ElettriKaMente
Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)
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Tutti i passanti sono gentilmente invitati a lasciare fuori da questo blog:
incontinenze di ogni genere e tipo,
pratiche onanistiche finalizzate alla pubblicazione
e manie persecutorie-vittimistiche,
grazie.
Anche se il blog é moderato, ogni intervento pervenuto viene pubblicato.
Qualora il vostro non risulti, invece, visibile tra gli altri è semplicemente perché, presentando tracce delle sopracitate (incontinenze, pratiche onanistiche o manie persecutorie-vittimistiche)
vergognandosi di se stesso e di chi l'ha messo al mondo, si è autoeliminato.
Capisco che il nome del blog potrebbe trarre in inganno, ma qui non troverete il supporto psichiatrico che andate cercando.
Cordialmente,
Elettrikamente,
EleP.
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Post n°381 pubblicato il 01 Novembre 2025 da ElettrikaPsike
Tag: 2000, 2025, anni 90, confronto periodi, giovinezza, immagine digitale, magia, The Closer, twilight
Non sto propriamente bene, sono molto stanca – l’affaticamento cronico e periodico, dovuto alla mia patologia, è puntualmente costante – e, giocoforza, anche le emozioni sono affaticate, a volte si rendono invisibili e non ho più la forza per andarle a cercare. Lascio che giochino a nascondino, consapevole che c’è stato un tempo in cui non lo avrei permesso. C’è di buono, però, che poi ad un certo punto si decidono a tornare a casa.
Qualche giorno fa, mentre ero orfana di suggestioni, ho sentito persone sconosciute dire qualcosa a proposito del fatto che gli anni Novanta e i primi del Duemila fossero stati più magici rispetto ai giorni d’oggi – evidentemente da loro percepiti come spenti e privi di entusiasmo in generale – e, nel ripensare a quel passato di pura “generazione Xennial”, in un balenio di vertigine, è ritornata la memoria emotiva. Mi ero chiesta anche io, e più volte, se potesse esserci un perché a questa convinzione e, al di là della considerazione meramente soggettiva dovuta al fatto che gli anni Novanta e i primi del 2000 sono stati “i miei anni” – quelli della mia adolescenza e prima giovinezza, quando ero una teenager e poi una ventenne – penso che la risposta abbia anche una sua legittimità più estrinseca. Non credo, infatti, che la magia degli anni ’90 e dei primi 2000 sia dovuta solo alla nostalgia, ma penso abbia anche basi socio-culturali e tecnologiche, se non propriamente economiche (o, perlomeno, non dal 2000 in poi). Quelli sono stati anni di transizione culturale e di libertà creativa in un periodo di forte sperimentazione. Internet e i social erano ancora, in un certo senso, agli albori e la comunicazione molto più lenta ed estremamente selettiva, pertanto ogni scoperta (indipendentemente dal fatto che si trattasse di un gruppo musicale, un videogioco o un sito web, tanto per fare qualche esempio) portava con sé un piacevole sapore di esclusività e di sorpresa. Non c’era la sequela martellante di contenuti immediati e auto-fagocitanti che oggi banalizza le parole e le emozioni. La percezione di novità e scoperta, autenticità ed unicità – in una parola, di pregio – era incommensurabilmente maggiore rispetto ad ora. Dopo la Guerra Fredda e la crisi degli anni ’80, l’Occidente aveva vissuto un periodo di relativa stabilità economica e di sostanziale crescita, con evidente possibilità di mobilità sociale e di sogni un minimo più raggiungibili, il che aveva rimandato colorati echi di entusiasmo per un futuro che appariva più aperto e seduttivo di opportunità concrete. Poi, tra crisi locali, recessioni e passaggio all’euro, nei primi anni del 2000 iniziò ad emergere una chiara instabilità economica e geopolitica. Il terrorismo internazionale – 11 settembre del 2001 – e le guerre successive, non ci offrirono certo scenari sereni o idilliaci e l’ansia era innegabilmente presente su scala globale (inoltre, la crescita economica era decisamente rallentata, tanto che la crisi del 2008 segnò un punto di rottura drammatico). D’altronde, ogni lettura degli eventi storici non può che contraddire l’esistenza di un’epoca totalmente quieta e fiduciosa. Eppure, in quel periodo, sebbene la serenità fosse parziale, relativa e relegata soprattutto all’impressione individuale dei singoli, la magia e il sentore di essere parte di un flusso incantevole c’erano davvero, offerte da un suggestivo mix, composto di novità culturali e limitata saturazione mediatica. Tutto era più intimo, segreto e romantico. I media tradizionali (televisione, radio, cinema) erano centralizzati e condividevano gli stessi riferimenti culturali, creando un senso – talvolta illusorio, talvolta meno – di partecipazione e meraviglia condivisa, mentre oggi l’iper-personalizzazione dei contenuti sui social sta frammentando quel tipo di esperienza collettiva, stravolgendo la sensazione di familiarità e vicinanza. C’era la convinzione di ballare e canticchiare tutti la stessa canzone, muoversi sulla stessa colonna sonora di un film, emozionarsi per una medesima trama o guardare semplicemente la stessa luna, a distanza. Senza fotografarla e soprattutto in silenzio, pensando segretamente a chi ci aveva fatto innamorare. Quegli anni non erano saturi di stimoli istantanei. Il tempo tra un evento e l’altro permetteva di metabolizzare e fantasticare. Il desiderio cresceva lentamente ed anche le risposte si dovevano cercare e costruire nel tempo, scoprendo gradualmente ogni mattoncino e conquistando con dedizione ogni tassello che ci permettesse di raggiungere una visione il più possibile globale. L’epoca digitale, al contrario, ha sostituito tutta quell’attesa con una gratificazione immediata e superficiale. Questo, era. Almeno presentando il quadro nel modo più imparziale possibile. Ma, in definitiva, forse la risposta è che, davvero, ognuno considera magico il periodo in cui ha vissuto il suo momento magico.
Cosa c’era, dunque, di magico per me? La mancanza di iper-connessione e il silenzio. Forse, in una sola parola, twilight. Il crepuscolo.
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Post n°380 pubblicato il 21 Settembre 2025 da ElettrikaPsike
No, non esiste. Anche se è legittimata, non c’è un valore etico o spirituale nell’impartire la morte. La guerra è sempre criminosa e mortifera. E di per sé, quindi, essendo impostata su espressioni di ingiustizia, da un punto di vista etico e morale non può avere mai un valore positivo. Anche perché, per quanto la si consideri necessaria - in condizioni di difesa dalle aggressioni o come liberazione da tirannia - in se stessa resta sempre una scelta tragica. La questione di ciò che viene definito come “l’onore delle armi” è puramente una trasfigurazione simbolica. La forma del conflitto, la disciplina e il gesto eroico sono elevati a bellezza solo quando (e perché) vengono strappati dal loro contesto brutale. Ma il campo di battaglia è soltanto distruzione, sangue e caos. Ogni bellezza nella guerra è sempre una costruzione retrospettiva e culturale. Ed anche tutte le tradizioni belliche (dal bushidō giapponese a quelle cavalleresco europeo, per intenderci) che hanno proposto la guerra come una palestra interiore, un’occasione per superare la paura affrontando la morte per forgiare il carattere, entrano in un inevitabile paradosso, perché ciò che per il singolo può sembrare una crescita spirituale, per la collettività resta inevitabilmente un annientamento. Detto questo, la guerra – come qualsiasi azione che porta dolore, violenza e morte – è l’ennesima espressione ineliminabile di un ordine cosmico che abbiamo deciso di rendere duale (pensiamo al πόλεμος di Eraclito) con gli opposti luce e tenebra, amore e odio, pace e conflitto che si alternano costantemente come polarità atte a definire la totalità del reale. Banalmente, quindi, l’uomo si trova in un contesto in cui non esiste la vita senza la morte, la costruzione senza la distruzione e, nella fattispecie, neppure la pace senza la guerra. Se il conflitto bellico appartiene all’ombra dell’uomo, pero', è anche parte di quel medesimo tessuto che include il desiderio di possesso, la violenza sessuale, la sopraffazione e il delitto, pertanto pensare di eliminarlo totalmente è come pensare di eliminare anche la condizione umana, visto che ciò che chiamiamo "male" è solo un corpo - più o meno estraneo - attaccato alle radici della storia. Giusto per semplificare – e indipendentemente da qualsiasi credo religioso o agnosticismo – nell’Ecclesiaste si legge che c’è un momento per ogni accadimento sotto il cielo, e lo spiega in modo decisamente esaustivo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante; un tempo per uccidere e un tempo per guarire; un tempo per demolire e un tempo per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere; un tempo per dolersi e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli; un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci; un tempo per cercare e un tempo per perdere; un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire; un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace. E, fondamentalmente, la vita è tutto questo. D’altro canto, però, anche il tentativo di abolire la guerra risponde ad un impulso che appartiene alla natura umana, vale a dire l’aspirazione ad una condizione il più possibile integra e senza sofferenza. Ma questo anelito, pur generando progetti individuali e collettivi (morali e politici) si scontra pur sempre con la realtà che gli opposti non possono essere aboliti senza dissolvere il tutto. In altre parole, il cosiddetto male – sia esso dolore, ingiustizia, sopraffazione, violenza o morte – non si annulla mai; al limite si contiene e si riduce, ma rimane. Ciò che si può fare è trasformarlo. Difatti, ammetterne l'esistenza non deve significare accettarlo fatalisticamente o con becero lassismo. Anche la guerra non va accolta dall’umanità con rassegnazione ottusa, sebbene il progetto della cosiddetta “pace perpetua” sia una costruzione tanto ingenua quanto fragile – Kant stesso ne ha parlato più come una sorta di compito regolativo che non come uno stato effettivamente e completamente raggiungibile – visto che ogni generazione al mondo non può che riprendere il confronto con il lato oscuro della propria condizione antropologica. Nessuno di noi è solo bellezza, armonia e “peace and love”. Tantomeno chi lo predica. Si deve ammettere che il principio di conflitto è comunque impastato nell’essere umano; ma ricordarci che la volontà di rigettarlo nasce dal desiderio - altrettanto umano - di separare l’ombra dalla luce. Quindi, anche se questa aspirazione si scontra con il fatto che senza ombra non vi sarebbe né giorno né vita, allo stesso tempo è pur vero che ci sono diversi modi e livelli di essere fallibili e imperfetti e non siamo tutti ugualmente sciagurati. Prima di arrivare al crimine e alla tragedia, infatti, qualcuno possiede anche l’accortezza di fermarsi. Pur conoscendo il dolore e la morte, l’uomo può rigettare la guerra smettendo di accoglierla come un destino naturale, magari assumendosi la responsabilità di considerarla una scelta storica e, quindi, modificabile. O, almeno, questa è la mia convinzione.
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Post n°379 pubblicato il 03 Agosto 2025 da ElettrikaPsike
Tag: Bellezza, desideri, divino, fanciullezza, incanto, innamoramento, Joan Mirò, magia, Marc Chagall, Matto, Tarot, Vangeli
«In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.» (Mt 18,3; Mc 10,15)
Ho letto una poesia di un amico, un’esperienza poetico-mistica in cui l’infanzia diventava accesso ad una realtà superiore, custodita da un mago che accende lune tra gli alberi. In sostanza, ha ricreato l’Eden con immagini di conoscenza, bellezza e verità che orbitavano in un giardino privato della loro coscienza. Perché la bellezza magica dell’innamoramento infantile non è data solo dall’ingenuità fiabesca e nuova ma dalla capacità di essere maghi. Autentici e divini. Ancora tanto vicini a quegli dèi che si è stati. E da quello spunto, in questo post di quasi ormai mezza estate, vorrei ricordare – prima di tutto a me stessa – che l’innamoramento dell’infanzia non è affatto un sentimento ingenuo o tenero, ma un atto di percezione incantata ed evocatrice in cui il nostro spirito – oppure anima, io, o in qualsiasi modo si preferisca chiamare la parte più intima, invisibile e autentica di noi – non è ancora scisso ed amputato dalla razionalità cinica e scettica o dalla pretenziosità difensiva. Un sentimento intatto che può ancora emanare bellezza incontaminata e riceverla. Perché si sta parlando di una condizione magica originaria. Ed è poeticamente intensa perché nuda, disarmata e forte, coraggiosa e onesta nella sua verità, ancora completa e struggente, benché leggera, stupita e nuova, ma soprattutto perché è una condizione mistica. Quando la si vive si è ancora fanciulli divini, capaci di accogliere simboli, forme e archetipi senza doverli per forza decifrare. Il mago nel giardino – che metaforicamente accende lune tra i rami – non è altro che quello stesso bambino, ancora integro del proprio potere immaginativo. Per questo l’innamoramento infantile è epifanico. E quando si manifesta, anche l’universo lascia cadere i suoi veli e si lascia guardare perché sa di essere guardato da un dio fanciullo, da un bambino magico che non vive alcuna separazione tra coscienza e mondo, in totale trasparenza ontologica. D’altronde, il fanciullo simboleggia la purezza data dall’apertura e dalla fiducia radicale, vale a dire la condizione di grazia esistenziale per antonomasia, anche da un punto di vista teologico. Eppure, quella risorsa infinitamente divina appartiene a tutti e non solo a pochi eletti. Ed ugualmente la esprime il puer della Tarot – simbolo archetipo del potenziale infinito, del non condizionato che si unisce alla fine precedendo l’inizio, ma anche dell’innocenza libera da sovrastrutture adulte e dogmatiche – in quanto altro non è se non l’energia creativa e la fiducia impavida, il salto nel vuoto con il cuore aperto. Come il bambino evangelico, anche il Matto può accendere ogni scintilla e aprire tutti i varchi e questo unicamente perché ancora non è stato modellato, vive senza scudo razionale, splende di potenzialità senza tempo, magnificamente predisposto al mistero.
Tra poco arriverà la notte delle stelle cadenti e dal momento che il verbo desiderare etimologicamente significa accorgersi che c’è molto altro, al di là di ciò che le stelle ci stanno concedendo, l’augurio è uno solo, per tutti: Che ognuno possa ritrovare la propria visione incantata del reale...
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Una volta ho letto una domanda su internet che mi sembra si articolasse più o meno così: Cosa resta dopo?
In un periodo in cui mi interrogo quotidianamente su cosa resti per me – dopo gli impegni inderogabili, dopo un lavoro intransigente, dopo tutto ciò che incombe decurtandoci sistematicamente la razione di tempo necessaria a mantenerci biologicamente vivi – per esistere al di là del respirare, quella domanda chiedeva che cosa rimanesse
dopo l’amore, dopo il disastro, dopo il silenzio.
Ed ho pensato di rispondere, istintivamente, di getto, in una sera di metà giugno torinese, incerto se tuffarsi nell'estate o abbracciarsi ancora ai cieli plumbei, piovendo altri scrosci ventosi e umidi su una primavera ancora fredda. Ci ho pensato e, inevitabilmente, mi sono risposta che rimane il prima che non si perde, il non ancora che preme sul bordo, il durante che si spalanca nell’ovunque e una temporalità che, in verità, è configurazione apparente. Allora, cosa resta dopo? Dopo l’amore, dopo il disastro, dopo il silenzio (ma anche dopo gli impegni inderogabili, dopo un lavoro intransigente, dopo ciò che incombe decurtandoci sistematicamente la razione necessaria a mantenerci biologicamente vivi) resta il prima e il non ancora. Il durante. E tutta l’infinita possibilità che porta con sé un tempo che, in sostanza, nemmeno esiste.
E ho pensato che non è affatto poco.
Immagini TIME – curiouscat RobertoUno – InnerREALISM
N.B. Lancio qui un'altra domanda - che mi era stata posta da misteropagano nei commenti del post precedente e data la mia lunga assenza era rimasta in moderazione - perchè l'interrogativo si rivolga a tutti: ... in merito alla tua chiosa e l'energia emanata dalle parole, e le molteplici e riassuntive tesi sul valore della parola: non trovate che il bi pensiero che in parte ci affligge epocalmente abbia bisogno di essere annoverato in lista aggiornata e discusso, compreso e in qualche modo pertanto superato? L'instabilità del senso, della forma e della sostanza, la fibrillazione continua dell'osservazione, non ci fa irrimediabilmente provare una vertigine dello stesso senso? GRAZIE MISTI... |
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Post n°377 pubblicato il 10 Maggio 2025 da ElettrikaPsike
Si legge su più testate - alcune più attendibili ed accurate, altre meno - e poi, confusamente, a rimorchio anche sui social, che lo psicoanalista, filosofo e sociologo (ma non linguista) Umberto Galimberti, avrebbe sostenuto che gli adolescenti italiani di oggi possiedono un lessico di poche centinaia di parole. In realtà, la cosa è del tutto inverosimile perché sappiamo bene che, in media, già un bambino di tre anni arriva a conoscerne più del doppio. Per affrontare un linguaggio "normale" dovremmo avere un piccolo bagaglio di almeno 7.500 parole e con poche centinaia non potremmo neppure balbettare con un infante. Premesso questo, però, tanto che Galimberti abbia utilizzato o meno un'iperbole, resta il fatto che nella sostanza ha comunque ragione. Non è un mistero che stiamo diventando tutti realmente orfani di un lessico prospero e, aggiungo, non è nemmeno un segreto che, grazie all'ignoranza, si stia diventando anche un tantino "handicappati emotivi”. Ma la responsabilità è nostra. Platone sosteneva senza mezzi termini che se gli ateniesi non fossero stati abbastanza istruiti, nessun tipo di educazione sarebbe stata davvero praticabile, pertanto finché non ci fosse stata una effettiva formazione sarebbe stato meglio che venissero regolati dal governo dei "migliori" (ἀριστοκρατία) vale a dire tutti coloro che - al di là dei privilegi dettati dalla nascita e dalla ricchezza - erano ritenuti superiori per virtù, capacità e valore. Oggi è vistosamente il contrario. E, per quante possano effettivamente essere le parole conosciute da un ragazzo nel 2025, sono comunque poche. Galimberti ha ragione anche sul fatto che esiste una cosa fantastica chiamata letteratura. Difatti è da essa che tutto parte e s'impara. Morte, vita, amore e dolore, gioia, malinconia; ma anche noia, etica ed estetica, erotismo e misticismo. Tutto. Eppure, la letteratura è stata messa in un angolo e trascurata. Va bene, mi verrebbe da dire a chi la reputa inutile, credendo di potersi occupare puramente di discipline ben più pragmatiche e apparentemente funzionali, pensando stoltamente che queste possano prescindere da essa. Allora fatelo, trascuratela; ma poi non lamentatevi se siete disarmati e impotenti, aggressivi e sciocchi, inebetiti e vuoti, banali e prevedibili, mediocri e volgari, inutilmente fastidiosi e ridicolmente provocatori. E non lamentatevi nemmeno se per questo la gente vi evita. È una vostra libera scelta. La letteratura salva, un ambiente linguisticamente impoverito affossa. E in un contesto deprivato di stimoli linguistici, inevitabilmente, ci si abitua anche a pensare poco e male, perché il pensiero si struttura proprio attraverso le parole. Un tempo si leggeva per noia, per curiosità, per immaginare; ma se oggi i ragazzini vengono esposti prevalentemente (e precocemente) ad immagini, reels, contenuti brevi, frasi spezzate, emoticon, emoji (et similia) e se il fatto stesso di parlare in modo preciso viene guardato con sospetto o lo scrivere con proprietà viene scambiato per ostentazione, di chi è la responsabilità? In un film "horror" di qualche anno fa, Vivarium, ambientato in un contesto immobile e solo apparentemente perfetto come un quadro di Magritte, una coppia disperata e in trappola alleva un piccolo mostro. Ma il punto reale della storia è: era già un mostro o semplicemente lo è diventato di riflesso al suo ambiente e per come è stato educato? Se neppure si richiede ai ragazzi d'imparare a scrivere con accuratezza e si tollera bonariamente qualsiasi nefandezza - banalità, errori logici e grammaticali, scarsità linguistica - in un tacito elogio alla pochezza ed è proprio la scuola stessa a smettere di correggere chi dovrebbe erudire nel timore di “mortificarlo", preferendo abbandonarlo al suo analfabetismo funzionale senza troppi rimorsi, che cosa si può pretendere? Se per comunicare “ci 6?”, “ok”, “lol”, “like” non servono neppure 300 parole, perché mai la cultura dovrebbe avere ancora un senso per un bambino o per un adolescente? Come possono conoscere il valore di un linguaggio, se nessuno si preoccupa di insegnarglielo? I ragazzi non sono stupidi mostriciattoli, a meno che non siano gli adulti a volerli plasmare come tali. E se offriamo loro una cultura composta da 600 parole scarse, li stiamo obbligando a vivere, a porte chiuse, in una stanza senza finestre. Ed allora i veri mostri siamo noi.
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