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Natale a Roma

Post n°3927 pubblicato il 12 Dicembre 2010 da xxx_bluebaby_xxx

Se ci si sofferma qualche minuto a ricordare che gli antichi romani mangiavano sdraiati, si può comprendere facilmente la vera e goduriosa natura della cucina romana, una cucina popolare, ricca di sapori decisi ma semplici, orientata alla conservazione della tradizione rustica, legata alla pastorizia e ai prodotti della terra.
Se questi sono i presupposti, di certo i menù delle festività natalizie non possono deludere.

La sera della Vigilia, rigorosamente senza carne, aprono le danze i tradizionali fritti di carciofi, baccalà e ricotta, cui seguono la minestra di arzelle o di ceci o, in alternativa, la pasta al tonno. Poi il capitone e, infine, i dolci tipici della regione: la nociata, una sorta di torrone fatto con le noci e le foglie di alloro, e il pangiallo, ottenuto dall'impasto di frutta secca, miele e cedro candito.

Il giorno di Natale, dopo l’immancabile fritto alla romana, composto soltanto di cervelli, animelle, schienali e carciofi, si passa al primo che, variabile a seconda delle famiglie, può consistere nella stracciatella in brodo di gallina (una zuppa preparata aggiungendo al brodo caldo uova sbattute e parmigiano grattugiato), nelle fettuccine al ragù, nella pasta al forno o nei cappelletti in brodo di cappone. Tradizionalmente, invece, il secondo significa abbacchio al forno con patate e carciofi alla romana per contorno. Immancabili, nuovamente, i dolci della tradizioni che la fanno da padrone in questo periodo di grande convivialità gastronomica.

Tuttavia, le festività natalizie non sono solo sinonimo di grandi abbuffate; pensando al Natale, non può non venire in mente la musica degli zampognari che fa da colonna sonora alla preparazione del cenone dalla Vigilia. La melodia dolce e malinconica delle zampogne e i pittoreschi costumi, tipici dei pastori abruzzesi, li hanno resi un fondamentale elemento di costume del Natale romano, ma gli zampognari sono eredi di una importante storia che, tra il XVII e il XVIII secolo, li ha visti protagonisti assoluti dei giorni di festa. In questo periodo, infatti, essi erano gli unici ad avere il diritto di suonare e, in cambio della novena di cui erano portatori, venivano invitati nelle abitazioni, dove gli veniva offerto del danaro, del vino o del cibo.

Il fritto alla romana



Nella cucina romana la frittura di certo non manca, ma il classico fritto alla romana non è un semplice fritto misto, bensì una delle colonne portanti dell’universo gastronomico che i romani hanno creato utilizzando il “quinto quarto”, ovvero tutti ciò che è commestibile delle interiora e degli scarti dell’animale macellato. Di fatto, un tempo, le famiglie povere vendevano ai benestanti le parti pregiate della bestia, i due quarti anteriori e i due quarti posteriori, e così restavano loro solo le frattaglie, chiamate pertanto “quinto quarto”.
Il fritto misto alla romana si compone dunque solo di cervelli, animelle e schienali, nonché degli immancabili carciofi. La preparazione di questi quattro ingredienti è molto laboriosa e segue dei rituali ben codificati.
Per il primo, si usano generalmente i cervelli di abbacchio o di vitello che vengono messi a bagno nell'acqua fresca per una ventina di minuti, cambiandola più volte al fine di eliminare bene il sangue, e poi si sbollentano sul fuoco. Appena l’acqua in cui sono immersi giunge a bollore, si versano in un recipiente di acqua fresca per farli freddare. Vengono poi tagliati e si fanno marinare con olio, succo di limone e prezzemolo.
Le animelle sono generalmente di abbacchio e sono preparate seguendo un procedimento analogo a quello dei cervelli. Talvolta, la mozzarella e la provatura, formaggio fresco a pasta filata simile alla mozzarella, possono sostituire questi primi due ingredienti.
Gli schienali costituiscono il midollo spinale del vitello o del manzo. Devono essere dapprima spellati, facendo attenzione a non romperli, dopodiché si mettono in una piccola casseruola e si portano a bollore, quindi si rinfrescano in acqua fredda e si tagliano in pezzi lunghi circa cinque centimetri.
Infine i carciofi, ovviamente romaneschi, devono essere ben mondati lasciando un torsolo di almeno quattro dita e poi si tagliano in otto spicchi, da passare in un recipiente con acqua fresca e succo di limone affinché non anneriscano. Talvolta i carciofi possono essere sostituiti da altri ortaggi quali cavolfiori, melanzane, filetti di zucchine, cardi e ovoli affettati. Una volta che tutti gli elementi sono pronti, si infarinano, si passano nell'uovo sbattuto e si friggono, a medio calore, in una padella contenente abbondante olio d'oliva, fino a che avranno preso una colorazione biondo-chiaro.
Spesso questo fritto è integrato anche da altri ingredienti, ad esempio le mele, private del torsolo e tagliate a fette, poi fritte con una pastella non troppo liquida fatta di acqua, sale, farina e cognac, e la ricotta, stemperata con uova e noce moscata, poi lavorata in tante piccole palline da infarinare nell’uovo battuto e nel pan grattato e, infine, friggere.

Il pangiallo romano è un dolce natalizio tipico del Lazio che si presenta a forma di piccola pagnotta ed è composto da farina, frutta secca e miele, poi lievitato e cotto al forno. Il nome Pangiallo deriva dall’inconfondibile strato di pastella di zafferano che lo ricopre, creando una crosta dorata che gli conferisce la tipica lucentezza che lo ha reso famoso in tutto il mondo. A questo proposito, un’ulteriore conferma viene da un ricettario manoscritto anonimo riconducibile alla prima metà del ‘700 in cui si dice esplicitamente di usare lo “... zaffarano, avertendo di lassarne un poco per dargli il colore di sopra alle pagnotte quando sono cotte ...”.
Le sue origini sono legate alla Roma imperiale, epoca in cui era assai diffusa la tradizione di distribuire questi dolci nel corso della festa del solstizio d'inverno, in modo da favorire il ritorno del sole, rievocato dalla caratteristica copertura dorata del dolce.
Tradizionalmente, il pangiallo si otteneva impastando la frutta secca, il cedro candito e il miele, utilizzato al tempo stesso con la funzione di dolcificante e di conservante. Nel corso del tempo, sia per l’espansione dei confini territoriali, sia per l'incremento della comunicazione tra le varie regioni italiane, questa ricetta, da cui si otteneva un prodotto molto simile ad un semplice pane arricchito con qualche prodotto dolce, è stata oggetto di numerose trasformazioni che lo hanno arricchito negli ingredienti, introducendo, ad esempio, i pistacchi di Bronte o le mandorle di Noto, ma anche piccole gocce di cioccolato fondente, frutta candida e noci.
È curioso sapere che, fino a tempi relativamente recenti, le massaie romane, per ridurre i costi della preparazione e dunque sostituire le mandorle e le nocciole, utilizzavano i noccioli della frutta estiva, in particolare delle prugne e delle albicocche, opportunamente essiccati e conservati.

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