Creato da ElettrikaPsike il 17/12/2012

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Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)

 

Messaggi di Gennaio 2020

SULLE PAROLE BRUTTISSIME - Estetica del linguaggio -

 

 

 

 

 

Davvero esistono parole “belle” e parole “brutte”?

Ma se esistono, che cosa le rende tali?

Non certo o non solo un punto di vista contenutistico legato al messaggio che la parola ci vuole portare, perché se ogni termine legato a situazioni e condizioni spiacevoli dovesse essere considerato una brutta parola, allora anche utilizzare vocaboli quali “violenza”, “odio”, “disgusto” piuttosto che “tristezza” o “angoscia”, letteralmente, significherebbe “dire parolacce” e, in uguale misura, anche farcire un discorso con accademici rivestimenti di realtà niente affatto belle - utilizzando, ad esempio, termini quali “stupro”, “tumore” o “neoplasia” - sarebbe, comunque, un abbandono al turpiloquio...

Quindi, appurato che non è un significato spiacevole a rendere “brutta” una parola, dobbiamo ammettere  che non è, però, nemmeno il suo aspetto a renderla tale.

Proviamo a scrivere:

ll termine “felicità” non è graficamente meno bello di “ansia” e, sinceramente,  “mielite” non è una parola esteticamente più spaventosa di “miele”, eppure la prima indica una sindrome clinica immuno-mediata del sistema nervoso centrale, mentre la seconda ci riconduce ad un nettare dolce e nutriente prodotto dalle api.

Probabilmente, allora, verrebbe da chiedersi se non sia il suono a rendere disprezzabile una parola invece di un’altra. Quest'ipotesi potrebbe anche avere un senso, eppure, di fatto, le cose non stanno nemmeno in questo modo perché non sono neppure poche le parolacce di una qualsiasi lingua che possono risultare anche gradevoli nel suono o per l'aspetto dei caratteri - pensiamo anche solo ai logogrammi - a chi è estraneo a quel linguaggio e non ne conosce il significato. 

Ed inoltre, sono molte anche le parole non propriamente musicali o melodiose e magari aspre, gutturali o dal suono secco, asciutto, intransigente (anche tra quelle propriamente onomatopeiche) ad essere largamente utilizzate ed onorate in una classificazione lontanissima dalle parolacce; mentre altre, magari fluide, ammalianti, ipnotiche e dolcissime, come le sirene, con i loro suoni portano altrettante terribili promesse.

Ci sono, però, alcune parole che sembrano essere fatte apposta per enfatizzare la loro esistenza. Si tratta, infatti, di tutti quei termini che abitualmente esprimono in modo basico e crudo - e con evidente intento offensivo - le pulsioni fondamentali dell'uomo, dall’impulso sessuale alle necessità biologiche fino ad ogni sfumatura di contrarietà e aggressività.

Le “parolacce” diventano, così, le armi verbali per esprimere nel modo più immediato e primitivo possibile la necessità, il disgusto, la rabbia, il dolore e la paura.

Fino a non molto tempo fa, le “parole volgari”, letteralmente erano quelle attribuibili al “volgo” - inteso con un’accezione marcatamente dispregiativa per indicare la classe popolare più arretrata all’interno di una collettività sociale - pertanto, utilizzare le parole volgari altro non era se non un sinonimo di povertà intellettiva, di carenza di linguaggio e di pigrizia, oltre che di evidente sguaiatezza. Oggi, però, le cose sembrano stare diversamente.

Tra una contraddizione e l’altra, infatti, la psicologia moderna (Richard Stephens) sostiene che l’utilizzo del turpiloquio possa addirittura aiutare a meglio sopportare il dolore, inducendo all’analgesia e a compiere sforzi più grandi.

Io credo che, tanto per il linguaggio come per ogni altro ambito (parola, azione…), sia il contesto a stabilire l’efficacia e la pertinenza di una scelta.

Sul Corriere della Sera, Nicola Cardini una volta scrisse una bellissima affermazione: Un vocabolo è bello quando rende belli tutti gli altri, ed il loro insieme si dimostra armonioso e logico.

E’ così, il senso non sta mai tutto in una sola parte.

Anche gli dei della lingua italiana - da Dante a Niccolò Machiavelli (et cetera) -  utilizzavano termini postribolari; ma la differenza tra una parolaccia volgare ed una parolaccia sensata ed appropriata sta nell’intelligenza di chi la dice. Quando serve è giusto che ci sia ma è solo l’acutezza di chi sceglie di utilizzarla a decidere se, quando e come serve.

C’è però un’ultima cosa che voglio aggiungere sulle brutte parole…Tutto quello che si è detto finora sui cosiddetti “termini volgari”, a mio avviso, si può tranquillamente riferire anche alle parole abusate, e a tutte quelle estrapolate dalla grande distribuzione organizzata a basso costo di alcuni spot e blog che “influenzano” il mercato.

Mi riferisco a termini tanto usurati da centinaia di pseudo giornalisti da essere ormai guasti, come l’immancabile aggettivo “solare” per descrivere una persona ilare e socievole, fino ai più recenti e ferocemente infettivi tre moschettieri del circuito della cura estetica - “beauty routine”, “skincare” e “texture” - che, per il loro utilizzo indiscriminato e reiterato, si dimostrano evidentemente qualificativi d'indubbia povertà linguistica, di conformismo subordinato e di una pedissequa accettazione, oltre che di una pigrizia intellettuale imbarazzante.

Talmente imbarazzante da farli rientrare a giusto titolo in tutti quei criteri d’idoneità che classificano le brutte parole.

Mi permetto, quindi, di lasciare qualche suggerimento a tutti coloro che li propagano, nel caso in cui, pur decidendo di redimersi - e riconoscendo, finalmente, la bruttezza del linguaggio fino ad ora utilizzato - non riuscissero, comunque, a superare l'assuefazione alla pigrizia.

Ecco, dunque, i sinonimi:

Invece di "Beauty routine" si possono decisamente utilizzare: "consuetudini", "iter", "pratiche", "gesti", "abitudini", "prassi di bellezza";

Anzichè ostinarsi a scrivere "Skincare" solo perché è stato inserito nella grande famiglia della nomenclatura tecnica e collettiva del settore, apparirebbe un pò meno scontato optare qualche volta per i semplici "trattamento" o "attenzione, protezione e cura" della pelle…che saranno anche ugualmente banali ma, fidatevi, rispetto a quante volte si legge lo stesso significato mascherato in lingua inglese, diventano quasi musica (e, per chi non lo sapesse ancora, riportare un termine in una lingua differente dalla propria, non lo rende improvvisamente inaudito o neurotonico...);

Per quanto riguarda "Texture", riferito al derma, poi, di alternative meno nauseanti ne abbiamo a profusione: da "trama" a "struttura", da "grana" a "consistenza" in avanti…Tanto vale cambiare di volta in volta.

Sia chiaro, io non sono una purista della lingua, anzi...E riconosco che ogni parola nasce da una madre di origini lontanissime e di difficile collocazione, quindi accetto con piacere contaminazioni e affiliazioni... ma non faccio sconti di nessun tipo per gli abusi che deteriorano gli occhi e le orecchie.

“Solare”, infatti, come “interessante”, sono solo due tra i numerosi termini incontestabilmente italiani di cui è stato fatto scempio. E sono entrambi lisi, né piú né meno, ma in tutto e per tutto quanto la sopracitata "texture" e le sue sorelle straniere...

 

 

 

 

 
 
 

We don’t need no thought control

Post n°297 pubblicato il 03 Gennaio 2020 da ElettrikaPsike
 

 

Tempo fa leggevo un post nel blog di un utente amico, ed ho pensato che parlare di muri, facesse bene anche qui, nel mio Labirinto.

 

 

"I don’t need no arms around me

And I don’t need no drugs to calm me

I have seen the writing on the wall

Don’t think I need anything at all"


Una veloce stima:

Nel 1989, dopo la caduta del più celebre - il muro di Berlino - se ne contavano quindici.

Poi siamo arrivati a più di 60. Una ventina solo negli ultimi anni.

Qualcuno dice che si può legittimamente parlare di quella attuale come l’era dei muri…ma questa “Age of walls”, a parer mio, è un’era infinita. Perché dove non si parla di quelli fisici ne abbiamo altrettanti se non di più, di muri metaforici, mentali, culturali, emotivi.

Un terzo dei Paesi del mondo presenta recinzioni di diverso tipo lungo i suoi confini (nel continente africano se ne contano 12, due sono i muri che dividono l’America, separando gli Stati Uniti dal Messico, e quest’ultimo dal Guatemala, 36 quelli che frammentano l’Asia e il Medio Oriente e 16 sono le recinzioni che attraversano l’Europa, la maggior parte delle quali localizzate nella parte orientale del vecchio continente).

Dal 2000 in poi circa diecimila chilometri di cemento e filo spinato hanno confinato territori, s’innalzano recinzioni di ogni tipo e ci si blinda per arginare i flussi migratori e per proteggersi dal terrorismo ma anche per separare gli abitanti di una zona ricca residenziale da quelli della baraccopoli limitrofa (tra l’altro in uno Stato che solo nel 1994 riuscì a scrollarsi il marchio dell’apartheid).

C’è un muro per ogni gusto, religione, popolo…dal muro che separa la Repubblica Greca di Cipro dalla Repubblica Turca di Cipro, alla “Peace-Line” di Belfast per separare in Irlanda la Belfast cattolica da quella protestante; c’è la barriera del 38esimo parallelo che frammentò la Corea del Nord e la Corea del Sud; ci sono i muri eretti dall’India al confine con il Pakistan e al confine con il Bangladesh; ci sono i confini militarizzati fra l’Arabia Saudita e lo Yemen.

E poi c'e l’iconica situazione d’Israele… che ha letteralmente recintato se stessa, circondata da barriere che la isolano sia all’esterno dalle nazioni limitrofe, sia all’interno rimarcando gli eterni conflitti della Terra di Canaan.

E per ogni muro solidificato ci sono stati migliaia di piccoli e grandi muri mentali a preparare il lavoro… In Giappone, migliaia di adolescenti - definiti hikikomori - vivono in disparte, affetti da una sindrome da isolamento volontario, all'interno della loro stanza, a consumare una vita virtuale in un rifiuto silenzioso del mondo. Il loro è un confine tanto fisico quanto interiore ed il muro che innalzano è probabilmente fatto di paura. Tutto sommato, quindi, anche loro soltanto un altro mattone nel muro…

Eppure, come ogni altra cosa, anche un mattone può trasfigurarsi: i Pink Floyd, nel 1979, questa barriera mentale e psicologica la fecero diventare musica, erigendo un muro fatto di note e di parole che divennero una parte privilegiata della storia del rock.

Io credo che ognuno di noi possa scegliere di dire "Ho capito quello che sta succedendo. Dopo tutto erano solo mattoni nel muro. Dopo tutto eravate tutti solo mattoni nel muro".

 

 

"Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”

(Gal 3:25-28)


 
 
 

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