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Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)

 

 

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Grazie, beata irresolutezza!

Post n°96 pubblicato il 01 Giugno 2014 da ElettrikaPsike
 

 

 

 

                  Immagine surreale di donna nuda seduta con una finestra alle spalle e i capelli lunghi che le coprono totalmente il volto

 

 

Talvolta l’acredine invece di essere un dessert corrosivo al veleno con effetti venefici da servirsi quasi congelati, assume inaspettati risvolti premio. Le potenziali offese diventano espedienti e complimenti involontari. Una beffa per chi li fa e non uno schiaffo per chi se li prende.

Tutto questo è parte della magica ironia della vita, che talvolta non è solo quella valle salata dalle lacrime che tutti indistintamente piangiamo ma una bella burla di Dio.

Tempo fa conoscevo una persona particolarmente astiosa e quindi incattivita, cioè letteralmente in cattività, in gabbia a causa del suo stesso disagio, che era solita armeggiare con un grandioso aggettivo, apostrofando i suoi avversari con questa parola sfoderata come un’arma da taglio per recare offese: irrisolto, chiamava il suo antagonista.

Ed irrisolti erano tutti coloro i quali non la pensavano come lei.

Certo, per lei, la persona sopra citata che, probabilmente, padroneggiava con agilità disumana il dizionario dei sinonimi e dei contrari, irrisolto era un aggettivo oltraggioso puntato con precisione da cecchino sulle parole e le personalità da cui si sentiva minacciata e con totale, non che sincera, convinzione pensava di usare il proiettile grammaticale come una dichiarazione di deficienza al “non risolto” e  "insoluto” aspetto nella persona avversa. 

Ma la vita si fa frequentemente (ed a lungo termine, sempre) beffe di chi sputa in traiettorie lesive. E se ne burla con un certo charme.

Come quando ti svela che irrisolto è il più grande complimento che un amico ti possa dire e il migliore augurio ti possa fare. Perché, semplicemente, significa che si ha ancora un motivo per esserci.

Significa che si ha ancora modo di cercare, e di trovare.

Significa che si ha ancora l’impossibile tra le mani che seduce e ci interroga perché si possa rispondere se desideriamo farlo diventare possibile.

Siamo tanto più figli del divino quando siamo irrisolti di quanto mai potremmo esserlo convinti d’essere risolti, pesantemente caricati di creta sulle carni e claustrofobici per tutto lo spazio occupato dalle ombre dei nostri sogni defunti.

I miei lunghi sguardi sul tavolo settorio per avviare un processo autoptico sull’estetica e sull’etica del mondo non sono mai genitori di una classificazione risolta. Quel momento non è ancora arrivato e mi auguro soltanto che arrivi quando non avrò più la possibilità per continuare ad essere irrisolta. Due minuti e mezzo prima di morire.

Con le mie indagini autoptiche non solo non pretendo di arrivare ad una risposta definitiva e di tagliare il nastro dell’arrivo; ma neppure considero gli strumenti dicotomici per la dissezione come conclusivi. Sono solo il primo passaggio.

Spogliati le immagini e le parole, come i cadaveri, vengono osservate e studiate individualmente. Uso la dicotomia come l’enterotomo e il forcipe dentato. La dialettica dicotomica è solo lo strumento per incidere, per sollevare i tessuti verbali ed estetici e per tamponare. Nulla di più, nulla di meno.

Il pensiero dicotomico è certamente una procedura dogmatica, in quanto nel mantenimento di una struttura che procede per aut aut il conflitto implicito tra le parti non si scioglie in soluzione se non attraverso l’eliminazione temporanea di una delle due parti; ma questo inevitabile dogmatismo si qualifica solo se lo si rende tale. L’autopsia è l’inizio o il punto d’arrivo? Se αὐτοψία è la "visione da se stesso"(con i propri occhi) è solamente un inizio, come la dicotomia.

Iniziamo a vedere con i nostri occhi. Dopodiché il resto. Ma vedere con i propri occhi è la partenza che tocca l’arrivo. Se, infatti, della salma, nuda sul tavolo settorio, si raccolgono elementi inerenti alle caratteristiche generali, cioè i connotati, è solo perché sono utili ad una identificazione dei fenomeni.

Terminato l’esame post-mortem però, si riutilizza, felicemente, ago e filo per richiudere, dopo aver ricomposto il cadavere.

Si è guardato il corpo in esame, ci è guardati dentro, si è catalogato per dare una possibilità alla ragione di afferrare e comprendere, si è circoscritto per allargare. Luce-buio; vita-morte; razionalità-emotività non sono celle senza chiavi. Sono cassetti, contenitori aperti che solo la nostra volontà di comprendere deciderà di richiudere, soddisfandosi dell’ordine apparente di tanti concetti accuratamente riposti, oppure di lasciare visibili, a portata di pensiero, guardandoli per quello che sono, fenomeni e sintomi, non strutture portanti.

Ma, alla fine poi, chi utilizza un cassetto per non riaprirlo più? La sua funzione non è quella di riporre per contenere fino a quando si dovrà riprendere un discorso, ancora innumerevoli, infinite volte?

C’è chi utilizza le celle per poi gettarne le chiavi o per murarle, nella disperata e molte volte patetica volontà di conservare, non mutare, non contaminarsi.

Ma, al contrario, lasciare all’aperto, senza un rifugio temporaneo e accessibile con porte ed uscite di sicurezza ogni nostra cloaca mentale, senza un processo dicotomico iniziale, davvero renderebbe fertile il terreno per la relatività di Einstein, l’indeterminazione di Heisenberg, la complementarità di Bohr e l’incompletezza di Godel?

Non si tratta di inscatolare conserve ed etichettarle lasciandole isolate, in cantina, decostentualizzate ed asettiche; ma di preparare le conserve perché queste possano essere il più possibile commestibili, qualsiasi sia l’uso che se ne voglia fare.

Non cadiamo nel paradosso di chi vuole sfuggire al dogmatismo, gridando al dogmatismo…non se ne esce. Può infatti anche accadere che per accusare di dogmatismo la dicotomia dialettica del proprio interlocutore, non ci si accorga di procedere noi stessi proprio attraverso modalità ed espressioni dogmatiche, ed essere ignari di utilizzare a nostra volta strumenti dicotomici.

Per questo sono innamorata dei paradossi. Niente ha tanta ironia.

Pertanto, attenti a definire "irrisolti" a causa di dogmatismi dicotomici coloro che avete deciso di offendere. Primo perché incorrereste nell’inaspettato rischio di fare loro un complimento, e secondo (mi diverte enumerare, si…) perchè cadreste in una contraddizione in termini. Difficile, infatti, essere irrisolti, cioè aperti, se si è dogmatici.

 

Grazie a Dio sono irrisolta. Grazie a Dio non sono compiuta. Non sono finita.

 

P.S. Lo eliminiamo il liquido essudativo del focolaio linguistico?

 

 

 

 

L'immagine The Archaic Remembrance è opera di Larisa Dydorova

 

 

 

 

 

 
 
 
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