Una poetessa a lungo dimenticata 

Fernanda Romagnoli (1916-1986) considerata una delle più grandi voci del Novecento italiano, è stata lungamente dimenticata.

 

La sua prima raccolta viene pubblicata nel 1943. In essa la poetessa rivela il suo autentico bisogno di percepire le cose in una prospettiva “diversa”

 
 

“…odo antiche parole

 

rinascer lievi come piume nuove”

 

(Campane e fontane)

 

l’andare oltre verso l’Altrove

 

“…dove il mare respira con la luna,

 

dove la via del libero infinito

 

è facile a salir, come nessuna”

 

(La rondine)

 

trovando conforto e forza nella religiosità della sua anima scovando, così, una via d’uscita da formule rigide a cui lei sembra refrattaria.

 

La seconda raccolta esce nel 1965, qui i versi acquistano una maturità più spiccata e ne intensificano la sua presa di coscienza della propria diversità e il suo desiderio di mettere le distanze da tutto ciò che non è autentico.

 

“…la colomba dell’alba sulla riva

 

nell’occhio roseo decifrò me sola

 

che non avevo ballato”

 

(Lungamente)

 

L’inautentico che aborra e da cui si allontana sentendosi un’estranea “ io quella donna dall’anima dimessa/dicono che son io” (Io) immaginando di poter succhiare come un’ape il polline della vita affinché ciò che muore possa rinascere in altre forme:

 

“…Lente alla ringhiera

 

stanno le rose-ansiose di sfiorire-

 

e invocano il pugnale delle vespe.

 

Ma Iddio manda fra loro

 

un’ape che ne serbi la memoria

 

quando il morto rosaio non sarà

 

che una corona di spine” (Rosaio).

 

La terza raccolta Confiteor del 1973 è un libro di confessioni a tutto campo, qui la Romagnoli scandaglia i lati più contraddittori, passionali e vacillanti della propria storia intima. Tutto questo meravigliosamente racchiuso nei versi di una tra le sue poesie più belle: Stigmata

 

“Qui dunque fui bambina. Alla marina

 

crescevo accanto: l’anima digiuna

 

d’ogni perché – famelica altrettanto.

 

Gigli ad oriente, la riva era una spada.

 

Stupendo sacrilegio imporvi un segno

 

– l’arco del piede – premere col viso

 

La freschezza deposta dalla luna.

 

Il mare straripava nel sereno

 

a livello dei cigli. Ah, la bellezza

 

che pativo, non mia, che mia stringevo

 

in quel primo singhiozzo di creatura

 

che s’arrende all’immenso – era già il pegno,

 

la stigmata che in me sfolgora e dura.”

 

Lei, nei ricordi di bimba, si estranea e ritrova quella fiducia infantile in quel che sarà e che, invece, si rivelerà in modo totalmente diverso: una vita di madre, moglie e poetessa che non saprà mai conciliare, una realtà familiare quasi subita, in cui la Romagnoli sente attorno a sè i duri confini che la vita le ha alzato attorno.

 

Per non perdersi, per ritrovare se stessa e per comprendere il senso della propria vita, rivolge al suo Dio la sua preghiera in modo accorato:

 

“…Ma Tu, dovunque effuso ad ascoltare,

 

presente ma nascosto,

 

zitto come l’uccello avanti l’alba:

 

non dove sei-rivelami ov’io sono.

 

Mio Dio, se t’abbandono

 

io sarò abbandonata”

 

(Preghiera)

 

Il libro-testamento appare nel 1980, Il Tredicesimo Inviato. Qui la poetessa ha riportato le sue angosce, i suoi turbamenti e il tempo che fugge inesorabile ma in modo più attento, rifinito, un’attenzione dolce verso la poesia considerata come la via preferenziale per raggiungere la verità e la salvezza:

 

“…Il mio poco darei

 

per un unico verso che resti

 

testimonio di me,

 

un attimo posato sulla terra

 

-lieve-come un coriandolo

 

di questi”

 

(Carnevale)