Creato da: MICHELEALESSANDRO il 15/07/2012
PREISTORIA UMANA E TRADIZIONALISMO INTEGRALE

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LA DISCONTINUITA' DELL'ETA' DELL'ORO

Post n°18 pubblicato il 16 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Nei post precedenti abbiamo accennato al fatto, segnalato da Renè Guenon e confermato da alcune interpretazioni dei Purana, che l’Età dell’Oro si sarebbe protratta per circa 25-26.000 anni. Tale periodo, che nella tradizione indù viene chiamato anche Satya (o Krita) Yuga, ebbe quindi una durata molto lunga, ma non rappresentò necessariamente una parentesi statica nella storia umana; il metafisico francese, infatti, in varie occasioni ebbe modo di sottolineare come, in ciascuna delle quattro età del Manvantara, vi è la possibilità di operare ulteriori significative suddivisioni interne, a partire da quella nelle due relative metà. Il Satya Yuga, quindi, non sfugge a questa regola ed anzi è rimarchevole il fatto che risulti composto esattamente da due “Grandi Anni” di quasi 13.000 anni ciascuno.

E’ stato inoltre rilevato che il transito da un Grande Anno a quello successivo è sempre contraddistinto da un violento cataclisma che quindi, per l’Età dell’Oro, deve aver avuto luogo in corrispondenza della sua metà, attorno a 52.000 anni fa. Anche da considerazioni legate al “ciclo avatarico” di Vishnu (ciclo che suddivide il Manvantara totale in dieci parti uguali di 6.500 anni, ciascuna collegata ad una particolare “discesa” sulla terra del Principio per il ristabilimento della legge divina) lo stesso evento traumatico viene ricordato nel momento del passaggio dal secondo Avatara (Kurma), al terzo (Varahi), quando dovettero verificarsi importanti modificazioni della geografia boreale, un movimento dal polo artico ad una zona più nord-orientale (la già incontrata Beringia ?) e, come ipotizza anche Gaston Georgel, una primissima ondata migratoria verso zone meno settentrionali del pianeta.

Ciò che ne seguì, originò quella che per Guenon fu la sede del centro spirituale primordiale di questo Manvantara, la citata Varahi o “Terra del Cinghiale”, dalle marcate caratteristiche solari: il fatto però che fosse collegata non al primo ma al terzo Avatara di Vishnu, ci fa ritenere più corretto collocare Varahi non nella fase aurorale ed indistinta, veramente iniziale, del nostro ciclo umano, ma invece nel secondo Grande Anno, ovvero tra 52.000 e 39.000 anni fa.

Di conseguenza, riteniamo che ciò ponga il tema di una certa discontinuità interna dell’Età dell’Oro, in coerenza con il fatto che, come detto sopra, essa appare chiaramente divisibile in due parti uguali; e l’ambito dal quale, a nostro avviso, si può iniziare a svolgere qualche considerazione in tal senso, è quello della “condizione iniziale” dei tempi primordiali, genericamente da tutti i popoli ricordata con rimpianto (la cosiddetta “nostalgia delle origini” rilevata da Mircea Eliade), che però è opportuno suddividere in due ben distinte situazioni esistenziali, spesso invece confuse tra loro.  

Una fase è quella nella quale si ha memoria di una relativa facilità nei contatti tra l’uomo e le forze divine, con le quali, da un lato, si comunicava ad esempio scalando una montagna, salendo su un albero o su una liana per recarsi negli spazi celesti, mentre dall’altro, erano gli stessi numi che frequentemente scendevano sulla terra ed incontravano gli uomini; tale situazione ad un certo punto dovette però interrompersi, generalmente per quella che Mircea Eliade definisce come “pecca rituale”. A nostro avviso, tale fase suggerisce che, anche quando i collegamenti con il sovra-mondo erano integri, esistevano comunque riti ed azioni volte “tecnicamente” a mantenerli; quindi uomini e dei che, pur in contatto, erano per certi versi già divisi – costituendo due diverse entità – dalla necessità dell’azione rituale che, contemporaneamente, statuiva anche una reciproca alterità. Questa è la fase nella quale presumibilmente regna Kronos, reggente aureo, diurno ed “incivilitore” per eccellenza, che secondo noi dovrebbe riguardare la seconda metà del Satya Yuga (cioè il secondo Grande Anno).

Un’altra fase, anteriore a quella di Kronos, talora invece affiora nel ricordo indistinto e confuso di un momento di innocenza, di felicità ma anche di libertà e di potenza, uno stato primordiale paragonabile, da un lato, ad una pienezza irradiante, da un altro, paradossalmente, a quello del “vuoto” che occupa il Centro della Ruota, “motore immobile” aristotelico, Polo spirituale ed impassibile non coinvolto nel movimento periferico, ma purtuttavia ad esso necessario. O affiora in miti nei quali il limite tra umano e divino sembra ancora non essere ben marcato, o magari la convivenza è stretta, costante, fino quasi all’identificazione reciproca. E’, questa, la prima fase, aurorale ed indifferenziata del nostro Manvantara – e quindi, a nostro avviso, relativa al primo Grande Anno – che oltretutto, dal punto di vista della Tradizione Romana, sembrerebbe essere simboleggiata dal dio Giano, il dio degli inizi, entità per certi versi notturna, enigmatica.

Inizieremo quindi, da qui e per i prossimi post, ad esporre alcune considerazioni attorno al primo Grande Anno del nostro Manvantara, relativo all’arco di tempo che all’incirca intercorse tra 65.000 e 52.000 anni fa.

 

 
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IL POLO

Post n°19 pubblicato il 17 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Abbiamo visto che per il primo Grande Anno appare piuttosto nebulosa la questione di quale tipo di uomo / divinità possa esserne considerato il soggetto centrale (è un discorso che approfondiremo più avanti), mentre invece maggiormente definite sembrano essere le caratteristiche cosmologiche del “luogo” ad esso collegato.  

Quello che vi corrisponde nella Tradizione Cristiana – ovvero, il Paradiso Terrestre – non è situato in un “altrove” metafisico, ma, come Frithjof Schuon ci ricorda, si trova nella stessa dimensione corruttibile che occupiano noi stessi; e nell’ottica “boreale” qui seguita, non ci sembra intanto azzardato proporre un primo paralleo tra la vasta terra di Eden, descritta nella Bibbia come un’immensa ed arida steppa (nella quale Dio pianta un giardino circoscritto), e la tundra nordica meno ospitale.

Ma sono soprattutto caratteristiche legate all’altezza e alla polarità del luogo primordiale, che si segnalano.

Per restare alla tradizione biblica, è la dimora di Yahweh stesso a trovarsi su un monte “all’estremo limite del settentrione”, mentre nella cultura indiana (induista e buddista) il supremo dio Varuna dimora sulla sommità del monte Sumeru, che si erge in mezzo ad una foresta incantevole; il Sumeru è il centro della terra paradisiaca primordiale, Ilavrita, e la residenza della divinità è bianca, come bianca, completamente, è descritta la stessa altissima montagna, che nella tradizione indiana viene anche denominata Meru. Non si può escludere che le descrizioni della foresta, o del giardino piantato da Dio, possano avere un carattere simbolico, come pure l’aspetto candido indicato per le montagne settentrionali, o anche il fatto che tradizionalmente il punto collegato all’idea di centralità è anch’esso di colore bianco (almeno visto dall’esterno ed in quanto origine della manifestazione cosmica); non ci sentiremmo però nemmeno di escludere, ad un livello più basso ed immediato, anche una certa relazione di questa caratteristica cromatica con il bianco della calotta polare.

L’idea di centralità assoluta rimanda, quindi, non soltanto ad una terra genericamente posta a latitudini molto elevate, ma a quella ancor più precisamente definita dallo stesso Polo, raffigurato come chiodo del mondo da certe popolazioni siberiane, o dagli Etruschi immaginato come il fulcro del pianeta e ritenuto quindi sede degli dei. E’ evidente che a ciò si ricollega Guenon, quando ricorda il particolare punto geografico dal quale nei tempi primordiali si poteva vedere il sole fare il giro completo dell’orizzonate senza tramontare – citando anche Omero che parla della Tula iperborea posta là “dove sono le rivoluzioni del sole” – o quando segnala che è sempre il simbolismo polare ad essere anteriore a quello genericamente solare.

Guenon ritenne, invece, tutto sommato secondaria la questione di un eventuale spostamento del polo terrestre nel corso del tempo (ipotesi che venne proposta, per il periodo wurmiano, da studiosi quali Koeppen e Wegener) né, a quanto ci risulta, ebbe modo di affrontare la specifica questione della sua glacializzazione, o meno. In effetti, i dati in merito sembrano essere piuttosto contraddittori e, a parte quelli, già esposti, di vaste aree artiche che godettero in tempi antichi di un clima più favorevole di quello attuale, sulla situazione geoclimatica del Polo Nord tra 52.000 e 65.000 anni fa ci sentiamo solamente di ritenere piuttosto improbabile l’eventualità che non sia stato interessato dal fenomeno glaciale; ciò, sia per il fatto di essere indiscutibilmente il punto terrestre a minor irraggiamento solare nell’arco dell’anno, sia perché l’intervallo temporale costituito dal primo Grande Anno si situa in un periodo anteriore a quello del già citato interstadiale Laufen, che dovette essere, questo sì, relativamente caldo.

Ma se sulle antiche condizioni climatiche dello specifico punto polare non riteniamo sussistere elementi sufficientemente solidi per formulare delle ipotesi convincenti, sembrano invece esservi maggiori indizi sulla sua posizione, o, meglio, sulla posizione dell’asse terrestre, rispetto al piano dell’eclittica. Molti dati tradizionali, tra i quali i Purana indù ed il latino Ovidio, ripresi anche da Julius Evola e Renè Guenon, segnalano infatti che durante l’età dell’oro non esistevano ancora le stagioni, ma un perpetuo clima da “eterna primavera”; tale situazione dovette evidentemente essere la conseguenza di una posizione assiale perpendicolare rispetto al piano orbitale della terra, garantendo in questo modo al nostro pianeta condizioni equinoziali per tutto l’anno. Il susseguirsi delle stagioni dovette inziare solo a partire dalla successiva età dell’argento, posta sotto il regno di Zeus, per effetto di un traumatico mutamento antropo-cosmico che per Guenon corrisponde alla “Caduta dell’Uomo”, ovvero la perdita definitiva del Paradiso Terrestre e l’inizio della storia post-edenica (databile, secondo la prospettiva qui seguita, circa 39.000 anni fa, cioè al termine del secondo grande anno del Manvantara).

Con tale situazione astronomica, il Polo dovette quindi trovarsi in una condizione di continua luce crepuscolare, forse tale da non oscurare la vista delle costellazioni celesti ma tuttavia senza l’esperienza di una vera notte, e con lo zenith coincidente al polo dell’eclittica solare: probabilmente quanto di più vicino, su questo piano dell’esistenza, all’idea di perennità, di tempo “sospeso”.

 

 

 
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L’IMMAGINE DI DIO E L’ANDROGINE PRIMORDIALE

Post n°20 pubblicato il 18 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Quale tipo di coscienza può aver avuto l’Essere posto al centro di un Cosmo così strutturato ?

Per quanto possiamo sforzarci di immaginare, forse fu una coscienza che non implicava nemmeno la separazione soggetto-oggetto o quella Io-Dio; verso una divinità, cioè, che come Evola spesso sottolinea, viene oggi quasi sempre “teisticamente” concepita del tutto esterna a sé. Ma una coscienza di questo tipo, così lontana da quella odierna, non può non richiamare anche l’idea di un Uomo radicalmente diverso da quello attuale. Non è un caso, infatti, che il Mito parli spesso di “Immortali” che un tempo soggiornavano al centro del mondo, mentre Mircea Eliade rileva ovunque tradizioni secondo le quali l’uomo sarebbe divenuto mortale solo da un certo momento in poi.

Nel mondo greco, Platone segnalava infatti che “un tempo la nostra natura non era affatto identica a quella che possediamo ora, ma di tutt’altro genere” e per Esiodo la razza dell’Età dell’Oro, sorprendentemente longeva, “viveva come dèi”; al mito di una felice umanità primordiale si sovrappose quello degli Iperborei, che per Perecide appartenne alla razza dei Titani, mentre Erodoto li definiva “uomini trasparenti”. Nella cosmologia indotibetana, come ricorda Titus Burckhardt, l’uomo venne inizialmente creato con un corpo fluido, mutabile e trasparente, mentre in altri miti appare luminoso e sonoro, anticamente volava sopra la terra e solo in un secondo tempo discese in basso, divenendo opaco. In Cina Li-Tze accennò a “uomini trascendenti” e dalle “ossa deboli”, mentre nella gnosi islamica Henry Corbin evidenzia la presenza del tema del paradiso iperboreo, nella quale viene significativamente chiamato “Terra delle anime”. Molti sono quindi gli accenni al fatto che la corporeità dell’Uomo primordiale di inizio Manvantara fosse diversa da quella attuale – cosa peraltro sottolineata da tutti i principali autori tradizionalisti – in quanto non ancora “materializzatosi” definitivamente e quindi anche arduo a rinvenire oggi sotto forma di resti ossei. L’elemento fondamentale, cioè, è che il corpo venne assunto solo più tardi, come ricorda Julius Evola il quale, citando Plotino ed Agrippa, evidenzia l’audacia dimostrata dall’Uomo nell’assumere una veste materiale, momento a partire dal quale, tuttavia, egli iniziò a soggiacere alla paura, cadendo da una precedente fase di libertà e di potenza.

Ma è possibile cercare di ricostruire, almeno a grandi linee, i percorsi che portarono l’Uomo dalla sua prima nascita a questo risultato ?

E’ un interrogativo non privo di difficoltà, che cercheremo di approcciare facendo un rapido excursus tra gli accenni, a nostro avviso più significativi, presenti nelle varie tradizioni, verificando se vi sono ulteriori elementi a conferma di quanto sopra accennato.

Iniziando dalla tradizione cristiana, molte delle considerazioni che proporremo prenderanno ovviamente spunto, direttamente o indirettamente, dal libro della Genesi, nel quale, com’è noto, la creazione dell’uomo viene narrata in due modalità diverse, una volta nel primo, ed un’altra nel secondo capitolo. Nel primo, l’atto creativo viene effettuato direttamente e “ad immagine e somiglianza” di Dio, mentre, nel secondo, ciò si attua in modo apparentemente meno immediato, ovvero plasmandolo con polvere del suolo ed insufflandovi l’alito di vita. Al di là del significato di questa doppia narrazione, sul quale torneremo più avanti, è il concetto di “immagine divina” che a nostro avviso può rappresentare un utile punto di inizio per alcune considerazioni, soprattutto in rapporto al tema della corporeità del primo Uomo.  

Tra le varie riflessioni antropologiche dei principali pensatori di matrice cristiana, ci sembra infatti particolarmente significativa l’idea, elaborata già dagli “alessandrini” (Clemente Alessadrino, Origene, S.Atanasio, ecc…) che l’Uomo – Adamo – fosse stato generato ad “immagine di Dio” non nella sua parte corporea e mortale, ma in quella spirituale ed immortale, definita in greco come “nous”. Anche Gregorio di Nissa seguì una linea analoga, distinguendo due diversi momenti creativi: uno unitario “ad immagine di Dio” e relativo all’ “uomo intelligibile” – da cui l’analogia di questo stato con quello angelico – ed un altro sessualmente diversificato nei corpi ed attinente all’ “uomo sensibile”, creatura passionale ed irrazionale. Analogamente, anche per Jakob Bohme, Adamo nacque con due corpi, dei quali uno fu quello dell’angelo (il corpo celeste) e l’altro, almeno virtualmente, corrisponde a quello dell’uomo terrestre, che però si manifesterà solo in un secondo momento; ed è evidente che il corpo terrestre può concepirsi solo nella dualità dei sessi. Nello stesso solco si situarono fondamentalmente anche pensatori quali Meister Eckhart, Giovanni Scoto Eriugena, Onorio di Ratisbona, mentre, in ambito non prettamente cristiano, ci sembra interessante ricordare anche similari concezioni mandaiche che accennano all’immagine archetipica dell’uomo, corrispondente ad un Adamo celeste che precedette di millenni la plasmazione dell’Adamo terreno.

In effetti, va sottolineato che la facoltà di “intelligere”, ovvero di “cogliere dall’interno senza mediazioni”, corrisponde al citato “nous”, ed è la parte più alta del composto umano, dove cioè risiede eminentemente la dignità dell’uomo ed è precisamente qui che egli è essenzialmente uguale a Dio. Quindi, in definitiva, quando si parla di creazione dell’Uomo “ad immagine e somiglianza di Dio” non ci si riferisce ancora, almeno per una parte importante dei pensatori di matrice cristiana, ad un Essere corporeo e grossolanamente materiale, ma al suo superiore principio spirituale.

Questo Adamo del primo capitolo della Genesi, che cristallizza in sé un’immagine divina, svolge quindi un ruolo direttamente celeste, ed infatti è stato osservato che può essere identificato all’Uranos della tradizione greca e a Yahweh di quella ebraica; ma anche al Giano dei Latini, vista la sua funzione di  “Axis mundi” (dagli evidenti rimandi polari) e di fonte originaria del genere umano. Anche in Leopold Ziegler, l’Uomo primordiale in pratica corrisponde a Dio stesso, analogamente a Jakob Bohme che vede in lui la manifestazione diretta del Creatore e nella quale Adamo di fatto contemplava la sua stessa luce.

Un ulteriore tratto essenziale di questo primo Adamo, già accennato tra le righe, è quello della sua androginia, enunciato nel passaggio biblico “maschio e femmina li creò”.

Per Platone l’Essere originario era di forma sferica e nel Simposio ne parla come di un’entità che, avente in sé sia il maschio-sole che la femmina-terra, era posto sotto la tutela della Luna. Origene e Gregorio di Nissa individuarono nell’Adam Qadmon della Cabbala ebraica l’essere la cui androginìa viene successivamente persa a causa della separazione di Eva (concetto sul quale torneremo più avanti). Analogamente, nei testi tradizionali indù si cita una casta primordiale “Hamsa” corrispondente all’Uomo ancora integro e solo successivamente polarizzatosi nei due sessi. E’ però chiaro che tale bisessualità primordiale deve essere interpretata in chiave metafisica ed immateriale, non banalmente organico-corporea, come esplicitamente sottolineato da Frithjof Schuon. Anche Mircea Eliade osserva che quello dell’Androgine fu lo stato dell’indifferenziazione primordiale, antecedente all’individualizzazione umana ed alla separazione di Eva da Adamo, il che, in effetti, può ben conciliarsi con il tipo di coscienza, “non distintiva”, che più sopra ipotizzavamo per l’Essere degli inizi. Peraltro, Eliade segnala anche come, significativamente, nelle stesse mitologie australiane si ritrovi l’idea, simile a quella platonica, dell’uomo primordiale di forma sferica, come peraltro il totem ancestrale “Kuruna” dal quale questi provenne.       

 

 

 
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IL DEMIURGO

Post n°21 pubblicato il 21 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

L‘immagine di Dio e l’androginia del primo Uomo sono i due punti che, nel primo capitolo del Genesi, ci sono sembrati particolarmente significativi per iniziare a sviluppare le nostre analisi; poi, com’è noto, vi sono diversi ed ulteriori elementi di carattere antropogenetico che vengono esposti anche nel secondo capitolo. Senza voler entrare nel merito dei vari studi tesi a comprendere le motivazioni letterarie di tale ripetizione narrativa (come ad esempio quelli basati sugli stili di redazione dell’Antico Testamento e sulle modalità di composizione di un materiale che, in origine, dovette essere alquanto eterogeneo), qui ci interessa soprattutto tentare di cogliere, per quanto ci è possibile, le realtà più profonde adombrate dalla lettera scritta, anche alla luce di altre fonti tradizionali.

Una considerazione che, ad esempio, ci è sembrata di notevole interesse sulla natura dello iatus tra il primo ed il secondo capitolo del Genesi, è quella che lo ha interpretato come lo spazio temporale (o a-temporale ?) durante il quale si verificò la caduta dell’angelo Lucifero, evento in relazione al quale, inoltre, per Leopold Ziegler si sarebbe generata la materia.

La caduta dell’angelo e l’azione “diabolica” da esso effettuata – dal greco “diaballo”, il cui significato è pressappoco “colui che divide, che si mette di traverso” – implica l’ingresso in campo dell’ambivalente figura demiurgica che appunto, come Guenon ricorda, produce prima di tutto la “divisione”, situazione alla quale tutti noi ora non possiamo sottrarci, in quanto egli è di fatto il “Principe di questo mondo”.

Dovremo quindi sviluppare una serie di considerazioni piuttosto articolate in merito alle figure mitiche coinvolte che, come vedremo, spesso sembreranno confondersi, sovrapporsi tra loro, ed effettuare azioni apparentemente contrastanti ed ambivalenti.

L’elemento di partenza che in ogni caso ci sembra vada preliminarmente sottolineato è che vi è la possibilità di una doppia visuale.

La prima è, come abbiamo visto, quella relativa ad una coscienza primordiale ed unitaria, dove soggetto ed oggetto, principio e manifestazione, non si distinguono, ed un Uomo, evidentemente molto diverso da quello attuale, conserva ancora intatta e connaturata la facoltà spirituale di “intelligere”, ovvero di cogliere le verità ed i fenomeni “dall’interno”, senza la necessità di alcuna mediazione sensoriale.

La seconda, propria alla nostra condizione attuale ed ordinaria, è invece la visuale separativa soggetto-oggetto o, cosmologicamente, principio-manifestazione: su questo piano, ne deriva quindi la prospettiva di un Principio supremo e trascendente, la cui immagine è costituita dall’Androgine Primordiale, in pratica un aspetto della sua manifestazione. Mircea Eliade ricorda che lo stato primordiae ed androginico era quello precedente alla “individualizzazione” e quindi se, con Guenon, interpretiamo tale termine come sinonimo di manifestazione “formale”, allora l’Androgine può essere inteso come pertinente alla manifestazione “informale”, analoga a quella angelica, di carattere universale e “sovra individuale”. Tale immagine appare androginica ma anche, come in un gioco di rifrazioni ottiche, a sua volta “principiale” in rapporto ai livelli più bassi della manifestazione stessa. Se ora, per effetto dell’anzidetta “divisione demiurgica”, con la relativa ed inevitabile prospettiva duale alla quale dobbiamo sottostare, poniamo l’osservazione dal punto di vista della manifestazione, il Principio primo viene colto solo come uno dei due poli dell’Essere (per esempio, raffigurato nella coppia indù Purusha – Prakriti), e quindi tale visuale porta con sé la correlativa definizione di un, per così dire, “spazio” mediano, e la connessa possibilità di una doppia attualizzazione. Doppia possibilità che dalla potenza demiurgica viene percorsa “contemporaneamente” ed a-temporalmente, perché altrimenti non risulterebbe “ambivalente” da un’osservazione esterna, come lo è la nostra. Oppure possiamo ricorrere ad un’altra rappresentazione di questo concetto: un “aspetto” del Demiurgo segue una strada, l’altro “aspetto” ne percorre l’altra, itinerari obbligati e connaturati a questo livello di esistenza che, ripetiamo, deve necessariamente soggiacere alla prospettiva duale. Per fare un paragone in ambito “microcosmico” (ma pensiamo che l’analogia possa essere attinente), ciò accade anche nell’uomo, come ricorda Coomaraswamy, nel rapporto tra il Sé immortale, centrale e principiale e tutta quella serie di “soffi” (i “marut”) che da esso dipendono e che corrispondono ad altrettante facoltà visive, uditive, pensanti ecc.., le quali compongono quella che è al fine la nostra “anima”: avviene cioè che i Marut possono obbedire al Principio che li regge, ma possono anche ribellarvisi. Nello stesso ordine di considerazioni si pone quella che per Bohme è l’ambivalenza del serpente, che tra le sue possibilità ha quella di essere sia una vergine celeste, ma anche un simbolo di femminilità maligna; pure Julius Evola ci fornisce uno spunto in tale direzione, quando ad esempio ricorda che alcune leggende celtiche identificano i divini “Tuatha de Danann” agli angeli caduti o discesi dal cielo col Graal: spiriti condannati a precipitare sulla terra perché colpevoli di aver seguito Lucifero o perché rimasti neutrali al momento della sua ribellione. Ebbene, una fonte celtica definisce i Tuatha de Danann, significativamente e contemporaneamente, “dèi e falsi dèi”, mentre altri testi celtici cristianizzati non esitano a definirli addirittura “demoni”.

Ugo Bianchi in definitiva ci ricorda come la figura che in ambito etnologico è stata definita “demiurgo-trickster” non vada confusa o ridotta a quella di un’essere puramente distruttore e diabolico, trattandosi invece di un personaggio che piuttosto presenta aspetti “prometeico-epimeteici”: in sé è notevolmente ambivalente, spesso maligno e animato da spirito di rivalità, ma a lui si fanno risalire pure elementi dell’esistenza umana oggi essenziali ed imprescindibili.

Ecco quindi rapidamente tratteggiate le due vie percorse dal Demiurgo: una è quella nella quale egli non si riconosce come immagine del Principio e guarda solo “separativamente” a sé stesso. L’altra invece è quella nella quale guarda e riconosce l’Androgine come diretta immagine del Principio, identificandosene e prendendolo a modello.

Le esamineremo, più nel dettaglio, una alla volta.

 

 

 
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LA VIA NEGATIVA DEL DEMIURGO

Post n°22 pubblicato il 26 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

 

Renè Guenon ricorda che Dio ordinò agli angeli di adorare l’Essere primordiale e prototipico – che nella tradizione islamica è l’Uomo Universale – nella sua forma, anche qui definita sferica, raffigurante la manifestazione totale; ma, come già dicevamo, e sottolinea anche Titus Burckhardt, l’Uomo Universale non è realmente separato da Dio perché rappresenta il suo volto nell’insieme delle creature. Il ribelle si rifiutò quindi di venerare l’immagine divina che era in Adamo, pur partecipando di quella globalità, giacchè Bohme ricorda infatti che gli angeli hanno anch’essi forma umana, oltretutto rappresentata in modo supremo dal più bello, Lucifero. La ribellione angelica si configura quindi come pura negazione, come il non accettare di conformarsi, pur facendone parte, a quel “Tutto” fatto “a immagine e somiglianza di Dio”: Lucifero sembra quindi agire come colui che non vuole ammettere di appartenere a un dato ordine della Manifestazione e nega obbedienza ad un ruolo assegnato nell’economia cosmica, preferendo piuttosto affermare la propria individualità. Ma nel momento in cui Lucifero sceglie la sua esistenza distintiva e non subordinta al Principio primo per il tramite dell’immagine divina, cade.

In merito all’invidia luciferica verso Adamo, Coomaraswamy propose un’interessante corrispondenza “microcosmica” tra Adamo e lo Spirito e tra Satana e l’Anima, rappresentando quest’ultima, nell’ambito del ternario Spirito-Anima-Corpo, la parte mediana (analoga alla Psyche greca), che Guenon ci ricorda appartenere al dominio della manifestazione formale o individuale, ancorchè “sottile” e non grossolana come la corporeità pesante. In effetti, anche dal Corano ci perviene uno spunto simile, in quanto il rifiuto di inchinarsi davanti ad Adamo, da parte dell’angelo chiamato Iblis, ne determina la caduta e la trasformazione in un “Jinn”, ovvero in un essere della categoria dei “Geni”, entità immateriali che Burckhardt segnala appartenenti al mondo psichico, intermedio.

Ma l’azione “diabolica”, oltre ad essere gravida di conseguenze a livello cosmologico, contemporaneamente prepara anche sul piano antropologico le condizioni della successiva caduta umana; Onorio da Ratisbona e Leopold Ziegler vedono infatti il processo discendente generale svilupparsi per tappe, concludendosi con l’evento definitivo che porterà l’uomo a perdere il paradiso edenico (e nel quale, non a caso, il Serpente è una delle creature già ivi presenti).

Secondo tradizioni successive a Cristo, raccolte e commentate da diversi autori, tra i quali Julius Evola e Mircea Eliade, gli angeli ribelli vengono avvicinati ai “figli di Dio”, o “figli di Elohim” (e, in questo contesto interpretativo, certa letteratura siriaco-ebraica identifica gli angeli caduti anche con gli enigmatici “Veglianti”),  che si unirono alle “figlie degli uomini”, evento che nel Genesi viene narrato appena nel sesto capitolo; altrove, Evola identifica gli angeli ribelli con i Nephelin (Giganti), i Titani ellenici e, ancora, “coloro che vegliano” con gli uomini che anticamente furono “gloriosi” (citati sempre nel sesto capitolo del Genesi) leggendo tale fase “gloriosa” come quella aurea ed androginica-primordiale. Una chiave di lettura, quella evoliana, che quindi sovrappone i vari attori sulla scena, ponendo di fatto l’accento sull’unità di fondo di queste entità, evidentemente narrate nelle varie fonti tradizionali secondo aspetti e prospettive diverse, ma mai irriducibilmente separabili l’una dall’altra.

Viene però da chiedersi, in questo contesto, a chi corrispondano le “figlie degli uomini”, dal momento l’umanità nella forma attuale non esiste ancora.

A tale quesito, Evola risponde che tali enti femminili sono interpretabili con la stessa potenza degli angeli ribelli, potenza che può etimologicamente essere collegata alla “potenzialità” materiale – tradizionalmente sempre di segno femminile – contenuta in essi stessi (materialità che probabilmente appartiene al livello “sottile”, visto che anche per Guenon i “Veglianti”,  corrispondenti agli angeli ribelli, sono forze che appartengono al mondo intermedio); ma non è solo Evola che percorre questa via interpretativa, anche altri autori hanno visto, nell’unione dei figli di Elohim con le figlie degli uomini, la materializzazione progressiva dell’entità adamica sottile ed incorporea.

Pur essendo narrato appena nel sesto capitolo del Genesi, che si pone dopo l’uscita dall’Eden e già lontano dall’età dell’oro, è quindi probabile che l’evento di questa unione possa riguardare, su un diverso piano ontologico e cioè a livello “sottile”, situazioni di inizio Manvantara; ma ciò non toglie che analogamente l’evento possa essersi riprodotto in un secondo tempo e ad un livello più basso, questa volta però tra attori diversi, seppur in qualche modo corrispondenti a quelli iniziali. Frithjof Schuon infatti ci ricorda che l’età dell’oro fu in effetti tale proprio per questa sua continua apertura tra l’alto ed il basso, per questa comunicazione non ancora interrotta con il mondo sottile, e che, quindi, poteva con facilità “produrre” questo genere di accadimenti.

Ed in effetti, come metodo generale di analisi, Guenon rileva come sia del tutto normale che nei testi tradizionali un elemento particolare possa essere preso a prototipo di un insieme più ampio, come anche può succedere il caso inverso, ovvero che dal caso più generale si vada per analogia verso il più specifico e particolare.

 

 

 

 
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IL CONTROVERSO TEMA DEI GIGANTI

Post n°23 pubblicato il 29 Settembre 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Nel post precedente abbiamo descritto la via “negativa” del Demiurgo, quella nella quale – riassumendo – l’Angelo non riconosce l’immagine del Principio e guarda solo separativamente a sé stesso, rivolgendosi / congiungendosi alla sua sola potenza, che in ambito tradizionale è sempre considerata di segno “femminile”; qui evidentemente corrisponde a Lucifero, che così viene a cadere ad un livello più basso di manifestazione, la quale, per utilizzare i termini guenoniani, è ora “formale” o individuale, ancorchè “sottile”, cioè attinente al mondo intermedio. Di questo ambito intermedio, Lucifero diviene quindi un’entità demonica, e la sua caduta genera contemporaneamente il mondo della materia, in tutte le sue estensioni, che verrà ripresa più avanti.

Ma, a margine della via negativa del Demiurgo, riteniamo opportuno soffermarci ancora un attimo sul tema dell’unione dei “figli di Dio” con le “figlie degli uomini”.

Come sappiamo, tale connubio tradizionalmente porta all’origine dei “Giganti”: siccome però va detto che, nella letteratura generale, tali entità sono state interpretate nei modi più disparati, è lecito interrogarci ora su chi avrebbe potuto corrispondervi dal punto di vista storico-antropologico.

A nostro avviso, un’utile spunto per tentare una risposta può indirettamente arrivare dall’osservazione di Frithjof Schuon, che rileva come il rifiuto di Lucifero di inchinarsi davanti ad Adamo potrebbe aver prodotto la creazione anticipata di una forma parodistica dell’uomo; il pensatore perennialista si riferisce alla scimmia, ma riteniamo che il concetto si potrebbe estendere anche alle forme antropoidi subumane che erroneamente la visuale evoluzionista considera la base dalla quale l’attuale umanità si sarebbe elevata.

Probabilmente nella stessa direzione possono andare anche altri episodi tramandati nel corpus tradizionale di vari popoli, come ad esempio quello, ricordato da Ugo Bianchi, presente nelle mitologie dei nativi americani, dove il Coyote (che riveste un ruolo demiurgico) tenta di imitare la Divinità che ha creato l’uomo, riuscendo però solamente a produrre esseri deformi. Schuon nota inoltre la notevole concordanza tra un altro mito amerindiano, nel quale il Grande Spirito generò l’uomo in fasi successive, distruggendo però ogni volta quanto fatto in precedenza perché ne derivavano creature abnormi, con quanto presente del Saura-Purana indù, dove si rileva che nella fase aurorale di ogni nuova creazione emergono dapprima le più infime forme viventi, derivanti dal “tamas”. Tamas è infatti il più basso dei tre “gunas” (le fondamentali qualità costitutive della manifestazione nel sistema filosofico indù Samkhya; le altre due sono “rajas” e “sattwa”) che, anche per Evola, caratterizza tutto ciò che è inerte potenzialità: probabilmente, la stessa potenzialità insita nel “femminile” che ebbe a determinare la caduta luciferica e della quale il lato oscuro è rappresentato dalle creature teriomorfe e mostruose che nei miti vengono sempre collocate nei tempi aurorali. Dal canto suo, Julius Evola aggiunge infatti come gli organismi antropoidi sub-umani avrebbero rappresentato i “primi vinti” nel processo antropogenetico, in quanto popolazioni apparse fin da subito “degenerescenti” perché travolte da queste “potenzialità animali” che l’Uomo primordiale recava in sé.             

Qualche altro autore ha inoltre osservato come i mitici Giganti potrebbero corrispondere alle specifiche popolazioni neandertaliane, in quanto la parola “gigante” andrebbe in questo caso interpretata non in senso letterale, ma piuttosto per enfatizzare concetti quali forza e coraggio (o, forse, anche prossimi a “brutalità”, o “forza elementare” ?), dal momento che in greco la parola si esprime con il termine “kyklops”.

Rileviamo peraltro che un’interpretazione dei Giganti in chiave “subumana” – almeno in questo contesto e senza per forza doverne escluderne una ulteriore – potrebbe forse fornire anche una spiegazione all’accenno, in verità rimasto sempre piuttosto oscuro, che nel sesto capitolo del Genesi testualmente recita “C’erano sulla terra i giganti a quel tempo, e anche dopo…”; ovvero, nel momento in cui l’episodio dell’unione tra i figli di Dio e le figlie degli uomini viene posto su un piano crono-ontologico più recente e post-edenico, i biblici Giganti “antecedenti” rappresenterebbero, in questo caso, il risultato dell’unione precedentemente avvenuta, come sopra ipotizzato, sul piano “sottile”.

Tale interpretazione, infine, potrebbe anche avere una qualche relazione con i frequenti miti, in effetti alquanto paradossali, come sottolineato anche dall’antropologo Massimo Centini, di esseri sub-umani storicamente precedenti l’umanità attuale, che tuttavia sembrano essere stati particolarmente esperti nelle arti magiche, almeno nelle tecniche più grossolane di manipolazione delle forze naturali; non andrebbe cioè esclusa l’ipotesi di alcuni rudimenti “operativi” trasmessi dagli angeli ribelli alla loro imperfetta discendenza – e magari conservati ad un livello basso, “stregonesco” – che tuttavia avrebbe rappresentato una primissima stratificazione culturale, poi indirettamente passata anche ai nostri antenati Sapiens. Angelo Brelich, forse in relazione ad una tale possibilità, accenna infatti alla natura contemporaneamente sovrumana e subumana della figura del Trickster, mentre, d’altro canto, ci sembra degno di nota e convergente nella stessa direzione, il fatto che nell’arte medievale raffigurazioni di uomini dalle spiccate caratteristiche semianimalesche vennero spesso accostate a Satana.

 

 

 
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