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Metafisica della Terra della Sera

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Dell'infelicità dell'Occidente

Post n°161 pubblicato il 12 Settembre 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Ogniqualvolta sento dire - e lo sento dire sempre - che la filosofia non serve a nulla, ho una duplice reazione.
Sorrido, ripensando al detto di Aristotele: "la filosofia non serve a nulla perché non è una serva".
E poi compiango il mio interlocutore per la sua evidente pochezza. Peggio, per la sua banalità, per l'ovvietà delle sue convinzioni, e per la sua evidente e conseguente incapacità di vedere.

Perché questo è l’atto pratico di cui consiste la metafisica: l'incapacità di riconoscere i suoi presupposti nelle convinzioni correnti; e massimamente, nella convinzione di vivere in una epoca antimetafisica per definizione, fondata com'è sugli indiscutibili successi della conoscenza scientifica - vero paradigma della conoscenza tout court.
E quando la scienza arriva a toccare qualche nervo scoperto delle nostre convinzioni, si sente allora deplorare la nostra epoca per la sua "mancanza dei valori", per il suo gretto materialismo, per la sua mancanza di slanci spirituali ed ideali.
Senza accorgersi che la scienza riposa e si fonda sullo stesso terreno, sulla stessa convinzione irriflessa, sulla quale pretendiamo di fondare valori più alti.

Una convinzione frutto di una dimenticanza: la differenza, la SACRA differenza, che corre tra l’ente e l’essere.
Rieccoci, eh?
E invece la faccenda è molto seria; anche semplice, volendo. Noi consideriamo il mondo, e tutto ciò che lo popola, una cosa. Materialità. Pura presenza. Qualcosa che si dà a prescindere.
A prescindere, appunto: ecco la metafisica al lavoro. Alberi e piante, fenomeni psichici, eventi atmosferici, animali: tutto si dà di per sé; tutto è mosso da leggi interne; tutto preesiste, insiste e sussiste. Tutto, per l’appunto, è una cosa.
Il modo di conoscere le cose è naturalmente quello della scienza, che indaga le cose, gli enti, ed è una conoscenza oggettiva. Indiscutibile, innegabile, imprescindibile.

L’idea che la scienza sia lo strumento per indagare le cose, perciò l’essere, è degna naturalmente di miglior studio, perché si fonda sul presupposto (metafisico) dell’entità del mondo. Indagare le cose significa conoscere la verità: ma solo a patto di considerare il mondo come un ente, oltre al quale nulla esiste, e nulla è possibile.
In senso stretto, questa concezione del mondo si chiama materialismo, e non è nemmeno difficile capire perché. E poiché oltre alle cose, gli enti, non esiste che il nulla, ecco che la nostra concezione può correttamente definirsi nichilismo.
Perché?

Perché quel che resta da spiegare, in questa ottica, è ovviamente l’origine di tutte le cose. La nostra concezione del mondo è nichilista, perché abbiamo da molto tempo smarrito il senso delle cose. Che non è senso ultimo, ma senso altro. E ogniqualvolta chiediamo “il perché” di esse, o quale senso sia mai riposto nell’essere, nella Differenza che dovrebbe preservare le cose dal loro oblìo, chiedendo cioè una garanzia concreta, fattuale, pratica, ricadiamo nella logica materialistica, oggettivistica, nichilistica di cui avvertiamo i limiti.
Il terribile è che nella logica materialista, l’origine delle cose non può che essere una cosa essa stessa. Una origine che salvaguardi le cose dalla perdita di senso, che le doti di significato, di relazioni tra loro e tra loro e noi. Che ci protegga dall’angoscia della solitudine del non-senso, dallo smarrimento.

Ed ecco “l’invenzione” – o se preferiamo, l’istituzione, di un super-ente, origine e ragione di tutti gli enti. Un super-ente che possiede tutte le qualità degli enti, e che è, nella sua essenza, interrogabile e conoscibile. Corredato di una “scienza” – la teologia – atta alla conoscenza di Dio: una conoscenza che segue la via logica della scienza, la quale prima istituisce il suo oggetto, e poi dichiara i suoi enunciati su di esso oggettivi, dunque veri. Come qualcuno che si richiuda in una casa, muri porte e finestre, e poi dichiari che la luce non esiste perché oggettivamente di luce non c’è traccia.

Ma l’angoscia verso la mancanza di senso del tutto, cacciata dalla porta rientra dalla finestra. Perché questo Dio-ente, questo Dio-cosa non ha, non può avere nulla di “divino”: limitandosi al ruolo di garante delle cose, esso è la definitiva certificazione della sparizione della sacra, divina differenza tra essere ed ente. Ed è per questo che parlar dell’essere, è come parlar di nulla, risulta alle nostre orecchie vuota chiacchiera, fumisteria, vaghezza linguistica.
Nella nostra mentalità, per cui tutto è cosa, ogni affermazione o ha un valore pratico, utilitaristico, oppure non ha valore. E poiché solo ciò che è ha valore, tutto ciò che non ha valore non è.
Valore e valore pratico è dunque dir lo stesso. ”E a questo punto, gli dèi se ne sono andati.”

E quel che resta, è l’infelicità dell’Occidente, la Terra della Sera, all’estremo declinare del Sole.


Lotus, “Air and Angels” (Lotus, 1999)
 
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