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Messaggi del 13/01/2021

Il giardino dei ciliegi. Il Gabbiano. Le Supplici. Vivaldi e Cesco Baseggio

Post n°1060 pubblicato il 13 Gennaio 2021 da giuliosforza

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   Il Giardino dei ciliegi (l’ultima opera cechoviana - l’autore sarebbe morto pochi mesi dopo, distrutto dalla tubercolosi a quarantaquattro anni - nella versione strehleriana del 1978, con l’ultima Diva nostrana Valentina Cortese nel ruolo principale, Monica Guerritore Giulia Lazzarini, Glauco Mauri comprimari e un grande Renzo Ricci nel ruolo del vecchio servitore) mi ha fatto pessima compagnia l’altro pomeriggio. Mi sto intestardendo con Cechov, anche se chiaramente non è l’autore più adatto a salvarmi dalla minacciante depressione.  Non l’avessi mai rivisto, quel maledetto Giardino: lo pervadono gli stessi sentimenti che provai, l’estate scorsa, lasciando il Frainile, il mio Giardino dei noci così tante volte evocato in questo diario, l’ultima volta che chiusi la porta di casa: le stesse lacrime della anziana proprietaria Ljubova-Cortese sulle mie gote, lo stesso sentimento del non ritorno, lo stesso presentimento, la stessa opprimente malinconia dell’Ahnung maledetta, lo stesso cuore oppresso. Quando la prima volta vidi Il Giardino nel ’78, pur anno per me tragico, il mio rifugio fiorito del Frainile era in costruzione, avevo 35 anni, esplodevo di energie: avrei potuto reagire al melanconico ’addio vecchio mondo’ pronunciato, nell’atto di volgersi indietro a salutare, dai più anziani della famiglia, con il ‘salve mondo nuovo’ gridato all’avvenire dai più giovani guardandosi avanti. Ma ora è diverso, la sorgente profonda che ha alimentato il mio vitalismo poco a poco inaridisce, l’inno alla Vita cede alla trenodia, recupero l’adolescenziale sentimento della finitudine, quel sentimento che è caratteristico, ed è un vero paradosso, di un’epoca che dovrebbe essere, come ogni primavera, di ‘entusiasmi’ (‘esser posseduti dal Dio’), di ubriacature di colori e di luci, di esplosioni di canti. Riprendo in mano i miei diari di allora, mi ritrovo nel pieno della mia oppressa adolescenza, rileggo i primi tentativi poetici e non trovo che sentimenti di morte. Scrivo sonetti agli ‘amici della mia solitudine’ (Petrarca, Foscolo, Leopardi), riempio i miei diari di Pascoli e di Giosuè, non ancora trombonesco Carducci, due sonetti del quale, tratti il primo da Rime nuove.  da Juvenilia il secondo, aprono il quaderno n° 4:  

   […]

   Ben riconosco in te le usate forme / Con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto, / E in quelle seguo de’ miei sogni l’orme / Erranti dietro il giovenile incanto. / Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano; / E sempre corsi, e mai non giunsi il fine; / E dimani cadrò[...] (‘Traversando la maremma toscana’)

   Passa la nave mia, sola, tra il pianto / De gli alcïon, per l’acqua procellosa; / E la involge e la batte, e mai non posa, / De l’onde il tuon, de i folgori lo schianto.  

   Volgono al lido, omai perduto, in tanto / Le memorie la faccia lacrimosa; / E vinte le speranze in faticosa / Vista s’abbatton sovra il remo infranto.

   Ma dritto su la poppa il genio mio / Guarda il cielo ed il mare, e canta forte / De’ venti e de le antenne al cigolío:

   Voghiam, voghiamo, o disperate scorte, / Al nubiloso porto de l’oblio, / A la scogliera bianca de la morte.

   Nell’intento cechoviano la pièce avrebbe dovuto essere percepita come ‘tragicomica’. Ma l’aspetto comico a me è del tutto sfuggito. Forse perché scarna la trama? Per pagare l’ipoteca di una proprietà una nobile famiglia aristocratica ormai decaduta deve porla all’asta, nessuno della famiglia inspiegabilmente apatica facendo nulla per impedirlo. Vendita ed oblio sono ormai il suo destino. 

   Pari sconforto, sebbene di altra natura, m’aveva colto qualche giorno prima alla visione de Il Gabbiano dello stessoautore.

   “È uno dei testi teatrali”, leggo nella anonima presentazione redazionale, “più noti e rappresentati di sempre; i personaggi della giovane Nina, della madre attrice Irina, dello scrittore Trigorin sono stati incarnati in tutto il mondo dai maggiori attori di teatro, in messe in scena memorabili. La messa in scena è quella di Orazio Costa Giovangigli, del 1969, con Anna Proclemer (Irina), Gabriele Lavia (Konstantin Trepilov), Gianrico Tedeschi (Piotr Nicolàevic Sorin), Ilaria Occhini (Nina), Renato Lupi (Ilja Afanasievic), Gabriella Giacobbe (Paolina Andréevna), Giancarlo Sbragia (Boris A. Trigorin), Mario Feliciani (Evghenij S. Dorn), Ettore Toscano (Semion Semionovic), Sergio Volsini (Jakov), Vasco Santoni (cuoco), Winnie Riva e Antanassia Singhellaki (cameriere). Il tema del Gabbiano ritornerà in tutti i successivi lavori teatrali di Cechov, come simbolo della tragedia di un'umanità delusa dall'inutilità della vita. Il titolo dell'opera viene da un accostamento simbolico: quello fra l'ignara felicità di un gabbiano che, volando sulle acque di un lago, viene stroncata dall'oziosa indifferenza di un cacciatore, e la sorte di una fanciulla, Nina, che sulle rive dello stesso lago si innamora di un letterato di qualche nome, Trigorin, il quale senza cattiveria, anzi cedendo a una sorta di fatalità, approfitta della sua femminile smania di aprire le ali, la porta via con sé a fare l'attrice, la rende madre di un bimbo che però muore, e la lascia infine tornare distrutta alla casa di una volta. Qui c'è un altro uomo che l'ama da molto tempo, il giovane Konstantin, anche lui scrittore, che sogna l'arte e la gloria. Ma la madre di lui, Irina, un'attrice celebre, disprezza l'inconsistenza delle liriche fantasie che egli va componendo e Nina non vuol saperne di lui. Sicché Konstantin, sentendosi fallito, si uccide. Questa semplicissima trama, che non è neppure una vera trama, offre a Cechov il pretesto per la rappresentazione di una società di illusi, aspiranti invano a partecipare al gusto dell'esistenza, che li respinge. Cechov da un’idea fissa, continua a rappresentare la propria angoscia e la propria sconfitta”.

   Come si vede Anton, arte a parte, non si smentisce. La sua tetra visione del mondo anche ne Il Gabbiano permane immutata e tale in questa fase della mia esistenza anch’io son tentato di percepirla, tanto da chiedermi se non abbia ragione il Prezzolini evocato nelle prime pagine di questo diario: “essere l’ottimista più dogmatico del credente, poiché questi crede a ciò che non vede, quegli si rifiuta di credere a ciò che vede”.  

   Per viltà rimando ancora la risposta. Distruggerei tutto quel che nella mia lunga vita ho detto e fatto, tradendo il mio Dèmone.

*

   Per fortuna ho avuto in questo periodo altre compagnie. Ho appena terminato la piacevole lettura dei due volumi che Carla Russo ha dedicato alla saga di Caterina Sforza e che mi hanno rituffato nel meraviglioso e sanguinario Rinascimento; ho terminato il romanzo Greta Vidal della Buens Carignani con la quale ho rivissuto l’esaltante utopia fiumana attraverso una delicata e insieme tragica storia d’amore; mi son rigoduto Barbiere e Bohème, ho seguito con curiosità lo strano allestimento de Le supplici eschilee, al teatro greco di Siracusa, da parte di quel simpaticone di Moni Ovadia, e da lui stesso tradotte, idea non del tutto balzana, in greco moderno e siciliano; ho iniziato la lettura deludente del piccolo saggio Segui Il Tuo Dèmone  del latinista Ivano Dionigi  (dall’ex rettore della ‘Alma Mater Studiorum’ felsinea aveva diritto d’attendermi di meglio); ho pensato mille pensieri uno più strambo dell’altro (per esempio che ‘canaglia’ è un brutto vocabolo, offensivo per il cane, ma non abbastanza per la canea degli umani; e ho deciso che d’ora in poi in omaggio a Pascal chiamerò l’odioso maus ‘souris d’ordinateur’, e in omaggio a Goethe ‘rechnere Ratte’); e ho ricominciato a poetare: ma  quella che avrebbe voluto essere una lunga lirica s’è fermata al settimo verso, non solo per l’esaurimento dell’ispirazione, bensì perché m’è piaciuta la non ricercata rima interna  danza speranza. E forse la lirichetta ne ha guadagnato.

   Brulica d’ombre a me dintorno il parco / tace ogni voce umana e tace il canto / dei merli ed il cra cra / delle tetre cornacchie e il vento tace / che di foglie policrome nell’aria / lancia una danza. Ed il mio cuore stanco / si veste di speranza.

 *

Alcuni post fa riferii con compiacenza di un maligno giudizio di Dallapiccola, ripreso e condiviso da Stravinskij, che suonava all’incirca così: Vivaldi non ha scritto 400 concerti, ma quattrocento volte lo stesso concerto. Ora, dopo aver rivisto con interesse ed emozione uno sceneggiato televisivo degli anni Cinquanta che racconta, con un magnifico Cesco Baseggio protagonista, lo stesso  che dà il nome al viale romano dove abito, gli ultimi tristi tribolati anni viennesi del vecchio ‘Prete rosso’, che aveva sperato  di trovare a Vienna, invitato da Calo VI suo ammiratore, quella  tranquillità anche economica che Venezia non gli garantiva più (le mode musicali stavano cambiando, le autorità ecclesiastiche gli rimproveravano, dando retta alle maligne insinuazioni della plebaglia, il suo paterno interessamento per il grande contralto mantovano Anna Girò, o Anna Giraud, nome d'arte della mantovana Anna Maddalena Teseire-Tessieri) mi commuovo e decido di dedicare al Prete Rosso maggiore e meno prevenuta attenzione. Che se poi dovessi continuare a pensarla come Dallapiccola e Stravinskij certo non ne tacerò, ma almeno sarà a ragion veduta. Intanto la sua grande amicizia con Goldoni e la loro vicendevole stima un poco mi rassicurano e mi fan pensare che il suo genio forse non meritava il silenzio, una vera damnatio memoriae, al quale per oltre due secoli fu condannato.

   ____________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 
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