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Messaggi di Settembre 2017

Meminisse iuvabit. "Eros e Magia nel Rinascimento". Culianu. Zolla

Post n°964 pubblicato il 30 Settembre 2017 da giuliosforza

Post 884

Meminisse iuvat, non solo iuvabit. Ricordare è vivere. Alla mia età è la sola forma del  vivere, l’unica maniera per tentare di conferir senso a quel non essente che diciamo presente, stranissimo risultato dell’incontro di ciò che non è più e di ciò che non è ancora, compendio dunque, essere, di due non-essere: un non essente alla seconda potenza (questo il paradosso che definisce l’Assurdo che chiamano esistere, e che logica vorrebbe non fosse consentito - ma ancor più assurdo dover parlare del non essere usando il verbo essere). Il passato è l’unica cosa che resta al Vegliardo, delle tre illusioni (inconsistenze) che determinano il tempo non restandogli che la terza.

Eppure quanto è bello ricordare. Quanto è dolce, nella illusione del reale, tuffarsi nella verità di quella fiaba incantevole (ché illusione per illusione -illusione alla seconda potenza- fa reale, negativo per negativo fa positivo) e insieme tragica che fu la vita. Quanto è tenero tuffarsi nell’oceano di immagini ammassatesi lungo il tempo nel caleidoscopio della mente (e dalla vista interiore organizzate in sempre nuove forme, mai a sé stesse identiche, mai fisse, mai immote) e farsene, come da onde, cullare.  

Ho trascorso buona parte della giornata a ricordare alcuni dei film della mia giovinezza. Con Judy Garland (bella era, e giovane, e bionda, non ancora distrutta dalla droga e dall’alcool) sono ripenetrato nel fantasmagorico mondo del Mago di Oz; con Bette Davis di Perdutamente tua ho rivissuto la profonda ed unica passione degli amori inconsumati e inconsunti, come veste inconsutili che nessun evento avverso potrà mai ridurre in brandelli; con Bogart ho navigato le acque maltesi alla ricerca del falcone e del suo mistero. Il sonno m’ha colto in compagnia di Amedeo Nazzari, già mio vicino di casa  a Talenti, ancora bello e prestante in una delle sue commediole strappalacrime (Dopo divorzieremo). E il mio sonno è stato profondo e insieme lieve, senza incubi, e il mio cuore senza sussulti.

.*

M’è giunto finalmente Eros e magia nel Rinascimento (Bollati Boringhieri, Torino 2006-2016, pp 423) di Ioan Petru Culianu, e ne inizio la lettura senza por tempo in mezzo. E subito mi imbatto in Bruno, che del testo sarà un assoluto protagonista. «Al massimo grado di sviluppo, raggiunto nell’opera di Giordano Bruno, la magia è un metodo di controllo dell’individuo e delle masse basato su una profonda conoscenza delle pulsioni erotiche individuali e collettive. Vi si può riconoscere non solo il lontano progenitore della psicoanalisi, ma anche quello della psicosociologia applicata e della psicologia di massa. Accanto a questo, però, v’è un altro aspetto fondamentale della manipolazione dei fantasmi, la meravigliosa arte della memoria: il nesso tra eros, mnemotecnica e magia è così indissolubile che sarebbe impossibile capire l’ultima senza avere prima studiato i meccanismi degli altri due”». E più oltre dall’Introduzione: «Certo sarebbe arduo sostenere che il metodo della magia ha qualcosa in comune con il metodo delle nostre scienze della natura: La struttura della materia viene completamente ignorata, e i fenomeni fisiochimici sono attribuiti a forze occukte agenti nel cosmo. Eppure la magia ha in comune con la tecnologia moderna la pretesa di pervenire, con altri mezzi, agli stessi risultati; comunicazione a distanza, trasporti rapidi, viaggi interplanetari fanno parte delle normali prodezze del mago» (pag. 7).

Dissi  nel precedente post 883 qualcosa sulla figura dello storico romeno, martire del libero pensiero (sempre più evidente che ad assassinarlo furono gli sgherri di Iliescu, succeduto al Ceausecu dal cui regime Culianu era pur fuggito, ma non meno di lui carnefice e più di lui volgare fino a seppellire in una fossa comune cadaveri sottratti agli obitori per poi spettacolarmente riscavarli e contrabbandarli per vittime del Dittatore). Dirò ora qualcosa di Elémire Zolla, altro grande Spirito ch’ebbi la fortuna di incrociare lungo la mia via, al quale si può applicare lo stesso apprezzamento che Culianu riserva a Mircea Eliade: «…è stato per me, durante gli ultimi quindici anni, una garanzia che la bontà, la semplicità e la serenità non sono del tutto scomparse dal mondo».

Zolla, amico lui stesso e in qualche modo discepolo di Eliade, fu tra noi certo il miglior cultore di misticismo e di esoterismo, ai quali aveva dedicato tutti i suoi interessi extraaccademici, in fine preponderanti. Insegnava letteratura angloamericana al Magistero di Roma, poi RomaTre, e la sua stanza era situata sopra la mia al terzo piano del palazzo che la facoltà di Scienze della Formazione (allora dell’Educazione) condivideva con Letterature anglo-americane. Suo vicino di stanza era Giorgio Melchiori, una delle più grandi, se non la somma, autorità negli studi scespiriani almeno in Italia (che tempi quelli per le Università e che Maestri!)  in Via del Castro Pretorio 20. Per anni ci si era incontrati e salutati velocemente in ascensore, per le scale o nei consigli di Facoltà, ma senza entrare in particolare confidenza, finché l’occasione di rompere il ghiaccio mi fu porta dalla necessità di trovare degli esperti per il convegno che nel 1990 stavo organizzando su “Religioni ed educazione. Dialogo delle Civiltà”. Avevo letto varie cose di Zolla. a partire  dal famoso e discusso Eclissi dell’intellettuale del ’59 e da I mistici dell’Occidente del ’63, e l’avevo trovato  spirito supremamente, aristocraticamente, libero, e me ne ero naturalmente innamorato. La sua stessa vita privata m’intrigava e suscitava invidia, le sue lunghe relazioni con la squisita poetessa Maria Luisa Spaziani prima,  con Cristina Campo (l’evanescente, eterea figura che mi ha sempre ricordato il  fiore azzurro, die blaue Blume, novalisiano, simbolo di quella Ahnung, di quella Sehnsucht d’assoluto destinate a mai sopirsi) poi; e infine con la esimia e sensibile studiosa di Estetica Grazia Marchianò, la Presenza che negli ultimi quindici anni della vita lo sostenne ed ora ne cura e tramanda la memoria, anche pubblicandone i numerosi inediti. Al nostro Colloquio Zolla trattò di “Sincretismo ed educazitone” nel salone del Castello Massimo di Arsoli. Ho negli occhi e nell’anima la sua solenne figura, la sua asma, il suo estraniamento dal mondo (egli come il poeta baudelairiano “planava sul mondo e comprendeva senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose mute”) il suo Stupore infantile, che sarà il titolo di un suo prossimo delicatissimo libro, la sua ironia, la sua compostezza, la sua dolcezza. Di quei giorni un episodio ancora ricordo che la dice tutta sul personaggio. Mi ero dato da fare per ospitare i relatori a Villa celeste, immersa nel fitto verde che circonda, poco più sopra, anche la Villa di Ricciotti Garibaldi, a Riofreddo. Un posto più tranquillo di quello non avrei potuto immaginare. Quando la mattina dopo salii a prelevare gli ospiti, trovai la prof Marchianò infuriata con me. “Non ha potuto chiudere occhio, eppure le avevo raccomandato di trovargli un posto silenzioso!”. Io non capivo e guardavo lui che pacatamente sorrideva. Ma quando  capii il motivo della giusta rabbia di Grazia, fui io ad infuriarmi con gli albergatori, ai quali  mi ero raccomandato in nome di Dio di non farmi far figuracce. “Qui sentiranno  solo gli uccelli che daranno loro all’alba la sveglia”, mi avevano risposto. In realtà i Vasselli, i ristoratori, forse discendenti di quei Vasselli che avevano dato in moglie la dolce Teresa allo sciupafemmine Gaetano Donizetti, avevano dimenticato (?) di  dirmi che quella sera una  squadra giovanile  di calcio sarebbe stata loro ospite per il ritiro. All’anima del ritirò! Quegli scalmanati avevano fatto fino all’alba un casino del diavolo ed Elémire, ma non solo lui, non aveva chiuso occhio. Mortificato, mi profusi in scuse, ma egli, sorridendo e tenendomi affettuosamente sottobraccio, replicò: non scusarti, Giulio, son io a doverti ringraziare per avermi fatto rivivere, dopo secoli, una notte goliardica.

Questo, ma tanto di più, era Zolla. Leggo che  Umberto Eco nella sua biblioteca aveva posto i suoi libri nella “sezione cretini”. E che Flaiano gli aveva dedicato l’epigramma “Zolla. Preferisco la folla”. Spero che il voltairiano Umberto in qualche luogo lo incontri, e si vergogni e si nasconda, e che invece il figlio del fornaio di Corso Manthoné (quello immortalato nei Racconti della Pescara del mio Gabri) gli dia, anche da parte mia, un forte bacio. Son sicuro che Elémire glielo renderebbe poiché, a differenza del suo borioso conterraneo, era umile e rispettoso delle opinioni. E quella del Pescarese non era solo una simpatica opinione  spiritosamente espressa, ma anche un implicito riconoscimento dell’ “aristocrazia” di un Uomo che non solo i sincretisti e gli esoteristi di tutto il mondo a lungo ricorderanno.

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

  

 

 

 
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Petru Culianu e Bruno ("Eros e magia nel Rinascimento"

Post n°963 pubblicato il 15 Settembre 2017 da giuliosforza

Post 883

Sul sito di Guido del Giudice, che non perde occasione per segnalare novità e curiosità riguardanti il suo  beneamato Nolano, leggo un articolo di Diego Gabutti pubblicato su ITALIAOGGI che trovo particolarmente interessante e per questo lo riprendo. Dice cose per me nuove di Bruno e di Culianu lettore di Bruno per  me, bruniano ‘non della ventura’ e per caso implicato in una delle ultime vicende della breve vita dello studioso romeno, particolarmente intriganti.

«Eros e magia nel Rinascimento (Bollati Boringhieri 2006, pp. 423, 17,00) uscì in prima edizione a Parigi nel 1984. Opera di Ioan Petru Culianu, o Couliano, che due anni più tardi avrebbe ereditato da Mircea Eliade, il grande storico delle religioni, la cattedra di storia del cristianesimo all'Università di Chicago, non era il libro d'un accademico. Era l'opera d'uno storico e d'un metafisico, d'un teorico della politica. Era un libro sulla violenza, sulle guerre segrete, sui rapporti tra religione, esoterismo, politica e sulle loro radici comuni. Per Culianu esoterismo, «magia» e religione erano politica tout-court. Erano le forme stesse, anzi, della politica - antiche come «la vita sulla Terra», tenute «segrete fin dalla fondazione del mondo». Eros e magia nel Rinascimento è un libro ironico, dotto, sconsolato e bellissimo. Soprattutto è uno dei rari libri che non indorano la pillola della convivenza umana su questo pianeta.

Culianu, che nel 1991 fu misteriosamente ucciso dalle revolverate d'un killer rimasto sconosciuto, incise questa speciale «gnosi», di cui fu uno studioso d'altissimo livello, nella sua stessa esistenza. Al pari del suo maestro, Mircea Eliade, anche Culianu era nato in Romania, che aveva lasciato a ventidue anni, nel 1972, riparando dapprima in Italia, dove si laureò con Ugo Bianchi alla Cattolica di Milano, poi in Olanda e infine negli Stati Uniti.

Insegnò e scrisse libri, per lo più saggi, ma anche narrativa. Poliglotta, scriveva in italiano, in francese e in inglese, oltre che in rumeno. Era un oppositore del regime comunista. Ma quando Ceausescu, alla fine degli anni ottanta, dopo la caduta del Muro di Berlino, fu finalmente sbalzato dal trono, Culianu non s'unì al coro dei rumeni esultanti, ma sentì subito odore d'imbroglio metafisico, di «magia rinascimentale». Diffidò soprattutto quando a Timisoara, mentre Ceausescu e signora venivano processati e condannati a morte in diretta tv, cominciò la macabra saga dei cadaveri: migliaia d'oppositori assassinati e sotterrati in un campo, che la polizia politica rumena disseppelliva uno dopo l'altro, a telecamere accese, nell'ora dei telegiornali.

Culianu aveva scritto Eros e magia soprattutto a partire da un'opera a torto ritenuta minore di Giordano Bruno, il De vinculis in genere (Biblioteca dell'Immagine 1991). Ragionando intorno al De vinculis, il giovane professore rumeno, che all'epoca aveva poco più di trent'anni, spiegò che la magia rinascimentale non era un «affare d'abracadabra». Nessun dimonio, niente magia bianca o nera. Per capire la magia rinascimentale, di cui Giordano Bruno era stato un oscuro e straordinario maestro, bisognerebbe essere al corrente dell'attività segreta dei vari ministeri della propaganda e poter dare un'occhiata ai manuali delle scuole di spionaggio. Se il Principe di Machiavelli», scriveva Culianu, «è l'antenato dell'avventuriero politico, la cui figura è in procinto di sparire, il mago del De vinculis è il prototipo dei sistemi impersonali dei mass media, della manipolazione globale e della censura indiretta».

A Timisoara, dove i cadaveri uscivano dal campo dei miracoli come piccioni dal cappello d'un mago, c'era odore di servizi segreti, odore di manipolazione globale, di ministeri della propaganda: magia rinascimentale purissima, la stessa magia teorizzata secoli prima da Giordano Bruno, una magia da lui detta «erotica» per le passioni che aveva lo scopo di suscitare e per i mezzi di cui si valeva per «vincolare» e manipolare il prossimo suo (altro che amarlo, come forse gli avevano insegnato in seminario).

Cacciatore d'anime, Bruno insegnava a creare vincoli. Ai suoi occhi la libertà era inverosimile. Alla fine, dopo l'esecuzione dei due mostri che avevano governato la Romania per vent'anni, saltò fuori che quella di Timisoara era stata davvero una sceneggiata: i cadaveri erano quelli d'un vicino obitorio, che i servizi segreti avevano sepolto in un campo per intortare i media internazionali e pilotare l'informazione. Fu poco dopo aver denunciato i maghi neri di Timisoara che Culianu, come in un action movie di serie B, fu ucciso da un killer mentre faceva pipì nei gabinetti dell'Università di Chicago. Era il 21 maggio del 1991. Culianu aveva quarantun anni».

Avevo conosciuto Culianu nel maggio del 1991, allorché intervenne, accompagnando il suo amico e secondo maestro Elemire Zolla, al Colloquio internazionale itinerante, il secondo della ventina che avrei organizzato con argomento di riferimento l’educazione estetica, dedicato al tema “Religioni, educazione, educazione estetica”, che tanta risonanza ebbe sulla stampa dell’epoca. Vi partecipavano Augustine Thottakara per l’induismo, Edda Ducci per il cattolicesimo, Paolo Ricca per i Valdesi, Abdal Wahid Pallacicini e Nur Dachan per l’islamismo, Abramo Alberto Piattelli per l’ebraismo, Zolla per il misticismo esoterico, Mario Maranzana, grande attore e cultore di varia umanità, con un ricordo della figura carismatica di Giovanni XXXIII e del suo zelo ecumenico. L’intervento di Culianu fu breve ma denso. Da storico affrontò il fenomeno delle fatali integrazioni delle civiltà («Se siamo disposti ad ammettere che la somma delle menti umane è il motore della nostra storia, e che questo motore non si blocca perle povere e spesso stupide differenze tra una civiltà e l’altra, una lingua e l’altra, ci troviamo evidentemente davanti un terreno il cui fondamento è l’unità»),  particolarmente il Cristianesimo e l’Islam, due grandi religioni che hanno spesso messo barriere fra di loro. «C’è chi di noi ha magari l’abitudine di andare in chiesa, fosse pure en touriste, di accendere candele o di guardare altri che lo fanno, e sentire odore di incenso. Ebbene questa è una prassi, da storico posso dirlo, che si instaurò nelle basiliche romane all’inizio del IV secolo. E’ esistita prima? Sì, questa prassi risale al culto nei templi romani all’epoca dell’impero: A quel tempo i sacrifici erano stati semplificati, e si usava perciò bruciare incenso e accendere candele. Ci sono delle lettere di Plinio il Giovane, quando era governatore di provincia in Asia minore, all’imperatore Triano, dove viene riportata la notizia del processo e dell’esecuzione di alcuni cristiani all’inizio del II secolo. Ebbene, quei cristiani erano perseguitati perché si erano rifiutati di bruciare incenso agli dei del pantheon romano e all’imperatore, e di accendere candele. Saremo sorpresi e farà tristezza venire a sapere che un rito che si adotta a partire dal IV secolo era lo stesso rito che era stato aborrito dai cristiani due secoli prima al punto di farne dei martiri. Si vede allora che il pensare produce un fatto straordinario, cancella i confini e dà al rito un nuovo significato: da quasi due millenni quel rito è ora di casa nel Cristianesimo.

Veniamo all’Islam. Uno dei momenti di gloria della civiltà islamica è stato il califfato Omaiade di Cordoba, in Andalusia. Lì, sulla fine del X secolo, un terzo grande califfo sognò di erigere  il più imponente palazzo mai fatto da mano d’uomo. In effetti fece erigere un intero villaggio capace di contenere ventimila abitanti, e lo chiamo Al Medina Al Sacrà, che vuol dire Città di Venere, perché Al Sacrà –questo non si trova nelle guide di Cordoba- è il pianeta Venere: Sulla porta d’ingresso del villaggio, quel califfo fece innalzare una splendida statua di Venere romana, che ho il forte sospetto sia quella ora custodita al Museo di Siviglia, ma la guida non dice nulla in proposito. Dunque, una stupenda statua di Venere ignuda, decapitata, finisce a Siviglia alla fine del XII secolo. Questo gesto è interessante perché voleva mostrare a un’altra gloriosa città, il Cairo (in arabo significa Il Vittorioso- ma è il nome del pianeta Marte), che la civiltà musulmana dell’Andalusia era più bella, più fastosa di quella del califfato fatimide dell’Egitto. Allora, questo gesto straordinario di edificare una città a Venere e di mettere sulle mura del più splendido palazzo mai realizzato da mano d’uomo una stupenda effigie della dea tutta ignuda, mostra che, tutto sommato, anche l’Islam si muove su più binari, che anche lì si pensa, e c’è motivo allora di alimentare una speranza» (AAVV, Religioni ed educazione. Dialogo delle civiltà, a cura di Giulio Sforza, Anicia, Roma, 1994, pagg. 97-98).

Con questa lunga citazione ho voluto  onorare la memoria di un Martire del pensiero libero che prima che  Mircea Eliade ed Elemire Zolla aveva avuto Maestro un tal Bruno Nolano, in arte Giordano.

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Muzio Clementi-Louis Raffy, 'Prélude funèbre'. Diderot, 'La Religieuse'. A che punto sta la musica in Italia.

Post n°962 pubblicato il 09 Settembre 2017 da giuliosforza

Post 882

Da molto tempo non rimettevo le mani sul mio organo Farfisa. Notato con piacere che il caldo non ha influito sulla intonazione. Ed ho riaperto il mio antico Raffy, Organistes célèbres et grands maîtres classiques, volume quarto, al “Prélude funèbre” (do minore, andante sostenuto) di Muzio Clementi, dall’aspetto assai curioso dovuto al suo ritmo sincopato che gli conferisce un carattere di una originalità poco comune: sembra dipingere un dolore rassegnato, quello di un’anima che si sottomette, senza riserve, alla volontà di Dio. Secondo il suo costume, Louis Raffy è solito premettere a ogni pezzo, per l’interprete, presunto dilettante, delle note didattico-esplicative che in questo caso recitano: “Suonare il brano lentamente e a media sonorità, osservando le sfumature del testo. Ai fini di una esecuzione ben legata il pezzo offre una certa difficoltà di esecuzione per la mano destra; in effetti, riunendo questa due parti che si muovono a intervalli molto distanziati, deve osservare numerosi scambi di diteggiatura  in posizioni spesso molto scomodi.  Si dovrà lavorare prima molto sulla mano destra sola, prima di riunire le due mani; agire diversamente complicare lo studio di questo pezzo.

Ho sempre amato il romano Clementi (1752-1832), e non ritenuto quel “cialtrone, come tutti gli italiani”, che un poco sbavando lo riteneva Mozart, geloso oltretutto del suo genio pianistico. Il Prélude funè bre (non so se sia il titolo originale) mi strappa il cuore. Oggi risonandolo mi sono commosso fino alle lacrime, immaginandolo suonato al mio funerale. Anche  da morto …mi ascoltavo e mi piangevo addosso. E Maria la romena, sospendendo le pulizie, piangeva con me.  

*

Per tutti gli amici musicisti, musicofili e musicomani pubblico una recensione di Quirino Principe, (da molti, me compreso, ritenuto, spero non solo per simpatia di coetaneità, …principe -con Paolo Isotta, al quale l’accostano una sconfinata cultura non solo musicale, e una rara indipendenza di giudizio- dei musicologi e degli storici della musica) che da una vita dedica il suo multiforme ingegno alla causa dell’arte di Euterpe. Lo ammirai, e non smisi poi mai di seguirlo in ogni tipo della sua varia attività pubblicistica, dopo aver letto il suo compendioso Mahler. Questo non mi ha impedito di trovare alcune sua dissacrazioni eccessive, e le mie prese di distanza non è difficile trovar documentate qua e là in questo diario. Del breve articolo recensivo che qui riporto condivido, ad una prima veloce lettura, sostanzialmente tutto, contenuto e stile. Ma dovrei leggere il volume curato dalla Zarletti (Ars nova. Ventuno compositori italiani di oggi raccontano la musica, Castelvecchi, Roma, pagg.284) per confermarmi o no in questa opinione. Troppo pochi di fatti gli autori di cui Principe riporta qualche pur minima opinione  atta a far intendere quale davvero sia lo stato della musica italiana, se la scontata minima o nessuna attenzione riservatale dalle istituzioni in Italia basti a giustificare il suo stato di crisi. Troverete la recensione di Principe  sul Sole 24 Ore domenicale del 27 Agosto sotto titolo Come sta la musica italiana.

«Qui, tutto è difficile. Amaro, né potrebbe essere diversamente, è il vissuto dei compositori italiani, di quelli veri che conoscono la musica poiché l’hanno studiata come va studiata: tecnicamente, matematicamente, filosoficamente. Muniti di ferri del mestiere lucidi e collaudati, lavorano curiosi e animati dall’impegno didattico e comunicativo. Si ascolti come si commuovono, chiaroveggenti. Nicola Sani che tiene una conferenza, o Letizia Michelon che inaugura un convegno dalle idei fortissime. O Alessandro Solbiati che parla a Radio3 per “Lezioni di musica”, e la commozione, contagiosa. Si trasmette a chi ascolta. Eccoli con la schiena dritta e un bel sorriso malgrado tutto, pronti a motivare ogni particella del loro lavoro, reggendo, come reali e oscuri eroi di un V secolo dopo Cristo che oggi è revenant. Li vediamo come  reincarnazioni di Simmaco e Celso combattenti contro il vescovo impostore e i tre imperatori suoi lacchè. Oggi, l’incubo è un Occidente condannato a morte e già da tempo maleodorante di un’americanizzazione che è prodromo di una islamizzante putrefazione. Ci lascia senza fiato, in questo libro, la Lettera sulla Musica di Salvatore Sciarrino, o la dolente autoapologia di Mario Guido Scapucci che sembra volersi bruciare alla fiamma di un’ellenica lampada, in nome della propria verità, o Silvia Colasanti che narra il proprio metodo di lavoro. Eppure nessuno di loro nasconde, né vuole farlo, il senso di gelo, né la paurosa solitudine che circonda oggi gli autori di musica forte in questo infelice Occidente, “morto che cammina”, come direbbe quella cosa sempre un po’ mafiosa che è la Storia. Questa solitudine di artisti colti e civilissimi, che lanciano la propria musica in una cantina buia popolata da ciechi e sordomuti, guida vendetta contro l’oscena e miliardaria insipienza allo stato brado ostentata da buffoni ritinti e sgambettanti caricature che da altri cretini ricevono acclamazioni o il Nobel.

Difficilissimo è stato il compito che si è assunta la curatrice, Sara Zurletti: pensando a come questa studiosa, sorretta da una conoscenza di livello superiore e allenata all’interpretazione della cultura musicale, filosofica, letteraria e artistica di epoche diverse, ha organizzato negli ultimi anni simili imprese di testimonianza e di sintesi, diciamo che soltanto lei poteva scegliere, con tanto sottile equilibrio di diverse generazioni, tendenze e sensibilità filosofica, i ventuno compositori. Sara Zurletti apre la sua introduzione illuminandoci sull’idea originaria del libro, ed è una illuminazione destinata a ritornare in seguito: che l’attuale situazione della musica abbia tratti comuni con quella del XIV secolo, quando uscì “il più importante trattato musicale del passato”, Ars nova (1329) di Philippe de Vitry, il quale, liberandola musica della teologia, proponeva un esempio di quel “superare conservando”, prossimo all’’Aufhebung hegeliana, che la musica occidentale ha oiù volte rifiutato negli enunciati teorici, ma ha finito per accogliere nella realtà di fare musica. Aggiungiamo, ringraziando Sara Zurletti, che “superare conservando” significa Occidente e soprattutto Europa».

Attendo le opinioni degli amici compositori Federico Biscione e Alberto Cara, tra i più attivi rappresentanti della generazione che dirò dei più riflessivi, dediti ad una intelligente opera di innesto di classicità sui non sempre svelti virgulti delle nuove tendenze.

*

Appena uscito dalla fornace ardente di una estate per il mio vecchio cuore tra le più inique (inutile la fuga-rifugio fra le colline del mio paese natio -800 metri sul mare, dirimpettaio il Velino) e ripiombato nel deserto popolatissimo d’impresenze in quel di Porta di Roma ove, ben lo avverto,  sono stato destinato a chiudere i miei giorni, torno alle mie dilette letture. Abbandono per un momento i contemporanei (ho appena terminato l’autobiografia di Jean d’Ormesson e il suo romanzo-saga sulla sua famiglia A Dio piacendo – al qual proposito andrò presto a visitare i luoghi romani da lui citati, soprattutto San Giovanni a Porta Latina e San Giovanni in oleo, legati alla sua origine) e torno a Diderot; ma non alla sua Encyclopédie, bensì a La Religieuse, storia di una monaca per forza senza vocazione e delle sevizie di ogni tipo, di una crudeltà inimmaginabile, fisiche e morali, a cui è sottoposta perché receda dalla sua volontà di rinuncia ai voti. Il lettore moderno resta allibito a quella lettura, dinanzi alla malvagità che superiora e consorelle son capaci di esercitare sulla povera vittima. Ma resta allibito solo se non conosce le vessazioni e le persecuzioni a cui gli/le attuali rinuncianti sono sottoposti, meno vistose e più sopraffine, ma capaci di distruggere la vita di chi, non appigionato e non appigionabile, “…non nato a percuotere/ le dure illustri porte / nudo accorrà, ma libero / il regno della morte”. Ma che costo, quella libertà, e quanto inutile! So di una mia ex allieva indiana suora che, decisa a “tornare nel mondo”, non per una crisi di fede ma per una crisi di identità, non solo non è stata aiutata economicamente a reinserirsi, ma le sono stati messi ogni sorta di bastoni tra lo le ruote perché non trovasse lavoro. Disperata, è finita sul marciapiede. Fossi Denis ne racconterei minuziosamente la storia che, fra tutte quelle che non fanno notizia in un periodo come il nostro in cui peraltro non fa che parlarsi (santissima causa, per carità) di violenze esercitate sulle donne, è sicuramente una delle più inumane ed anticristiane.

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