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La schiavitù del capitale

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Il titolo del post richiama il saggio, recentemente uscito per il Mulino, di Luciano Canfora, saggio che meriterebbe un'approfondita riflessione, a partire dal rapporto tra contenuto e titolo.

Trattandosi di un breve saggio (111 pagine, ma comprendenti l'Appello di Allende alla Nazione durante il golpe del 1973 e l'Appello di Tsipras al popolo greco per il referendum del 2015; quindi le pagine scritte direttamente da Canfora sono 99; il prezzo è di 12 euro, forse un po' eccessivo per un saggio così breve, ma almeno il volumetto non è troppo rigido ed è possibile appuntarlo senza troppa difficoltà), non bisogna entrare in tutti i suoi dettagli. Ci si potrebbe limitare all'analisi di un punto, che però è essenziale nel testo.

Prima di farlo, tuttavia, possiamo offrire un paio degli spunti venuti alla mente durante la lettura. Il primo riguarda il fatto che Canfora inquadra la Germania nell'occidente. Ebbene, qui il problema è che tale inquadramento pare possibile pensando alla Germania post seconda guerra mondiale. L'impero tedesco della prima guerra mondiale, invece, non si considerava occidente ma "centro" (Mitte). E gli intellettuali tedeschi pensarono lo scontro dell'epoca come una guerra tra culture, fra il centro e l'occidente. Il rapporto della Germania col suo posizionamento, e geografico e culturale, è dunque più complesso di come Canfora ce lo dipinge nel saggio.

Il secondo concerne gli Stati Uniti. O meglio la guerra di indipendenza degli Stati Uniti. Quella guerra è considerabile come la prima guerra anticoloniale della storia? E che rapporto ha con la storia successiva degli Stati Uniti? Da qui possono sorgere altre domande, più generali ma che aiutano a comprendere il mondo. Ad esempio, quella guerra fu tra europei (e perciò una guerra civile europea)? E se fu tra europei, fu allora anticoloniale nel senso che oggi diamo a quell'espressione? Ciò tra l'altro ci riporta al mondo d'oggi, perché viene da domandarsi se il "popolo britannico" è europeo. La risposta più facile sarebbe di dir di no. La risposta più complessa sarebbe, per contro, di dire che il popolo britannico è il popolo più europeo nel suo liberalismo e che, grazie alla sua insularità, difende le radici culturali europee da tendenze illiberali presenti sul suolo continentale. E però anche questo discorso sarebbe complesso, perché ci porterebbe ad analizzare almeno gli ultimi 30 anni di storia britannica e il rapporto liberalismo-liberismo.

Fermiamoci qui con questi input, perché ci condurrebbero troppo lontano. E piuttosto vediamo il punto nodale, in relazione al saggio di Canfora, detto in premessa.

Andiamo a pag. 86 del volume. Qui Canfora si chiede cosa ne è dell'utopia. E si domanda se l'utopia è (stata) il socialismo. Canfora risponde che il socialismo si è esaurito ben prima della fine del XX secolo. Ma qual è stato il suo lascito più grande? E' stato esattamente il processo di decolonizzazione. Si potrebbe controvertere con Canfora a proposito del fatto che l'esperienza sovietica sia stata socialista. Ma prescindiamo da questo problema politico per andare su un piano di forze oggettivo che va aldilà delle etichette. Dal 1789 il moto della storia ha sprigionato una forza intensissima, che peraltro non è tuttora esaurita. In questo moto si è prodotto e trovato il movimento socialista, che come rammenta lo stesso Canfora nelle pagine successive alla 86 è finito conformato, a sua volta, da una forza più grande, alla stessa stregua d'altronde del cristianesimo che ha finito per paganizzarsi. Resterebbe da chiedersi cosa sia questa forza più grande. Canfora ne accenna nelle pagine successive alla 86. Ma anche qui fermiamoci, per rammentare che, appunto, Canfora ha ragione. Ciò che è stato il movimento socialista, a prescindere adesso dalla sua realità storica, ha offerto al mondo la decolonizzazione. E' stata una grande vittoria del movimento socialista.

Qui viene da chiedersi. Ma il movimento socialista non è europeo? E il movimento anticolonialista non è antieuropeo? E come è possibile congiungere questi aspetti? In realtà, il rapporto esiste (e peraltro ci porterebbe a Carl Schmitt) e passa ovviamente attraverso un connubio di rapporti e forze europee ed extraeuropee.

Ma perché in Europa si ricorda solamente la sconfitta del socialismo e non la sua vittoria più grande? A parte il gioco delle convenienze politiche e filosofiche, il motivo di fondo sta nel fatto che l'Europa vede nell'anticolonialismo una forza antieuropea (qui il richiamo a Schmitt).

Al fondo della pagina, Canfora, senza destare in definitiva particolare stupore in chi ha avuto modo di rapportarsi con lui almeno una volta, richiama Benedetto Croce. Riportiamo per esteso il passo ivi citato di Croce: "Non perché un'idea politica non trovi ancora le condizioni e il motivo di operare perde la sua efficacia propulsiva nella storia, ch'è un processo sempre aperto", tratto da La Critica (20 novembre 1938). Croce commentava il saggio di Hans Gustav Keller sulla Giovine Europa di Mazzini. Appare alquanto evidente che Croce in quel periodo presagiva la catastrofe incombente e si riferiva all'idea di unità europea. Ma questa frase di Croce, seppure riferita a un contesto "particolare", vale in generale, nell'universale. Essa può essere riferita anche al socialismo, idea che pure Croce criticava. Ed è un incoraggiamento a noi tutti, questo passo di Croce, incoraggiamento che veniva, per l'appunto, nel 1938 dopo 16 anni di regime fascista. La storia non ci condanna, ma ci invita ad agire persino quando non ne esistono le condizioni.

Il movimento socialista ci ha condotto, in condizioni avverse (per il socialismo stesso), verso un grande cambiamento epocale nella storia politica del mondo. L'insegnamento di Croce, pertanto, resta valido. Ciò ci spinge a pensare che Canfora ci voglia invitare a teorizzare nuovamente una forma di "comunismo liberale". Questo passaggio, a pag. 86, ci dice di sì. Le pagine successive, specie verso la conclusione, ci dicono viceversa di no. Perché Canfora, quando parla della conformazione del socialismo realizzato al modello capitalistico, sembra quasi prendere le distanze da quell'idea di comunismo liberale. In particolare, alla fine Canfora, citando Tocqueville, ci ripropone la tesi della libertà come ideale intermittente, mentre l'eguaglianza è una necessità che si ripropone continuamente come la fame.

Eppure, conclusivamente, possiamo dire che, se in Canfora prevale la spinta verso l'eguaglianza-fratellanza, non possiamo tuttavia dimenticare né il passaggio precedente su Croce, né la sua attenzione per Gobetti e il suo rapporto con Gramsci. E allora non possiamo non sentire, pur non avendo parlato con lui, che Canfora ci invita (almeno indirettamente) anche ad esplorare questa strada, a patto di non essere dimentichi di ciò che egli ha scritto, appunto, dopo pag. 86.

 
 
 
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