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Il problema del fondamento

Post n°143 pubblicato il 02 Marzo 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Una volta chiesero ad Aristotele a cosa servisse la filosofia. La risposta, sprezzante ed orgogliosa, è rimasta nella storia: “la filosofia non serve a niente, perché non è una serva.”

Nel suo blog, Lilith ha aperto una riflessione che tocca un nervo scoperto della nostra società, come conciliare – per le donne, e per le famiglie – famiglie, figli e lavoro? Non è un problema semplicemente sociale, o sociologico. È una questione che via via la si affronta, tocca argomenti sempre più profondi, dipanandosi lungo sentieri che portano sempre più lontani, sino a toccare questioni fondamentali e fondanti, in modo persino sorprendente. È come quando, osservando una colata lavica, arriviamo a percorrere la struttura della Terra non solo arrivando a comprenderne la sua struttura intima, costitutiva, ma anche la sua storia, la sua origine, il suo passato, e persino ciò che sarà.
Il ruolo della donna, l’apparente schizofrenia e l’impossibile conciliazione tra mondi antitetici – quello della sfera privata e degli affetti; quello del lavoro e della produzione – ci dice molte cose sulla difficoltà del nostro tempo a dare una risposta univoca, concreta, credibile e praticabile, alla ricerca della realizzazione di sé.

Perché questo accade? Qual è la via per trovare la risposta?

Le buone risposte vengono dalle buone domande, ma le buone domande vanno correttamente istruite. Riflettere sulla risposta di Aristotele, tacere, ascoltando che dice, aiuta a porre la domanda. Dobbiamo cioè porre la domanda non pensando al suo senso utilitaristico, pragmatico, pensando cioè di trovare immediatamente la risposta come soluzione del problema, ma pensare al fondamento che essa richiama. E qual è questo fondamento di cui la domanda ci parla?

Uno dei temi fondamentali dell’intero percorso filosofico di Martin Heidegger – e di tutti coloro che si sono confrontati con lui – è proprio la questione del fondamento, dei concetti fondamentali (Grundbegriffe).

Il fondamento del nostro tempo è la tecnica. Che cos’è la tecnica? Con una buona dose di approssimazione, e facendo una notevole violenza alla ricchezza del termine (e delle analisi che sottende), possiamo intendere la tecnica come un modo di intendere il mondo come separazione tra le cose e ciò che esse significano per noi. Tradotto nel linguaggio dell’esperienza quotidiana, è quel modo di concepire il mondo come “oggettivo”, separato dalle interpretazioni “soggettive” che attengono a ciascuno. La scienza, l’economia, la matematica, sono le sue massime forme di espressione e di conoscenza. Una cosa è “vera” quando è “esattamente definita”, scientificamente dimostrata.

Edmund Husserl descrisse mirabilmente il sentimento di spaesamento che ci coglie di fronte alla “fredda” oggettività della conoscenza scientifica:

“Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto (…) Nella miseria della nostra vita (…) questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso.”

È quel senso straniante che ci coglie di fronte alla struttura del mondo del lavoro, un mondo nel quale non è il lavoro ad essere al servizio della persona, ma viceversa. È la logica dell’impresa, del profitto economico, dell’oggettività della produzione, considerati come misura esatta, oggettiva, ineludibile, imprescindibile, del valore e della “realtà”.

Perché questo accade, è questione lunga, e abbondamente affrontata nel pensiero filosofico del Novecento. Di certo, come diceva lo stesso Heidegger:

“Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona, e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra.”

Hegel postulò che il reale è razionale, e il razionale è reale. Hegel ha vinto, descrivendo ciò che è il nostro atteggiamento fondante. Ma sono passati duecento anni dalle sue affermazioni, e Heidegger sono ormai quattro decenni che ci ha resi avvertiti del fatto che

“Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.”

E ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca è l’assoluta inadeguatezza delle nostre categorie di pensiero, la loro schizofrenica contraddittorietà, di fronte alla vita che viviamo. In un certo senso, è anche ciò di cui parlavo nel (tremendo) post precedente.

Questo è il problema del fondamento. Il fatto che, come dice Galimberti, la tecnica ha cessato di essere uno strumento nelle mani dell’uomo, trasformando l’uomo in uno strumento guidato dalla tecnica. E la condizione femminile, la sua contraddittorietà, è una delle più evidenti manifestazioni di questo fenomeno.

Ripensare il fondamento, dunque. Questo dice la filosofia. Che non dà risposte, perché non è serva. Perché non è uno strumento. Perché non è una tecnica.

Ripensare il fondamento. Ma “i Greci impiegarono tre secoli per scorgere il sentiero dell’essere e noi dovremmo affrontare in un semestre le forme di pensiero all’altezza dell’evento che si sta imponendo.”

Non è di risposte che abbiamo bisogno, ma di saper porre buone domande. E le buone domande originano dal silenzio che sa ascoltare. No, la filosofia non serve a nulla. Non è una serva. Ma mai come ora, non è di servitù che abbiamo bisogno, di qualcuno che faccia il lavoro al posto nostro. È dell’umiltà di chiedere, e di saper ascoltare, ciò di cui abbiamo bisogno.
 
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