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Messaggi di Marzo 2019

Heine, Schwarzreise; Gerardo di Nola, Campanella nuovo Prometeo ecc.. Terapia corale

Post n°1003 pubblicato il 22 Marzo 2019 da giuliosforza

   Post 924

   Sì, è questo il periodo della mia vita forse più importante, quello che si dice dei, per altro inutili, consuntivi e non più dei progetti. Ma sicuramente è il meno luminoso ed esaltante, per non dire il più cupo e disperato. Mi guardo intorno e vedo il mondo, di cui celebrai la grandezza e la bellezza con accenti da invasato,  poco a poco, come in una dissolvenza, attenuare i suoi colori e i suoi suoni; brutto e ridicolo m’appare ciò che predicai bello, soprattutto l’homo erectus, per non dire la mulier erecta, coi loro arti anteriori  penzolanti, altre appendici, come il sesso o il seno, fluttuanti , la pelle glabra ed implume, che  s’affannano a ricoprire surrettiziamente di rivestimenti il cui artificio ne aumenta, anziché diminuirne, il ridicolo. E non riesco a guardare un bambino senza vedere il probabile assassino, il violento, il delinquente, il reietto, il malato, il tormentato, il disperato  che in lui si cela. E mi chiedo se questo è il mondo che il creatore  vidit quod esset bonum, compiacendosene. Decisamente sto vivendo un brutto periodo, e la tentazione di anticiparne in qualche modo la fine non mi è aliena. 

   Eppure eppure…Una fiamma stenta a spegnarsi,  e basta un niente perché riprenda vigore. Si tratta della fiamma dell’Arte, soprattutto della Poesia e della Musica. Le due Muse predilette,  Euterpe e Calliope, continuano a starmi vicino, ad assistere il mio tramonto, a colmare la mia casa ormai vuota di presenze e colma di assenze, a esorcizzare la fatale solitudine che attorno al me esistente si crea nel suo riapprossimarsi all’anonimato, all’impersonalità dell’essere. Oggi è Heine, a riaccendere il mio fuoco. Riprendo il Die Harzreise, e già l’esergo mi ravviva e riscalda. Si tratta della citazione di una parte del discorso pronunciato da Ludwig Börne alle esequie di Jean-Paul : Nichts ist dauernd, als der Wechsel; nichts beständig, als der Tod. Jeder Schlag des Herzens schlägt uns  eine Wunde, und das Leben wäre ein ewiges Verbluten, wenn nicht di Dichtkunst wäre. Sie gewährt uns, was uns die Natur versagt: eine goldene Zeit, die nicht rostet, einen Frühling, der nicht abblüht, wolkenloses Glück und ewige Jugend. Niente è durevole come il mutamento, niente è immutabile quanto la morte. Ogni battito del cuore ci infligge una ferita e vivere sarebbe un eterno morire dissanguati se non esistesse la poesia. Essa ci concede quello che la natura ci nega: un’età dell’oro che non si offusca, una primavera che non sfiorisce, una felicità senza nuvole ed eterna giovinezza. E poi i cinque tetrastici in ottonari, due dei quali furono adattati ad una semplice melodia che facevamo riecheggiare, dopo l’invocazione ad Odino, nella nostre Passeggiate di Natura e Cultura sui monti simbruini sabini marsicani: Auf die Bergen will ich steigen, wo die frommen Hütten stehen, Wo die Brust sich frei erschliesset, Und die freien Lüfte wehen.  Auf die Berge will ich steigen, Wo di dunkeln Tannen ragen, Bäche rauschen, Vögel singen, Und die stolzen Wolken jagen. Sui monti voglio salire, dove son semplici capanne, dove il petto s’apre libero e libere soffiano i venti. Sui monti voglio salire, dove svettano cupi abeti, mormorano ruscelli, uccelli cantano e fiere si rincorrono le nuvole. I monti sabini lucretili simbruini marsicani erano i nostri Meru, i nostri Sinai, i nostri Olimpi, i nostri Ida ove gli dei ci chiamavano a convegno e ci introducevano nei loro arcani, in quell’esoterico che sbaglia soltanto quando tenta a valle di farsi essoterico, di ‘volgarizzarsi’ (Das Esoterische schadet nur, in dem es exoterisch zu werden trachtet - Goethe, Mit Goethe durch das Jahr 2019, März, 18 Montag).

 

*

   Una mia ex alunna sabina, Maria Antonietta Morgagni, mi ha inviato due sue piccole raccolte poetiche (Ti conosco da sempre e La misura dell’amore è “Amore senza”  misura”) richiedendomene una opinione. Io, che per quanto riguarda stile poetico son fermo a rima e ritmo classici (non che non abbia tentato, in gioventù, le forme nuove, sempre più libere, che alla capricciosa Calliope piace assumere, e non abbia partecipato, ma una sola volta, ad un concorso presieduto addirittura da Ungaretti, dal quale uscii regolarmente escluso), sono il meno indicato per esprimere giudizi che non rischino di apparire prevenuti e precritici, ma gli sfoghi lirici di Antonietta non mi sono dispiaciuti, e gliel’ho scritto. Le ho detto di aver gustato le sue ‘semplici’ liriche, semplici al limite del naïf, ma in grado di comunicare una grande serenità alla mia anima turbata. Le ho scritto che nella mia concezione estetica complessa e qua e là contorta, meglio attorta, pensavo non ci potesse essere spazio per la poesia delle piccole cose. per la semplicità di una contemplazione di sé e  del mondo e di Dio abbandonata, come le cose, alla gioia  del guardarsi e dell'accettarsi e, perché no, del godersi come fu del Tutto al suo autoporsi, o essere posto dall'atto creatore, e di uno stile poetico a tali concetti, a tali emozioni, adeguato. Le ho detto di trovare nelle sue semplici effusioni liriche la purezza e la quiete suprema  delle albe e dei tramonti che furono dell'alba della Vita al suo sorgere, "quando gli astri del cielo danzavano in gloria e i figli degli uomini lanciavano grida di allegrezza", la quiete di un'anima che  ha raggiunto la pace con se stessa e col Sé Universo  e tale pace comunica e intorno a sé diffonde. Le ho scritto  che avrebbe potuto intitolare le sue raccolte "Storia di un'anima", perché in esse  ho avvertito lo stesso spirito della 'piccola' Santa di Lisieux, lo stesso afflato amoroso che fa del Dono, in questo caso del dono lirico, l'atto supremo della  Comunione ontologica: ché "Vivre d'amour c'est donner sans mesure / Sans réclamer de salaire ici-bas. / Ah sans compter je donne, étant bien sûre  / Que lorsq'on aime on ne calcule pas .

   E l’ho ringraziata del Dono.

*

Dei tre pilastri (in ordine di tempo Telesio cosentino, Bruno nolano, Campanella stilota, o stilese) regalati dalla Magna Grecia al Rinascimento italiano ed europeo, direi al Rinascimento tout-court, Campanella non può certo dirsi il minore, ma è quello che ancor oggi soffre di più controversa valutazione. Di vent'anni più giovane di Bruno, di una sessantina di Telesio, come Bruno domenicano, poeta pensante e filosofo poetante, amico e confidente di Galileo, passò tutta la vita a tentare di sfuggire alle persecuzioni dei poteri ecclesiastici e civili con mezze abiure e finte pazzie (non perdonategli dai bruniani rigidi -per un certo periodo neanche da me) che se non gli servirono ad aver una vita tranquilla da dedicare all'arte poetica, alla filosofia, alla politica (alla quale partecipò non solo con l'utopistica Città del sole ma con vari altri scritti di diritto e con concrete azioni di sobillazione e rivolta contro il potere aragonese) almeno gli consentirono di sopravvivere a cinque processi, alle relative torture e a 29 anni di carcere durante i quali poté con mille sotterfugi dedicarsi alla sua poesia e alla sua filosofia, i cui caratteri innovativi, soprattutto in poesia, non sono stati ancora tutti adeguatamente approfonditi e valutati, nonostante la geniale, certo la più completa ed innovativa, operazione ermeneutica operata agli inizi del XX secolo da Giovanni Gentile e Giovanni Papini. 
   Ora scopro un volume di un Gerardo di Nola (cognome evocativo), geniale e vivace, almeno per un certo tempo, se leggo bene, prete napoletano, latinista e grecista, teologo e filosofo insigne e insigne poligrafo, dal titolo allettante che la figura e l'opera di Campanella felicemente ed efficacemente riassume: Tommaso Campanella, il nuovo Prometeo, da Poeta-vate-Profeta a Restauratore della politica e del diritto. Libro ormai fuori commercio che solo attraverso la solita meritoria Amazon sono riuscito a scovare e al quale finora ho potuto dare una veloce scorsa, quanto è bastato per capire d'essermi fatto un bel dono in questo inizio di Quaresima. Stavo godendomi su Rai5 la bella edizione dell'Andrea Chénier scaligero diretto da Chailly quando, giunto alla deliziosa serenata di Ernesto, m'è venuto in mente il bel distico ‘barbaro’ campanelliano ” (anche in ciò lo stilota fu un anticipatore) Al novo secolo lingua nuova instrumento rinasca / può nuova progenie il canto novello fare". E mi son chiesto se per caso Andrea Chénier, il giovane poeta vittima della ghigliottina, non li avesse avuti presenti quando egli stesso aveva espresso in alessandrini due concetti perfettamente identici, che bastano a spazzar via tutte le baggianate ritmiche e stilistiche delle false avanguardie: " Allumons nos flambeaux à leurs feux magnifiques /sur des pensers nouveaux faisons des vers antiques".

  

P S.

   Il libro del Di Nola è dedicato a un vescovo. Evidentemente si tratta di un non so quanto riuscito tentativo di recuperare il grande Domenicano all’ortodossia. Ma in questo caso il tentativo è comprensibile e perdonabile, l’operazione è fatta con garbo e non c’è da adontarsene più di tanto. Anche perché è Campanella stesso a prestarsi, forse fin troppo, con le sue forzate e forzose ambiguità (necessarie per salvare pelle e genio) all’operazione.

 

*

   M’è accaduto di condividere su fb un simpatico post di Paola Malgeri (l'ex alunna amica che ha due grandi cuori, uno italiano, l'altro tedesco), l’immagine di una maglietta con su riprodotto un gruppo corale stilizzato e la scritta 'io canto in un coro, non ho bisogno di terapia'; e m’è tornata nostalgia dei tanti cori che nella mia lunga vita, da amatore, ho diretto. Ed ho rirovistato tra il materiale corale che ho raccolto e che occupa più di due scaffali della mia biblioteca. E mi disperavo perché non trovavo una raccolta di canti e cori popolari di tutto il mondo pubblicati dall'editrice belga Lanno e sponsorizzati dalla Jannsen Pharmaceutica. Ci crederete? Era in bella vista sul pianoforte e la giornaliera familiarità me l'aveva reso invisibile. Si tratta di un grosso volume, 32×25, 440 pagine di canzoni e cori popolari di tutto il mondo, dono del grande organista, amico e discepolo d'universita', Marco Lo Muscio; un volume prezioso che da solo vale molti altri della mia biblioteca. Se avrò meritato di rinascere, spero mi sarà consentito di rinascere con la stessa passione: ho intenzione di inserire tutti i 300 brani nel prossimo repertorio...

 

*

Arte e vita. Si può morire d'arte lucidissimi a 109 anni, assistiti dalle Muse di musica poesia e pittura. È successo a Gillo Dorfles, oggi. Invidiabile è dir poco.

________________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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Giornate bruniane. Edgar Morin. Nietzsche e Zweig.

Post n°1002 pubblicato il 11 Marzo 2019 da giuliosforza

 

   Post 923

 Costretto a rinunciare a Nola, non mi sono negato un pomeriggio bruniano a Campo dei Fiori, come da tradizione ormai organizzato dall’‘Ass. Nazionale Libero Pensiero Giordano Bruno’, il cui radicale anticlericalismo m’infastidisce precisamente quanto, se non di più, l’arrabbiato clericalismo: tesi e antitesi che non trovano superamento in una superiore sintesi, aperta a nuovi processi, hegeliana Aufhebung della Conoscenza che paradossalmente imbocca vicoli ciechi, culs de sac dai quali non si esce: evidente aporia che potrebbe mettere in crisi tutto il sistema dialettico dall’interno. Erano con me Alberto Marchetti, anima bella di cantautore la cui poesia e la cui musica son fatte per rasserenare da una parte gli animi inquieti e dall’altra  per fustigare i pigri e gli ignavi, e Fabio con la sua bella moglie ed una soavissima coppia di gemellini che, non fossero battezzati, avrebbero potuto ricevere degnissimo battesimo dall’ Impunito di Nola, finalmente fuor di corruccio, aperto ad un umano sorriso, dall’alto del suo brutto monumento massonico-nathaniano.  Il complesso bandistico dei vigili urbani, assai migliorato nel tempo, ha ben sottolineato i momenti diversi degli interventi, fra i quali all’amico Alberto, non particolarmente bendisposto (forse dirlo  acrimonioso è dir giusto) nei confronti dei pentastellati, sono invece particolarmente piaciute le considerazioni di Gemma Guerrini, delegata alle pari opportunità del Comune di Roma, la cui immagine e le cui parole ha registrato coi suoi possenti mezzi.  «Ricordare Giordano Bruno», così ha esordito la Guerrini secondo il resoconto di Alberto, «è riscoprire un illuminato visionario» che la chiesa nemmeno tentò di comprendere, che anzi temette a tal punto da ricorrere alla mordacchia per impedirgli di parlare lungo il tragitto verso il patibolo, è ricordare colui che «…fu sostanzialmente accusato di aver concepito, contro il dogma imperante di un ordine cosmico immutabile, un universo dinamico dove l’armonia del creato è il risultato di relazioni che dalla terra salgono al cielo e viceversa, collegando tra loro astri pianeti e uomini»… Scegliendo fior da fiore, nel tentativo di presentare un Bruno fuori dagli schemi, la Guerrini sottolineava l’attaccamento del Nolano «all’Italia regione gradita al cielo’, e la sua positiva  opinione sui  ‘costumi gentili e cortesi degli italiani”…, e sulla necessità di reciproche relazioni tra cultura e ambiente, quella stessa richiamata dall’art. 9 della nostra Costituzione… idee  moderne come  rispetto delle differenze, eliminazione dell’oppressione, dovere di solidarietà tra ricchi e poveri… lotta al disprezzo che l’ignoranza nutre verso la dottrina, garanzia di autonomia dell’individuo all’interno dell a società. E così concludeva la Guerrini: «Come presidente della commissione capitolina delle pari opportunità non posso non sottolineare quanto scrisse sul rapporto tra i generi, attuale monito: “torno a scongiurarvi tutti che dismettiate quella rabbia e quell’odio tanto criminale contro il sesso femminile, ritornate a voi, che questo vostro livore non è altro che mania espressa e frenetico furore”…

   Alberto, bontà sua, riferisce nel suo breve rapporto, anche della «presenza del bruniano impenitente, il dotto prof. Giulio Sforza cui mi lega vitale amicizia e infinita ammirazione (la commissaria del comune di Nola ha tenuto a precisare d'aver preparato il suo intervento sui suoi libri)». Il Vegliardo sentitamente ringrazia.

*

Attenti alle parole in libertà.
"Lo storico della lingua e linguista K. Kraus dimostra come sia essenziale un uso estremamente corretto della lingua perché anche solo una virgola potrebbe modificare il mondo, in quanto responsabile della correttezza del messaggio trasmesso". (Sandra Bosco Coletsos, Storia della lingua tedesca, Garzanti 1988, p. 258). Altri direbbe: basta un fiocco di neve a generare una valanga.

*

Su Rai5 una bella edizione dell’Andrea Chénier  di Umberto Giordano curata da Chally. E una

Damnation de Faust (Berlioz) diretta da Gatti  con una regia che dir ripugnante è dir poco

   In Chénier rilevo noto due citazioni, una letteraria ed una musicale. La prima, messa in bocca al poeta sul punto di salire la ghigliottina, è letteraria e riguarda l’ultimo verso di un noto sonetto carducciano. La seconda musicale, il cosiddetto  'Tristan-Akkord’ (fa si re diesis,sol diesis re) del Tristan und Isolde. Riproduco il sonetto, carducciano fino al midollo, da cui la citazione (ultimo verso):

   Passa la nave mia, sola, tra il pianto
De gli alcïon, per l’acqua procellosa;
E la involge e la batte, e mai non posa,
De l’onde il tuon, de i folgori lo schianto.

Volgono al lido, omai perduto, in tanto
Le memorie la faccia lacrimosa;
E vinte le speranze in faticosa
Vista s’abbatton sovra il remo infranto.

Ma dritto su la poppa il genio mio
Guarda il cielo ed il mare, e canta forte
De’ venti e de le antenne al cigolío:

― Voghiam, voghiamo, o disperate scorte,
Al nubiloso porto de l’oblio,
A la scogliera bianca de la morte. ―

 

*

   A Nola si è dunque si son celebrate senza di me le Giornate bruniate, organizzate dalla "Giordano Bruno Associazione nolana", la prima delle quali prevedeva dibattito sul rapporto Bruno-Campanella e, al termine, l’evocativa Cenna delle Ceneri, ricca di gustose portate per il corpo e per lo spirito.  Immagino si sia insistito più sulle differenze che sulle somiglianze, che non furono solo di formazione (tomistica e telesiana insieme) e di veste. Campanella (questi sì, oltre che metafisico poeta ed utopista, uomo indiscutibilmente di prassi, coi suoi cinque processi politico-religiosi ed i suoi 29 anni di carcere) meriterebbe una attenzione a sé, e un approfondimento che aiuterebbe a chiarire anche alcune discusse posizioni bruniane. Oso proporre all'Associazione una giornata solo campanelliana, dedicata sì al suo pensiero metafisico-politico, ma soprattutto alla sua denkende Dichtung, alla sua poesia pensante, che inaugura come e forse più di Bruno l’epoca del pensiero complesso che in sé riassorbe  ogni aspetto del farsi dello Spirito, estetico, filosofico, scientifico, politico, religioso restituendolo  alla sua primigenia unità. *

 

*

   Eidos e/o Praxis? Eidos senza Praxis vuota, Praxis senza Eidos cieca. ATTO gentiliano?
Non tuonò cannone che prima non lampeggiasse un'idea (attribuita  a Napoleone)
E, tanto per alleggerire: non esplose Amore che prima non albeggiasse un'Idea-le platonico vagheggiamento (pseudo Valentino martire, protettore degli innamorati, i dannati al martirio)

 

*  

Attenti alle parole in libertà.
   "Lo storico della lingua e linguista K. Kraus dimostra come sia essenziale un uso estremamente corretto della lingua perché anche solo una virgola potrebbe modificare il mondo, in quanto responsabile della correttezza del messaggio trasmesso". (Sandra Bosco Coletsos, Storia della lingua tedesca, Garzanti 1988, p. 258)

 

*

Sempre in fatto di lingua. Rispetto l'anglismo, disprezzo l'anglicismo. Il primo è cultura, il secondo è sudditanza culturale.

 

 * 

Il novantottenne filosofo e sociologo transdisciplinare, dalle veloci incursioni anche nei campi delle più varie epistemologie, non si dà tregua. Dico del notissimo ebreo francese di origine livornese Edgar Morin. Questa volta l'Editrice Cortina ne pubblica un ennesimo libretto di 127 svelte paginette, a cura di Francesco Bellusci, dal titolo Sull'estetica, che è una piana e semplice esposizione di certi suoi pensieri espressi in otto conferenze fatte in giro per il mondo. In questo caso a mio modesto parere nulla di trascendentale, almeno per gli addetti, ma come opera di divulgazione non c'è male e si passa con vero godimento un'ora in sua compagnia, e come tale la consiglio. Mi son piaciute le varie citazioni, una delle quali riporto qui di seguito, e la conclusione, che chiuderà anche questa breve nota. Da Victor Hugo ("Ave, dea, moriturus te salutat"): 'La Morte e la Bellezza son due cose profonde / che contengono tanto d'azzurro e tanto nero, / che paion due sorelle terribili e feconde / con uno stesso enigma e uno stesso mistero'. E in chiusura: "'Poetry is the first and last of knowledge', la poesia è il primo e l'ultimo dei saperi, diceva Wordsworth. Io direi dei saper vivere. Oggi, razionalizzazione e standardizzazione vogliono prendere il controllo delle nostre vite: per dirla con Cornelius Castoriadis, subiamo l'ascesa dell'insignificanza. Ostacoli profondi si frappongono alla fioritura della poesia della vita. Più siamo dominati dalle forze anonime, più abbiamo bisogno di resistervi. La resistenza necessita di oasi di vita poetica. La poesia è adesione alla bellezza del mondo, della vita, dell'umano, e, allo stesso tempo, resistenza alla crudeltà del mondo, della vita, dell'umano".

 

*

   (Segue dal post 922. Stefan Zweig, La lotta col dèmone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, Frassinelli 1992, pp.163-168)

 

   Apologia della malattia

   ‘Ciò che non mi uccide mi rende più forte’.

 

   «Innumerevoli le grida del corpo martoriato. Un’interminabile tabella di tutte le sue miserie fisiche e, sotto, la somma tremenda: ‘In me la sovrabbondanza dei dolori fu terribile in tutte le età’. E, in effetti, non c’è martirio infernale che manchi in questo pandemonio raccapricciante delle sue malattie: mali di testa martellanti che lo stordiscono, l’abbattono per giorni interi, barcollante, sul sofà e sul letto; crampi allo stomaco con vomito sanguigno, emicranie, febbre, inappetenze, stanchezze, emorroidi, atonie intestinali, tremiti,, sudore notturno: un ciclo atroce Inoltre, quei suoi occhi ‘tre quarti ciechi’. Che al minimo sforzo subito gli si gonfiano e incominciano a lacrimare e non consentono al lavoratore spirituale che ‘un’ora e mezzo di luce al giorno’. Ma Nietzsche disprezza quest’igiene del corpo e lavora dieci ore alla sua scrivania; e il cervello, troppo riscaldato, si vendica di quest’eccesso con dolori di capo da farlo impazzire e con la ribellione dei nervi: sicché quando la sera il corpo è stanco già da tempo, il cervello non si lascia calmare d’un tratto, con un giro di manovella, ma seguita ad agitarsi in visioni e pensieri, finché egli lo stordisce violentemente coi sonniferi. Gliene occorrono dosi sempre più forti; in due mesi consuma cinquanta grammi d’idrato di cloralio per comprarsi questo poco sonno; ma lo stomaco, per parte sua, si rifiuta di pagare un prezzo così alto e si rivolta. E allora -circolo vizioso- nuovi dolori di capo ch’esigono nuovi rimedi, un cozzare implacato, insaziabile, appassionato di tutti gli organi esasperati, che si lanciano l’un l’altro, in un gioco frenetico, il pallone aculeato della sofferenza. Mai un momento di sosta in questi alti e bassi, mai una spanna di contentezza, un breve mese di benessere e di oblio di sé; in vent’anni non si riesce a trovare una dozzina di lettere in cui non erompa un gemito da una qualche riga. Sempre più irose, sempre più furiose diventano le grida sotto l’aculeo dei nervi troppo desti, troppo sensibili e irritati. ‘Ma aiutati, dunque, muori’, grida a se stesso; oppure scrive: ‘Ora una pistola è per me fonte di pensieri relativamente gradevoli’, oppure: ‘Il martirio terribile e quasi incessante mi fa desiderare ardentemente la fine, e da certi segni l’apoplessia liberatrice è vicina’. Da molto tempo non trova più superlativi per esprimere i suoi dolori; diventano quasi monotoni nella loro acutezza, nel rapido ripetersi, quelle grida terribile che non hanno più quasi nulla d’umano e veramente par che giungano agli uomini dal ‘canile’ della sua esistenza. Quand’ecco, nell’Ecce Homo -e la contraddizione enorme fa scattar su spaventati- divampa improvvisa l’affermazione forte, superba, marmorea, che pare smentire tutte quelle grida: ‘In summa summarum’ (negli ultimi quindici anni) sono stato sano’.

   A chi credere? Alle mille grida o alla parola monumentale? All’una e alle altre. Il corpo di Nietzsche fu organicamente sano e resistente, l’ampia volta della sua struttura interiore fu capace di sopportare grandi pesi; le sue radici si sprofondavano ben giù nella terra di sane generazioni di pastori tedeschi. Tutto sommato, come organismo, nei suoi fondamenti fisici e spirituali, Nietzsche fu veramente sano. Solo i nervi sono troppo deboli per l’impeto delle sue sensazioni e sono perciò in stato d’eterna inquietudine e rivolta, che però non è mai riuscita a scuotere il ferreo dominio del suo spirito. Egli stesso trova una volta una espressione felicissima, per questo suo stato tra pericoloso e sicuro, quando parla d’un ‘fuoco di fucileria’ dei suoi dolori. Ché in questa guerra non s’arriva mai a una vera irruzione nei bastioni interni della sua forza: come Gulliver a Brobdignac, egli vive assediato sempre dalla stessa brulicante folla pigmea dei suoi dolori. I suoi nervi sono in eterno allarme, sempre vigile su torri e feritoie, sempre in uno stato di difesa dell’attenzione, che lo sfinisce e lo tormenta. Una malattia vera non riesce a irrompere, a conquistare, a eccezione forse di quell’unica che per vent’anni seguita a scavare il suo cunicolo fin sotto la cittadella del suo spirito e poi la fa saltare d’improvviso: uno spirito monumentale come Nietzsche non è vinto da un fuoco di fucileria, solo un’esplosione può mandare in frantumi il granito d’un tal cervello. Così, di fronte a una enorme capacità di soffrire c’è una capacità enorme di sopportare la sofferenza. Una veemenza eccessiva del sentimento sta di fronte a una eccessiva sensibilità nervosa del sistema motorio. Ché ogni nervo dello stomaco o del cuore o dei sensi  è in Nietzsche un manometro esattissimo, delicato come una filigrana, che risponde a cambiamenti e tensioni minime con escursioni enormi d’eccitazione dolorosa. Come allo spirito, così nulla rimane inconscio al corpo. La minima fibra, che in altri rimarrebbe muta, gli trasmette immediatamente il suo messaggio con una trafittura, e questa ‘sensibilità pazza’ disperde la sua vitalità spontanea e forte, in mille schegge pungenti, taglienti, pericolose. Perciò quelle grida terribili tutte le volte che, al minimo movimento, a ogni passo improvviso della sua vita, tocca uno di questi nervi scoperti e vibranti.

 

   Questa irritante irritabilità quasi demoniaca dei nervi di Nietzsche, che gli fa sentire chiaramente come dolore persino le sfumature più fuggevoli, per altri meno che un barlume assai al di sotto della soglia della coscienza, è la radice unica delle sue sofferenze ed è insieme la protocellula della sua geniale capacità di valutazione. Non occorre nulla di sostanziale, nessun sentimento reale per sferzargli il sangue e provocare una reazione fisiologica: basta l’aria sola coi cambiamenti meteorologici che avvengono d’ora in ora, per procurargli tormenti senza fine. Mai, forse, un intellettuale fu tanto sensibile all’atmosfera: fra il suo polso e l pressione atmosferica, fra i suoi neri e il contenuto dì umidità nell’aria per che vi siano misteriosi contatti elettrici. I suoi nervi registrano immediatamente come dolore dell’organismo ogni metro d’altezza, qualsiasi depressione del barometro, e a ogni rivolta della natura reagiscono con uno scatto di ribellione. Pioggia, cielo scuro, deprimono la sua vitalità –‘il cielo coperto mi deprime profondamente’- l’oppressione di nuvole pesanti gli si fa sentire fin giù nelle viscere, l’inverno è una specie di crampo, d’irrigidimento, di morte. L’ago del barometro dei suoi nervi che oscillano come il tempo ad aprile, trema e non s’acquieta: se mai, forse, in un paesaggio senza nubi, sull’altipiano dell’Engadina quando tacciono i venti. E i suoi organi facili a infiammarsi, come sentono ogni peso e ogni pressione del cielo esteriore, così sono sensibili a ogni peso, a ogni turbamento. A ogni liberazione del cielo interiore dello spirito. Ché appena guizza un pensiero i suoi nervi tesi sono colpiti come da un fulmine: in Nietzsche l’atto del pensare si compie sempre in un tale rapimento estatico, con tali contrazioni elettriche, ch’esso agisce sempre sul corpo come un temporale, e a ogni ‘esplosione del sentimento basta un istante, nel senso letterale della parola, per cambiargli la circolazione del sangue’. In questo vitalissimo tra i pensatori corpo e spirito sono legati così strettamente con i fenomeni dell’atmosfera, ch’egli sente le reazioni interne e quelle esterne come una cosa sola: ‘Non sono spirito e non corpo, ma sono una terza cosa. Soffro tutto e di tutto’.

   L’aria immota, pesante della sua vita, la sua decennale solitudine da eremita sviluppano poderosamente l’innata tendenza di Nietzsche alla differenziazione di tutti gli stimoli. E siccome nei trecentosessantacinque giorni dell’anno non gli si avvicina nulla di corporeo, né donna, né amico, all’infuori del suo proprio corpo, siccome nelle ventiquattr’ore del giorno non parla con nessun altro che il suo sangue, egli conduce coi suoi nervi un dialogo quasi ininterrotto. In questo silenzio inaudito Nietzsche tiene in mano continuamente la bussola della sua sensibilità e, come tutti i solitari, i grandi lavoratori, li scapoli, gli stravaganti controlla da ipocondriaco i minimi cambiamenti funzionali del suo corpo. Altri dimenticano se stessi perché la loro attenzione è deviata dalla conversazione o dalli affari, dal gioco o dalla stanchezza. Ma un diagnostico geniale come Nietzsche soggiace continuamente alla tentazione di provare ancora come psicologo un piacere curioso per la propria sofferenza, di fare di sé ‘ il suo esperimento, la sua cavia’. Medico e paziente in una persona sola, non cessa di mettere a nudo con la sua acuta pazienza ciò che v’è di dolente nei suoi nervi e, come fanno tutte le nature nervose e fantasiose, a questo modo stuzzica ancora e acuisce la sua sensibilità già acutissima. Diffidando dei medici, diventa il medico di se stesso e per tutta la vita non smette mai di medicarsi’, Tenta tutti i mezzi, tutte le cure immaginabili, massaggi elettrici, prescrizioni dietetiche, cure di acque, bagni, ora reprime l’eccitazione col bromuro, ora torna a stimolarla con altre misture. La sua sensibilità meteorologica lo spinge eternamente in cerca di un’atmosfera particolare, d’una località adatta per lui solo, di un ‘clima della sua anima’. Ora è a Lugano per l’aria del lago e l’assenza dei venti, ora a Pfäfers e a Sorrento, poi gli viene in mente che i bagni di Ragaz potrebbero liberarlo dal suo io delirante, che la zona di Saint-Moritz, salubre e rinforzante, o le acque di Baden-Baden o di Marienbad potrebbero fargli bene. Per tutta una primavera è l’Engadina ch’egli scopre affine a sé per natura ‘con la sua aria ricca d’ozono’, poi ha da essere di nuovo una città del Sud, Nizza con la sua aria ‘asciutta’ poi, ancora, Venezia o Genova. Ora tende ai boschi, ora al mare, ora ai laghi, ora alle allegre cittadine ‘col loro vitto buono e leggero’. Dio sa quante migliaia di chilometri di ferrovia ha percorso questo fugitivus errans, solo per trovare il luogo fiabesco dove i suoi neri potessero cessa d’ardere e di guizzare, i suoi organi d’essere esternamente desti. A poco a poco, dall’esperienza delle sue sofferenze, Nietzsche si distilla una specie di sua geografia della salute, esamina grossi volumi di geologia per trovare questo luogo che egli cerca come l’anello di Aladino, per ottenere finalmente la padronanza sul suo corpo e la pace dell’anima. Per lui nessun viaggio sarebbe troppo lungo: nei suoi progetti c’è Barcellona e ci sono le montagne del Messico, pensa all’Argentina e persino al Giappone. A poco a poco posizione geografica e dieta del clima e del vitto diventano la sua seconda scienza personale, D’ogni luogo si segna la temperatura e la pressione dell’aria, misura al millesimo la precipitazione e il grado di umidità con igroscopio e idrostato. Le stesse esagerazioni per la dieta. Anche qui un intero registro, un codice medicinale di misure cautelative: il tè dev’essere di una determinata marca e dosato in un determinato modo; la carne è pericolosa; gli ortaggi devono essere preparati in un certo modo; a poco a poco quest’eterno far da medico e diagnosticare assume un carattere morboso di solipsismo, diventa un angoscioso fissare-se-stessi. Nulla ha reso così doloroso il dolore di Nietzsche più che quest’eterna vivisezione; come sempre lo psicologo soffre il doppio di ogni altro perché prova due volte i suoi dolori, una nella realtà e una nella contemplazione di se stesso.

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 

 

 

 
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