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« BANDA DELLA MAGLIANABANDA DELLA MAGLIANA »

DANILO ABBRUCIATI DETTO IL CAMALEONTE MEMBRO DELLA BANDA DELLA MAGLIANA

Post n°239 pubblicato il 07 Giugno 2011 da tignalucida

DANILO ABBRUCIATI DETTO IL CAMALEONTENato e cresciuto nel quartiere popolare di Primavalle a Roma, figlio del pugile Otello Abbruciati, campione italiano pesi piuma nel 1928, 1938 e 1940, si cimentò lui stesso nel pugilato per poi abbandonare la disciplina visto l'estremo rigore e la perfezione richiesta da suo padre, suo allenatore. Iniziò a frequentare un gruppo di ragazzi, che poi si scoprirono rapinatori, denominata dai giornalisti "Gang dei Camaleonti" e nelle cui vicissitudini rimase coinvolto appena diciottenne, poi i locali frequentati dalla Banda dei Marsigliesi. Abbandonato il settore delle rapine, Abbruciati si unì ai Marsigliesi con i quali pose in essere numerosi sequestri di persona. In carcere a Milano conobbe Francis Turatello con il quale strinse un forte legame di amicizia. Arrestato nel 1975 per l'omicidio di Ercole Tabarini e per una serie di sequestri di persona, torna in libertà solo nel 1979. Appena fuori dal carcere Abbruciati riallaccia i rapporti con i vecchi amici del Testaccio Enrico DePedis e Raffaele Pernasetti, con i quali inizia a lavorare nel milieu della Banda della Magliana nel frattempo in via di formazione. Ad Abbruciati fu affidata la vendita della droga nel quartiere di Trastevere insieme alla convivente Fabiola Moretti. Lo spirito imprenditoriale portò Abbruciati a stringere rapporti di collaborazione con personaggi del calibro di Domenico Balducci, un usuraio di Campo dei fiori, il boss mafioso Pippo Calò e indirettamente con il faccendiere Flavio Carboni (il quale tuttavia affermerà di non aver mai conosciuto direttamente il boss della Magliana) con i quali investì i proventi dello spaccio della droga in operazioni immobiliari in Sardegna. Grazie al buon rapporto con Calò e il boss palermitano Stefano Bontade, Abbruciati portò in dote alla banda un canale di rifornimento di stupefacenti direttamente connesso a Cosa Nostra. Oltre al fiuto per gli affari, Il Camaleonte era anche un killer senza scrupoli. Partecipò alla esecuzione di Antonino Leccese, cognato di Nicolino Selis, il 3 febbraio 1981, nonché all 'omicidio dello stesso Balducci otto mesi dopo. Particolarmente aspra fu la sua guerra personale con altri due esponenti della criminalità romana quali Roberto Belardinelli (detto Bebbo) e Massimo Barbieri. Con il primo il motivo del contendere fu una rissa in un locale notturno, nel corso della quale Abbruciati esplose alcuni colpi di pistola all'indirizzo del Belardinelli, ex pugile con il quale era meglio non scontrarsi fisicamente. Lo scontro con Massimo Barbieri fu causato da un festino organizzato da questi insieme alla ex compagna di Abbruciati. Il Camaleonte non accettò questa mancanza di rispetto, e cercò di vendicarsi uccidendo Barbieri: ma la pistola si inceppò all'ultimo, costringendo il malavitoso testaccino a ripiegare su un più "morbido" pestaggio a sangue con il calcio della pistola. Dal canto suo Barbieri cerco di vendicarsi del pestaggio attentando alla vita di Abbruciati con un colpo di pistola alla tempia: il proiettile, che il Camaleonte decise di far rimuovere solo a vendetta eseguita, fortunatamente non lo uccise e non lascio conseguenze gravi, segnando tuttavia la condanna a morte dell'attentatore. Come se non bastasse, Barbieri si rese responsabile del rapimento e delle sevizie a danno di Fabiola Moretti, che in quegli anni era la donna di Abbruciati. La tanto attesa occasione per la vendetta venne offerta ai Testaccini da un compare di Barbieri, Angelo Angelotti, il quale sfruttò il dissidio dell'ex amico con gli esponenti della banda per sbarazzarsi di lui, in quanto segretamente innamorato della moglie. Attirato con una scusa a un droga party presso un'abitazione di Ladispoli, Barbieri venne narcotizzato e legato per poi essere torturato per ore con un coltello da Abbruciati e Depedis. Una volta ucciso, il suo corpo venne mezzo carbonizzato e abbandonato. La particolare personalità di questo bandito lo spinse a stringere rapporti anche con neofascisti ed esponenti dei servizi segreti, che in più di una occasione come remunerazione per i propri servigi gli offrivano protezione ed impunità. Ma forse, proprio per fare un favore ad una di queste amicizie importanti, Danilo Abbruciati perse la vita il 27 aprile del 1982: recatosi a Milano insieme a Bruno Nieddu per attentare alla vita di Roberto Rosone , vice presidente del Banco Ambrosiano, non riuscì nell'impresa di ucciderlo subito a causa di un guasto alla sua pistola (cosa che gli capitò per la seconda volta). Dopo essere riuscito solo a gambizzarlo, fu ferito a morte da una guardia giurata con un colpo di 357 magnum alle spalle mentre scappava a bordo di una motocicletta guidata dal suo complice Nieddu. La notizia colse di sorpresa i suoi ex compari della Magliana, che un po' come la Polizia si chiedevano cosa ci stesse a fare a Milano un boss del suo calibro. Sembrava infatti strano che Abbruciati si riducesse al ruolo di semplice killer su commissione, ma la nota avidità del personaggio (come testimoniato dal suo amico e sodale Antonio Mancini) potrebbe essere stata la motivazione dell'accettazione di un compito così rischioso quanto ben remunerato. Tale episodio, come poi altri avvenimenti, fu una delle cause della successiva disgregazione tra l'anima maglianese e testaccina della banda. Come presunti mandanti dell'agguato furono indicato Michele Sindona, ma anche il collega Roberto Calvi nonché in ultimo Flavio Carboni.

 
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