Creato da ElettrikaPsike il 17/12/2012

ElettriKaMente

Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)

 

 

« UN'ARIA D'INFINITO MI COMMUOVEEPATER LES BOURGEOIS N°3 »

DIGRESSIONE VIVARIUM

 

 

Pur restando pienamente nell’intento di epater les bourgeois, questa volta procederò per una via traversa, imboccando il percorso cinematografico di una pellicola di Lorcan Finnegan: Vivarium (letteralmente, recinto per animali da allevare in condizioni prossime a quelle naturali).

Di questo film – un’allegorica versione del prototipo di ligio conformismo in profumo di borghesia e dintorni ed amalgamata in tinte alienanti – si è detto, scritto e recensito veramente di tutto ma, con mio rammarico, nessuno fra i molteplici recensori che ho letto ha impugnato una benché minima chiave o, quanto meno, una matita sufficientemente temperata per disegnare la sacrosanta (ri)soluzione finale.

La trama è quella semplice e di per sé metaforica di una vita preconfezionata ed un tantino deludente. Una giovane coppia, desiderosa di accasarsi, si lascia consigliare da un bizzarro ed alienato agente immobiliare che li conduce a visitare un’ordinata ed accessoriata villetta in un asettico, rigorosamente lineare, desolato e verdissimo quartiere più irreale d’un quadro di Magritte. Al termine del giretto illustrativo, lo strano individuo sparisce nel nulla; ma il problema vero inizia a presentarsi nel momento in cui la coppia si accorge di non potere affatto allontanarsi da quel quartiere di casette color menta pastellata sotto un cielo di nuvolette statiche, perché si disvela un interminabile labirinto uguale a se stesso. 

Il “recinto entro il quale allevare animali in condizioni prossime a quelle naturali” da cui prende titolo il film, inizia a delinearsi ancor più chiaramente, però, nel momento in cui, tra le scatole che compaiono dinanzi a loro contenenti viveri dal sapore artificiale, in perfetta linea con una vita di plastica, ne trovano anche una al cui interno c’è un neonato da crescere. Non ci sono altre indicazioni sulla scatola, all’infuori dell’esortazione ad allevarlo per poter essere nuovamente liberi. 

Il bambino sembra essere una sorta di alieno antropomorfo sullo stile in miniatura dell’agente immobiliare. Cresce ad una velocità inquietante ed imita i genitori in ogni cosa, apprendendo i loro atteggiamenti e riproducendone perfettamente le voci. L’infante, inoltre, non si limita mai nello strillare come un ossesso per ottenere nutrimento ed ottenere ciò che vuole, mostrandosi, con il passare del tempo, sempre più simile ad un animale parassita (e non a caso all’inizio del film, si vede appunto un cuculo – volatile profittatore per antonomasia – affidare i propri piccoli ad una madre surrogata anziché sfamarli da sé), restando fondamentalmente inerte e per lunghi periodi ipnotizzato davanti ad una fittizia televisione che trasmette esclusivamente frattali in bianco e nero.

La disperazione, piano piano, riesce ad allontanare anche la coppia innamorata: lui passa i suoi giorni cercando una qualche via di uscita scavando assiduamente una fittizia fossa in giardino, mentre lei cerca di resistere, oscillando tra momenti di compassione ed altri di assoluta repulsione verso quello strano bambino e la loro nuova vita in trappola.

 

 

OCCHIO ALLO SPOILER!

CAMBIATE POST, VOI CHE NON AVETE VISTO (MA INTENDETE VEDERE) VIVARIUM.

Il film, ovviamente, non finisce bene. Dopo aver cercato in diversi modi di uscire, infatti, entrambi i protagonisti muoiono ed il figlio alieno, divenuto ormai adulto, esce dal quartiere solo per andare a sostituire il predecessore ormai morente all’interno dell’agenzia immobiliare. Contribuendo, in questo modo, a ripetere all’infinito la storia.

I punti su cui fare attenzione, però, vanno ben oltre le evidenti metafore di vita preconfezionata in un percorso prestabilito da forze “aliene”, nonché invisibili, che inducono ad un futuro composto di "casa-consumismo-figli e morte". Un percorso già tracciato che sembra trovare breve interruzione solo grazie a sporadici svaghi (i protagonisti del film ritrovano un unico momento di spensieratezza ballando la musica dallo stereo della loro macchina ormai rimasta ferma, senza più benzina) e dai ricordi di contesti passati (l’auto, difatti, sembra essere l’unico ambiente ancora reale, una sorta di isola felice che mantiene il profumo della vecchia vita).

In buona sostanza, ed in questa prospettiva, le ipotesi sembrano essere solo 2: se va bene si muore sfiancati dal lavoro con il conforto del ricordo (come accade al protagonista maschile), ma se va male si termina la propria esistenza semplicemente sepolti ancora vivi (come accade a lei) perché, come spiega chiaramente il figlio imposto, il solo scopo di una madre è allevare il figlio, dopodiché non le resta che morire.

Ma al di là dell’innegabile richiamo ad una vita spesa su rigidi percorsi lineari, c’è da considerare che, unanimemente, il ragazzino inquietante viene liquidato con sorprendente facilità dal pubblico che ha recensito il film alla stregua di mostro. Arrivando, in taluni casi, a scomodare addirittura Rosemary’s baby per poterlo considerare diabolico. Al contrario, la coppia viene considerata soltanto come una vittima senza alcuna responsabilità, semplicemente condannata ad un’inevitabile e tragica fine.

Esistono, però, alcuni elementi allegorici che sembrano essere stati del tutto ignorati e rimasti sorprendentemente invisibili agli spettatori, proprio come invisibili risultano essere le forze aliene che tengono in ostaggio la coppia.

Proprio quel bambino così terrificante, infatti, quando la “madre surrogata” gli dimostra un minimo d’interesse e volontà di avvicinamento, esprimendo anche il desiderio di decifrare il suo mistero, sembra fare una sorta di passo verso di lei, consegnandole un libro privato, nonchè pieno di simboli dal linguaggio incomprensibile che, dal canto suo,  però, la donna non si prende affatto la briga di decifrare. Esattamente come non sembra interessata a capire che cosa fossero quei frattali che il bambino, nel corso del film, guardava ipnotizzato sullo schermo del televisore.

Anche questa inspiegabile mancanza di curiosità dei due protagonisti verso tutto ciò che a loro è ignoto è un'altra stranezza che non viene colta dal pubblico. I due, infatti, si limitano a trascinarsi nella nuova vita-labirinto e a disperarsi per la loro condizione senza mai cercare, neppure per una volta, di comprenderla.

La coppia, totalmente vinta dallo sfinimento, non ha né la voglia né la forza per opporsi al bambino, pertanto non gli nega nulla: desistono dall’allontanarlo da quello schermo ipnotico e assecondano i suoi strilli, non prendendo neppure per un attimo in considerazione l’ipotesi di crescerlo in modo differente. Stremati, si trascinano giorno dopo giorno lasciandosi vincere dal labirinto. Eppure, a voler guardare con un po’ di attenzione, proprio quel mostruoso ed inquietante bambino riesce a manifestare anche margini di potenzialità differente e inaspettata, con barlumi di umanità non prevista e del tutto scartata a priori.

Si, è vero, esistono alienità agghiaccianti nel film - così come esistono anche nella realtà - elementi invisibili che sembrano condizionare e scandire segretamente la vita, togliendo autenticità e annichilendo, letteralmente, mente e anima; ma forse, come sempre accade, è solo una nostra scelta quella di credere che esistano forze esterne a noi a determinare il corso dell'esistenza. Magari identificandole in un figlio non voluto, in una casa che ci sta stretta o nelle giornate tutte uguali, srotolate in una apparentemente molto comoda e fasulla tranquillità da cui non si riesce a scappare. 

La protagonista, ad un certo punto, rincorrendo il figlio imposto ormai adulto, cade in una sorta di tana del bianconiglio di Alice e capisce che la sua vita nella trappola a forma di  quartiere residenziale è sempre stata un meccanismo che, forse, non ha mai voluto vedere.

Nella caduta, molto simile ad una discesa agli Inferi, sprofonda nelle dimensioni delle case adiacenti o sottostanti di tante altre coppie, scoprendo che non erano affatto soli in quell'incubo e che, di fatto, ci sono moltissime altre coppie fatte a pezzi e disastrate, con altrettanti figli agghiaccianti e non richiesti a fare i parassiti davanti allo schermo acceso, seppure ogni personale nucleo viva una dimensione isolata ed invisibile all’esterno.

Il salto della donna dimostra, così, che il coprotagonista maschile aveva trascorso inutilmente i suoi giorni scavando una fossa con la pala in giardino, quando per andare oltre la superficie di una dimensione artificiale ciò che serve non è mai una vanga, ma un salto dentro se stessi.

Vivarium, però, è stato ideato per essere etichettato come una storia senza via d’uscita e dovunque cercherete sul web troverete solo risposte senza soluzione. Eppure le chiavi per aprire una fuga ci sono.

A ben guardare, persino l’indicazione di allevare il pargolo, all'inizio del film, poteva prevedere un'alternativa alla scelta obbligata. Se da un lato, infatti, si riferiva chiaramente alla liberazione inevitabile dovuta alla morte, dopo aver speso una vita disperata a crescere un mostro, d’altro canto poteva anche significare una liberazione offerta da un’apertura ad orizzonti inimmaginabili, in grado di gettare le basi per un futuro diverso.

Per tutti, bambino compreso.

Ragionando per sliding doors, quindi, la coppia avrebbe semplicemente potuto provare ad imparare il linguaggio del libro criptato, aprendosi ad una nuova lingua. O, magari, in alternativa, creare un terzo linguaggio che potesse spalancare confini differenti, in grado d’insegnare al bambino emulatore un amore che avrebbe in qualche modo potuto apprendere.

Forse, educandolo alla creatività e ad un calore a lui del tutto precluso,  i due adulti sarebbero diventati esempi di una vita differente da imitare. Insegnanti capaci di modellare paesaggi non più statici e cieli non più artificiosi sotto i quali anche le fragole avrebbero potuto avere, probabilmente, un sapore più gustoso.

E, paradosso tra i paradossi, c'è da evidenziare che il lavoro dei neo-genitori del film è proprio, rispettivamente, quello dell’insegnante d’infanzia e del giardiniere…Chi, dunque, meglio di loro, avrebbe dovuto saper coltivare l'educazione del pargolo, modellandolo in ben altre prospettive?

Verso la fine del film, poi, quando il protagonista sta per morire sul ciglio della strada abbracciato alla donna che ama, ricordando i tempi felici ed iniziali della loro storia, le dice di sentirsi a casa, anche lì. A dispetto di ogni trappola o labirinto materiale e fisico intorno a lui ad imprigionarlo. Eppure, anche questo passaggio sembra essere passato inosservato nelle recensioni. 

Ed è un peccato. Perché, forse, una facile uscita dal labirinto smette ad un tratto di essere impossibile nel momento in cui si arriva a comprendere che gli alieni non sono più sconosciuti da temere e che non esiste trappola esterna che ci impedisca di trovare casa all'interno di noi o che qualsiasi bambino, in definitiva, è uno specchio che ci mostra il tipo di educazone che ha ricevuto, in quanto da subito non fa che imitare e riprodurre coloro che sono stati preposti ad allevarlo.

Il punto di tutta questa mia solfa cinematografica, dunque, è solo per dire che nella vita, proprio come nell'arte, la prassi comune resta quella del lassismo impotente. E laddove viene rilevata e mostrata la pochezza mortificante ed estraniante, raramente vengono anche proposte soluzioni, ma ci si limita soltanto a considerare il problema in se stesso... 

 

 
 
 
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