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Gaza:Un giorno sull' autombulanza

Post n°820 pubblicato il 06 Gennaio 2009 da hesse8

Vittorio Arrigoni



Diario da Gaza,
un giorno in ambulanza





«Alla gente innocente di Gaza: la nostra guerra non è contro di voi ma
contro Hamas, se non la smettono di lanciare razzi voi vi troverete in
pericolo». E' la trascrizione di una registrazione che è possibile
ascoltare rispondendo al telefono queste ore a Gaza. L'esercito
israeliano la sta diffondendo illudendosi che i palestinesi non abbiano
occhi e orecchi. Occhi per vedere che le bombe colpiscono quasi
esclusivamente obiettivi civili, come moschee (15, l'ultima quella di
Omar Bin Abd Al Azeez di Beit Hanoun) scuole, università, mercati,
ospedali. Orecchie per non udire le urla di dolore e terrore dei
bambini, vittime innocenti e eppure predestinate di ogni bombardamento.
Secondo fonti ospedaliere, nel momento in cui sto scrivendo sono 120 i
minori rimasti uccisi sotto le bombe, su un totale di 548 morti, più di
2700 feriti, decine e decine di dispersi.
Due
giorni fa all'ospedale della mezzaluna rossa nel campo profughi di
Jabalia, la notte non è mai calata. Dal cielo gli elicotteri Apache
hanno lanciato ordigni illuminanti in continuazione, tanto da non farci
accorgere di una qualche differenza tra giorno e notte. Il
cannoneggiare ripetuto di un tank posto a meno di un chilometro
dall'ospedale ha crepato seriamente le mura dell'edificio, ma abbiamo
resistito fino alla mattina. Verso le 10 circa, bombe sul campo incolto
adiacente all'edificio, fuoco di mitragliatrice tutt'attorno: per i
medici della mezzaluna rossa quello era un messaggio dell'esercito
rivolto a noi -evacuazione immediata, pena la vita. Abbiamo trasferito
i feriti in altre strutture ospedaliere e ora la base operativa delle
ambulanze è sulla strada di Al Nady, il personale medico sta seduto sui
marciapiedi in attesa delle chiamate, che si susseguono febbrilmente.

Per
la prima volta dall'inizio dell’attacco israeliano ho visto negli
ospedali dei cadaveri di membri della resistenza palestinese. Un numero
piccolo, di fronte alle centinaia di vittime civili, che dopo
l'invasione di terra si sono moltiplicate esponenzialmente. Dopo
l'attacco alla moschea di Jabalia (coinciso con l'entrata dei tank) che
ha causato 11 morti e una cinquantina di feriti, per tutta la notte di
sabato scortando le ambulanze ci siamo resi conto della tremenda
potenza distruttiva dei proiettili sparati dagli israeliani. A Bet
Hanoun una famiglia che si stava scaldando nella propria casa dinnanzi
ad un fornellino a legna è stata colpita da uno di questi micidiali
colpi di cannone. Abbiamo raccolto 15 feriti, 4 casi disperati. Poi
verso le 3 del mattino abbiamo risposto ad una chiamata d'emergenza:
troppo tardi, davanti alla porta di un'abitazione tre donne in lacrime
ci hanno messo in braccio una bambina di quattro anni avvolta da un
lenzuolo bianco, il suo sudario, era già gelida. Ancora una famiglia
colpita in pieno, questa volta dall'aviazione, a Jabalia, due adulti
con in corpo schegge di esplosivo. I due figli hanno riportato ferite
lievi, ma da come strillavano era evidente il trauma psicologico che
stavano vivendo, qualcosa che li segnerà indelebilmente per tutta la
vita più di uno sfregio su una guancia. Anche se nessuno si ricorda di
citarli, sono migliaia i bambini afflitti da gravi turbe mentali
procurate dal terrore dei continui bombardamenti, o peggio dalla vista
dei genitori e dei fratellini dilaniati dalle esplosioni.
I crimini
di cui si sta macchiando Israele in queste ore vanno oltre i confini
dell'immaginabile. I soldati non ci permettono di andare a soccorrere i
superstiti di questa immensa catastrofe innaturale. Quando i feriti si
trovano in prossimità dei mezzi blindati israeliani che li hanno
attaccati, a noi sulle ambulanze della mezzaluna rossa non è concesso
avvicinarci, i soldati ci bersagliano di colpi. Avremmo bisogno della
scorta di almeno un'ambulanza della croce rossa, in coordinamento con i
comandi militari israeliani, per poter correre a cercare di salvare
vite: provate a immaginare quanto tempo porterebbe via una procedura
del genere, una condanna a morte certa per dei feriti in attesa di
trasfusioni o di trattamenti di emergenza. Tanto più che la croce rossa
ha i suoi di feriti a cui pensare, non potrebbe in nessun modo rendersi
disponibile ad ogni nostra chiamata. Ci tocca allora stazionare in una
zona «protetta», eufemismo qui a Gaza, e attendere che i parenti ci
portino i congiunti moribondi, spesso in spalla.
Così è andata verso
le 5.30 di stamane, abbiamo arrestato col motore acceso l'ambulanza al
centro di un incrocio e indicato tramite telefono la nostra posizione
ad uno dei parenti dei feriti. Dopo una decina di minuti di snervante
attesa, quando aveva già deciso di ingranare la marcia ed evacuare
l'area per andare a rispondere ad un'altra chiamata, abbiamo visto
girare l'angolo e dirigersi verso di noi, lentamente, un carretto
carico di persone sospinto da un mulo. Una coppia con i suoi due
figlioletti. La migliore rappresentazione possibile di questa
non-guerra.

Questa non è una guerra perché non ci sono due
eserciti che si danno battaglia su un fronte; è un assedio unilaterale
condotto da forze armate (aviazione, marina, ed esercito) fra le più
potenti del mondo, sicuramente le più avanzate in fatto di
equipaggiamento militare tecnologico, che hanno attaccato una misera
striscia di terra di 360 kmq, dove la popolazione si muove ancora sui
muli e dove c'è una resistenza male armata la cui unica forza è quella
di essere pronta al martirio.
Quando il carretto si è fatto
abbastanza vicino gli siamo andati incontro, e con orrore abbiamo
scoperto il suo macabro carico. Un bimbo stava sdraiato con il cranio
fracassato, gli occhi letteralmente saltati fuori dalle orbite, lo
abbiamo raccolto che ancora respirava. Il suo fratellino invece
presentava il torace sventrato, gli si potevano distintamente contare
le costole bianche oltre i brandelli di carne lacera. La madre teneva
poggiate le mani sul quel petto scoperchiato, come se cercasse di
aggiustare qualcosa.
Un ulteriore crimine, e nostro ennesimo personale lutto.
L'esercito
israeliano continua a prendere di mira le ambulanze. Dopo il dottore e
l'infermiere morti a Jabalia 4 giorni fa, ieri è toccato ad un nostro
amico, Arafa Abed Al Dayem, 35 anni, che lascia 4 figli. Verso le otto
e mezza di ieri mattina abbiamo ricevuto una chiamata da Gaza city, due
civili falciati dalla mitragliatrice di un tank; una delle nostre
ambulanze della mezzaluna rossa è accorsa sul posto. Arafa e un
infermiere hanno caricato i due ferti sull'ambulanza, hanno chiuso gli
sportelli pronti a correre verso l'ospedale, quando sono stati centrati
in pieno da un proiettile sparato da un carro armato. Il colpo ha
decapitato uno dei feriti e ha ucciso anche il nostro amico;
l’infermiere se l'è cavata ma è ora ricoverato nello stesso ospedale
dove lavora. Arafa, maestro elementare, si offriva come volontario
paramedico quando c'era carenza di personale. Siamo sotto una pioggia
di bombe, nessuno se l'era sentita di chiamarlo in una situazione di
così alto rischio. Arafa si era presentato da solo, e lavorava conscio
dei pericoli, convinto che oltre la sua famiglia c'erano anche altri
essere umani da difendere, da soccorrere. Ci mancano le sue burle, il
suo irresistibile e contagioso sense of humor che rallegrava l'intero
ospedale Al Auda di Jabalia anche nelle sue ore più cupe e drammatiche,
quando sono più i morti e i feriti che confluiscono, e ci sente quasi
colpevoli, inutili per non aver potuto fare qualcosa per salvarli,
schiacciati come siamo da una forza micidiale inesorabile, la macchina
di morte dell'esercito israeliano.
Qualcuno deve arrestare questa
carneficina, ho visto cose in questi giorni, udito fragori, annusato
miasmi pestiferi, che se avessi mai un giorno una mia progenie, non
avrò mai il coraggio di tramandare. C'è qualcuno là fuori? La
desolazione del sentirsi isolati nell'abbandono è pari alla veduta di
un quartiere di Gaza dopo un'abbondante campagna di raid aerei. Sabato
sera mi hanno passato al telefono la piazza di Milano in protesta, ho
passato a mia volta il cellulare agli eroici dottori e infermieri con
cui stiamo lavorando, li ho visti rincuorarsi per un breve attimo. Le
manifestazioni in tutto il mondo dimostrano che esiste ancora qualcuno
in cui credere, ma le manifestazioni non sono ancora abbastanza
partecipate per esercitare quella pressione necessarie affinché i
governi occidentali costringano Israele in un angolo, ad assumersi le
sue responsabilità come criminale di guerra e contro l'umanità.
Moltissime
le donne gravide terrorizzate che in queste ore stanno dando alla luce
figli frutti di parti prematuri. Ne ho accompagnate personalmente tre a
partorire. Una di queste, Samira, al settimo mese, ha dato alla luce
uno splendido minuscolo bimbo di nome Ahmed. Correndo con lei a bordo
verso l'ospedale di Auda e lasciandoci dietro negli specchietti
retrovisori lo scenario di morte e distruzione dove poco prima stavamo
raccogliendo cadaveri, ho pensato per un attimo che questa vita in
procinto di fiorire potesse essere il beneaugurio per un futuro di pace
e speranza. L'illusione si è dissolta col primo razzo che è caduto a
fianco della nostra ambulanza, tornando da Auda al centro di Jabalia.
Queste madri coraggio mettono tristemente al mondo creature le quali
assorbono come prima luce nei loro occhi, nient'altro oltre il verde
militare dei tanks e delle jeep e i lampi intermittenti che precedono
le esplosioni. Quali prospettive di vita attendono bimbi che fin dal
primo istante della loro nascita avvertono sofferenza e urla di
disgrazia?
restiamo umani.

 
 
 
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