Quando Ulisse rimette piede per la prima volta nella sua reggia, nelle mentite spoglie di mendico miserabile e vecchio,
“sedette sulla soglia di frassino, oltre la porta,
appoggiato allo stipite che da un cipresso il mastro un tempo
spianò a regola d’arte e fece diritto col filo.”
Ulisse non entra in casa. Si ferma sulla soglia. Sulla soglia di casa.
La soglia di casa.
È un luogo in un certo senso magico, la soglia di casa: in senso stretto non è nemmeno un luogo. È piuttosto un accadimento, una trasformazione. È un passaggio, che mette in comunicazione due mondi, e ha il potere di trasformarci, di renderci diversi.
È un’osmosi, la soglia di casa, è un passaggio osmotico: superandola per entrare, ciò che è dentro di me, ciò che mi appartiene nel senso più intimo e profondo e mio, esce e si fa ambiente. Attraversando la soglia di casa, entrandovi, proietto al di fuori il mio mondo interiore: io sono la mia casa, in un certo senso; o meglio, la mia casa è ciò che io sono: i miei affetti, la mia sicurezza, ciò che mi concerne e mi interessa.
Per questo Ulisse si ferma sulla soglia: non può entrare nella sua casa, perché pur appartenendogli, pur desiderandola ardentemente da anni, non può essere se stesso in essa. Non ne resta fuori, perché il desiderio lo spinge dentro; non vi entra, perché essa lo respinge, lo ferma al suo limitare.
Non c’è circostanza più difficile, io credo, del non poter esser se stessi, a proprio agio, in casa propria: quando l’ansia, le preoccupazioni che mi possiedono, non possono essere manifestate nella mia casa; quando sono costretto a tenerle dentro di me, provo un senso di disagio che sconfina nell’angoscia: l’angoscia di un mondo che mi costringe dentro me stesso, che mi rifiuta, che – in un certo senso – mi chiude fuori. Ed è allora che la soglia di casa perde la sua magia, il suo potere taumaturgico.
Fuori. Dentro.
È attraverso la soglia che posso aprirmi al mondo, e partecipare di esso, uscendo; è attraverso la soglia che permetto al mondo di partecipare di me stesso, entrando.
Io non so cosa sia “essere me stesso”, ma qualunque cosa sia, è nella soglia di casa che posso avvertire, vivere, la percezione della differenza tra il mio mondo interiore e ciò che di me mostro agli altri – o ciò che gli altri, nel vasto mondo, mi fanno essere, o mi costringono, ad essere.
La porta può essere chiusa, e può essere aperta, ma la soglia non è niente di tutto questo.
La soglia protegge e preserva; la soglia mette in comunicazione, mantenendo la distinzione tra dentro e fuori, ammantandola di sacralità inviolabile: è il limitare che prescinde qualunque intenzionalità.
E quando oltrepasso una soglia altrui, mi pervade un sacro rispetto per l’Altro che mi fa parte del suo mondo. Fino ad un attimo prima, all’esterno, l’Altro è un mio pari: quando supero la soglia della sua casa, egli diventa un’altra persona, e avverto il suo sentire, la sua intimità in ogni oggetto e angolo che colgo con la vista o supero coi miei passi.
Camminando nelle sue stanze, è come camminare nella sua anima: ed ogni parola, ogni sguardo, ogni gesto, mi sembrano inappropriati, violenti, e solo una prolungata intimità con lui mi toglierà, nel tempo, questo disagio che prescinde da ogni altro sentimento. E che sparirà solo varcando di nuovo, nell’altro senso, quella stessa soglia…
« … Silenzioso entra il viandante;
il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
sopra la tavola pane e vino. »
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il 05/07/2006 alle 15:28
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il 19/05/2006 alle 17:40
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il 07/10/2005 alle 10:40
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il 07/10/2005 alle 01:49
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