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Post n°845 pubblicato il 13 Febbraio 2020 da enodas

 

 

 

"...The ruins of Machu Picchu are perched on top of a steep ridge in the most inaccessible corner of the most inaccessible section of the central Andes. No part of the highlands of Peru has been better defended by natural bulwarks—a stupendous canyon whose rim is more than a mile above the river, whose rock is granite, and whose precipices are frequently a thousand feet sheer..."

(Hiram Bingham)

 

 

Inizia così, da una strada talmente stretta e tortuosa da costringere il furgoncino ad ogni svolta a fermarsi ed indietreggiare per cercare un punto dove due mezzi in senso di marcia opposta si possano affiancare. Ogni svolta é una linea sempre più sottile che tende a scomparire lungo il fondo della Valle Sacra, fino a terminare in un piazzale al chilometro 88. E' qui che, sfilato un pugno di caramelle alla coca, lascio lo zainetto su una pezza di tela cerata attorcigliando il resto attorno alla borsa della macchina fotografica. Inizia così, con una mattina di sole, ed un piccolo ponte di legno, l'ultimo capitolo del mio racconto, quello attorno cui alla fine ho construito questo viaggio, nei giorni, nei luoghi e finanche nelle variazioni d'altitudine. Quello attorno al quale ruota il mio essere qui. Varcando l'ingresso del Camino Inca, sento che é come un passo oltre il confine, entrare nel sogno, in tutte le aspettative che sono cresciute, giorno dopo giorno, un salto in avanti verso un piccolo ignoto, un'ultima avventura su queste montagne ad alta quota, ed il primo timbro su una risma di carte é il cuore a fare un balzo, il primo passo lungo una strada che affonda nel mito e alle porte del mito, seguendo il popolo delle nuvole, mi porterà.

 

 

Lo avevo avvertito alla prima salita. Che in confronto era un declivio. Camminando su questi gradoni irregolari, incastonati nelle montagne in una lunga strada tortuosa che appare e scompare, il cielo é più vicino. Ogni cima, ogni passo che inizialmente pareva lontano ed irraggiungibile, diventa sempre più realtà, una conquista ed al tempo stesso una nuova partenza, aprendo il paesaggio su un quadro nuovo e fino a quel momento ancora inaccessibile, incontaminato e silenzioso, ma al tempo stesso colmo di vita, della Natura che é, splendida e selvaggia a quote più basse, arida e contrasto crudele di elementi ad altitudini improponbili, e degli uomini che furono, questa civiltà quasi mitologica e misteriosa, che salì su queste vette, chiamò dei le montagne, osservò le stelle del cielo e punteggiò la via di città perdute e straordinarie, in posizioni spettacolari che come anelli di una catena invisibile che chissà, magari comunicavano l'un l'altro. La prima mi é apparsa come un miraggio che già poco avrebbe avuto da invidiare alla sua sorella maggiore. Le altre si svelavano, improvvise, al termine di ore di cammino, saliscendi e racconti lungo la strada, avvolte nella foresta tropicale o emerse, a pochi passi, dalle nubi che le nascondevano.

 

 

Lui é "Condor". E' il capo della nostra squadra di portantini, otto uomini per quattro persone dai volti e dalle storie diverse, dalle età differenti che si leggono sui segni del viso. Il Condor, ha uno sguardo allegro che tradisce una conoscenza straordinaria del luogo, del tempo, della foresta. Veste sempre uno di quei berretti che da noi compaiono a natale, in lana grezza e colorata come da tradizione andina, calza sandali leggeri e si rimbocca sempre la parte finale dei pantaloni. Il suo soprannome, proprio come l'animale a cui fa riferimento, é investito di un'aura di rispetto e maestosità quando viene chiamato. I portantini sono l'anima del Camino Inca, il dono prezioso che ci segue e ci anticipa silenzioso prendendosi cura di tutto con una cura ed un lusso da lasciare a bocca aperta. Perché senza il supporto materiale, straordinario, che forniscono, lo spirito potrebbe non avere forza a sufficienza. Partono dopo, si caricano sulle spalle un piccolo villaggio itinerante, ed iniziano a correre. Mi sorpassano, sudati e leggeri, e scompaiono sungo questo serpente di passi, ad attendermi alla prossima fermata. Per loro, l'Inka Trail é un circuito che si ripete, in un numero inenarrabile di volte, ma di cui ognuno di loro tiene invariabilmente il conto. Parlano spagnolo, certo, in un dialetto andino, ma soprattutto parlano Quechua, orgogliosamente e consapevolmente, il loro linguaggio e le loro radici, che profondamente affondano in questa terra e tra queste vette. Sorridenti ed eccezionali, sempre discreti, hanno lo sguardo gentile, e le loro storie personali, così difficili da penetrare nella loro riservatezza, che popolano questa vallata, ognuno un punticino di una storia nobile e centenaria che affonda nella notte dei tempi.

 

 

Il Camino Inca non é un luogo immobile. Anzi. Lungo la prima parte, soprattutto, il sentiero attraversa piccoli assembramenti di contadini e le donne del luogo che pur nel loro profilo possente si arrampicano l'unico camminamento colme di oggetti di ogni giorno, oppure hanno improvvisato un bancone dove vendono qualche ultimo suppellettile prima del cammino vero e proprio. Se non fosse per qualche motocicletta che si arrampica lungo il selciato sconnesso non sarebbe possibile collocare nel tempo queste ultime propaggini di centri abitati. Poi, gradualmente, queste presenze svaniscono e di ogni suono non resta altro che il sussurro della foresta che si chiude sopra di me, in una esplosione di orchidee, fiori sconosciuti ed uccelli dai colori dipinti. E' un respiro profondo che sembra custodire il segreto degli antenati, quelle mani industriose che tagliarono la pietra e modellarono la loro terra con ingegno e maestranza. Ecco, sono loro i guardiani di questa strada, sussurrano dal passato, attraverso le città in rovina, attraverso la loro foresta e le loro montagne sacre, é come se impassibili mi osservassero, io viandante nel mio arrancare, nel mio bloccarmi d'improvviso a cercarli, a catturare quante immagini mi sia possibile, prima di andare oltre e lasciarmi alle spalle un altro passo che difficilmente percorrerò ancora.

 

 

"...Aquí los pies del hombre descansaron de noche
junto a los pies del águila, en las altas guaridas
carniceras, y en la aurora
pisaron con los pies del trueno la niebla enrarecida,
y tocaron las tierras y las piedras
hasta reconocerlas en la noche o la muerte..."

 

 

Sono le tre di notte. Qualche luce, da una torcia si muove fuori dalla tenda. Il resto é un buio fitto che si lascia inghiottire dalla foresta tropicale. Lentamente, inizia a piovere sempre più fitto. L'ultimo, grande, giorno inizia così, in un sussurro agli uomini che ci hanno accompagnato in questa avventura, un'ultima volta: loro domani saranno nuovamente qui, a muoversi come antilopi e calpestare di corsa i gradini ruvidi del Camino Inca. Per me, invece sono le ultime ore, in attesa che un cancello si apra e mi consenta di accedere all'ultima parte del sentiero.
La pioggia diventa battente, a tratti addirittura torrenziale, sotto una piccola tettoia di legno, e non promette niente di buono, ma il tempo sembra immobile, in questa tenebra che non accenna a scomparire, mentre sento l'aria impermeata di acqua, vapore, nubi veloci che salgono dal fiume, bloccano la vista, proprio oggi che la meta é vicina.
Ed infine scocca l'ora, come una corsa in partenza, schiacciato contro quel cancello da braccia che tendono fogli di carta. Riparto. Con gli occhi che affrontano l'alba e la vista annebbiata da un tempo beffardo. Cammino. Ed improvvisamente mi sento colto da un senso di tensione e di rabbia che sprigiona dalle mie gambe: ogni passo, ogni muscolo teso in uno sforzo che mi fa ansimare, lungo questi ultimi gradoni che mi separano all'arrivo, ad un punto finale che sarà un nuovo inizio. Ancora, soltanto lo immagino, mentre mi lascio dietro chi aveva scavalcato, chi é partito senza aspettare. Sento di essere mosso da un'energia incontenibile, che nemmeno il mio respiro affannato sa contenere. Un'energia che si esaurirà soltanto quando calpesterò quello che idealmente é l'ultimo ruvido gradino del Camino.

 

 

"Entonces en la escala de la tierra he subido
entre la atroz maraña de las selvas perdidas
hasta ti, Macchu Picchu.
Alta ciudad de piedras escalares,
por fin morada del que lo terrestre
no escondió en las dormidas vestiduras.
En ti, como dos líneas paralelas,
la cuna del relámpago y del hombre
se mecían en un viento de espinas..."

 

Ho appoggiato la mano sulla parete. La pietra umida a contatto con la mano, io soltanto in una mattina coperta di nebbbia. Ho voluto piangere, lasciando che una lacrima sfuggisse per fondersi col sudore e la pioggia che si rovesciava a sprazzi. E poi, ho trattenuto il respiro, ed ho attraversato la Porta. Perché seguendo il popolo delle nuvole sono arrivato. La città perduta era nascosta dalla nebbia, e come un'ombra, un attimo soltanto si rivelava ai miei piedi, ancora intirizzita di una notte che stava scomparendo. La notte, lunga e persistente, era un ricordo che già svaniva. Sorriso. Pianto. Lascerò che qui si sciolgano quei nodi raccolti in questi giorni speciali ed intensi. Un respiro profondo che mi invade i polmoni mi fa sentire vivo. In questo attimo di silenzio immenso ed interminabile, sento il sangue pulsare. Fortissimamente, intensamente, voluto. Perché i miei occhi sognatori, per una volta, meritano questo momento.

 

 

Macchu Picchu, ultima fermata. Ho scalato un'ultima montagna, ma ancora una volta la nebbia mi ha avvolto. E certamente, mi manca quel cielo azzurro nel quale speravo. Questo, purtroppo, é in mano alla fortuna. La Città Perduta é altrove, ancora sconosciuta e nascosta, ma anche questo luogo supera ogni possibile immaginazione. Il silenzio ancora protetto del primo mattino lascia un attimo di incanto per quello che fu, un impero effimero e straordinario che in un batter d'occhio conquistò una parte imponente dell'America Latina ed in un lasso di tempo altrettanto breve si spense e scomparve, travolto da un mondo nuovo. Le masse di persone che velocemente iniziano a salirvi, la mia stessa presenza, in un certo senso ne sono l'espressione in chiave moderna. Eppure, la magia di questo luogo, ed ancora di tutti quelli, silenziosi e perduti che ho sfiorato in questi giorni, che ho avuto il privilegio di ammirare lungo il Camino Inca, resistono, nella straordinaria possenza delle pietre che narrano ad ogni angolo la ricerca dell'uomo nel cielo di un'armonia da trascrivere sulla terra. Per un attimo torno con le immagini alle linee del deserto, che ora come ora mi sembra di aver visto già in un tempo tremendamente lontano, e penso che indipendentemente dal tempo, dalle cività, come uomini alla fine finiremo sempre ad osservare il cielo nella ricerca di una bellezza perfetta che rassicuri i nostri cuori ed una risposta da tenere con noi sulla terra. Questo per me é l'incanto di questa straordinaria città, costruita strappandola alla montagna, preservata agli occhi sciagurati dei Conquistadores, dimenticata nel tempo sotto una vegetazione selvaggia ed audace. Ed infine riscoperta, perché tornasse agli occhi del mondo. Perché, preziosissima e fragile, ci appartiene. Serro la mano, stringendo la crix andina scolpita e levigata di pietra verde. Ultima fermata: qui sono giunto, e non andrò oltre.

 

"...Madre de piedra, espuma de los cóndores.
Alto arrecife de la aurora humana.
Pala perdida en la primera arena..."

(Pablo Neruda)

 

 

 
 
 
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