d’una lacrima?.

*

Uno dei poeti di lingua tedesca più ermetici, nel significato stretto del termine, è certamente Rainer Maria Rilke. Eppure è uno dei più citati, dal Diario fiorentino alle Elegie duinesi ai Sonettii ad Orfeo ai Quaderni di Malte Laurids Brigge. L’ho amato per la sublimità della sua ispirazione, l’ho invidiato e odiato per la sua intimità con la trentanovenne, lui venticinquenne, Lou Andreas Salomè, colei (“sorella e sposa”) che ebbe l’animo di negarsi al folle amore di Nietzsche e di prendersene crudelmente gioco, per altro una delle donne più donne e delle femmine più femmine che, passando per salotti ed alcove, compresa quella freudiana, ma soprattutto assorbendo avidamente dal patrimonio culturale dei grandi che frequentava, riuscì ad emergere come uno dei personaggi femminili di maggiore spicco degli ultimi quarant’anni dell’Ottocento e dei primi quaranta del Novecento. Il Nietzsche da lei riconsegnatoci in Nietzsche. Una biografia intellettuale non è forse il più profondo ma di certo è il meno travisato, e per questo le siamo grati. E parimenti si dica del Freud quale emerge dalle sue numerose memorie.

Tornando a Rilke. Nel bel film, scarso dei incassi e di critica positiva ma a me per nulla affatto discaro, dell’allora settantacinquenne Dustin Hoffman, Quartett, colgo al volo una citazione, tratta dalle Lettere ad un giovane poeta (così affini e così diverse  da L’arte poetica. Consigli ad un giovane poeta di Max Jacob) che dice bene di cosa sia la vera arte, di quali profondità si nutra, del mistero che avvolge il vero artista, che nessun critico, con la sua ragione “oggettivante”, come direbbe Gabriel Marcel, potrà mai squarciare: “Le opere d’arte sono di una solitudine infinita. Nulla può raggiungerle meno delle opinioni di un critico”. Che mi ricorda tanto il da me più volte citato Elias Canetti: La critica, la vendetta dell’intelligenza sterile nei confronti dell’arte creativa. La critica  seziona e sminuzza. E per sezionare e sminuzzare ci vuole il cadavere. L’artista che la critica ci restituisce è in realtà la sua carogna; la critica sta alla vera arte e al vero artista come la scienza al buon senso nell’epigramma del Giusti: “Il Buonsenso che fu già caposcuola / Ora in parecchie scuole (ch’io mutavo nella mia memoria in ora in molti cervelli, e mi  par ci stia ancor meglio) è morto affatto. / La scienza sua figliola / L’uccise per veder com’era fatto”.

*

La Sonnambula

Più volte mi è capitato di scrivere che quando ho bisogno di riposarmi per troppo Beethoven e Wagner corro da  Bellini e da Donizetti, i più grandi melodisti della nostra storia operistica che Richard stesso aveva, soprattutto il primo, in grande stima. Oggi mi sono riposato con La Sonnambula, del grande trittico belliniano forse il vertice. La seguo su Rai5 che ne trasmette l’edizione del “Costanzi” del 23 febbraio scorso. Una serie ininterrotta di invenzioni melodiche che mai perdono di spontaneità e di freschezza, dalla prima all’ultima, il canto di Amina ancora non risvegliata dalle parole e dal bacio di Elvino: Ah! Non credea mirarti / Sì presto estinto o fiore…”

Riudire oggi quella trasognata, è proprio il caso di dirlo, melodia risveglia in me un cumulo di ricordi di particolare intensità. Era il 2002, mi trovavo a Catania quale membro di una commissione di concorso a cattedre universitarie (meglio sarebbe dire mercato delle cattedre), una delle pochissime sessioni concorsuali alle quali ho accettato di partecipare negli anni della mia lunga attività accademica. In quel periodo l’Etna era in piena fase eruttiva, e strade e balconi erano ricoperti da un fitto strato di neve nera, la polvere lavica. Ma ciò non mi impedì di pellegrinare alla tomba di Bellini nella cattedrale di Sant’Agata, dove le spoglie del grande e bellissimo (stando ad Heine ma non solo) figlio di Trinacria erano state traslate nel 1876, dopo un quarantennale soggiorno al parigino Pére Lachaise, dove mi pare d’averne visto e venerato il cenotafio, non lontano da quello di Rossini, in una delle mie frequenti visite  a quel vero e proprio sacrario delle Muse. Ed oh sorpresa! Alla base del bel monumento sepolcrale, sulla lastra anteriore, che vedo inciso? Proprio le prime note e le prime parole della melodia di Amina (Ah! Non credea ecc, parole e musica profetiche, come se il musicista l’avesse pensate per sé, destinato a morire, ad appena trentaquattro anni, nel 1835) che dentro di me intonai mentre le lacrime mi premevano dietro le palpebre. Non ci fosse stata tanta ressa di turisti e di devoti, avrei dato la stura alla mia emozione cantandola a mia volta a voce alta con l’eroina del dramma. Uscito dal tempio, percorrendo una stradina della periferia in compagnia di due amici, notai dietro la rete di recinzione di un giardino una canna di bambù stagionato, robusta e dritta come un fuso, che subito destinai a infoltire la mia raccolta di bastoni-ricordo. Riuscii rocambolescamente a impadronirmene e a portarla con me a Roma dove subito mi misi all’opera. Verniciai d’un oro aureolare la verga, e la sua vasta superficie mi consentì di scrivere quanto segue: subito vicino all’impugnatura la melodia in questione, parole e musica, e sulle larghe coste laterali, a mo’ di diario: hanc indicam arundinem ex quodam catinensi viridiano, solis occasu, tenebrarum gratia furatus sum, ante diem III kalendas februarias anno MMDCCLVI a.U..c., Sarracino Francisca consciis ministris. E dall’altro lato, poeticamente fingendomi Vulcano, per immortalare l’evento eruttivo: Efesto fui nel ventre / di Mongibello ove l’arme forgiai / ed i fulmini a Zeus (da piccolo, al ginnasio, ero soprannominato Giove –forse per il mio apprente, perenne corruccio? Come Efesto forgiai dunque i fulmini a me stesso!).

E’ giusto o no che di tutti i miei bastoni, questa verga di indica canna si meriti un posto di privilegio?

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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