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STORIA DELLA MALAVITA MESSINESE 5

Post n°209 pubblicato il 25 Maggio 2011 da tignalucida

Il primo ha confermato (ud. 8.5.1999) che dopo l’arresto di FERRARA Sebastiano l’autorità giudiziaria autorizzò all’interno dell’istituto dei colloqui con il fratello Carmelo, con SANTORO Angelo e probabilmente anche con Zoccoli Giuseppe. L’incontro che si svolse, come di consueto, sotto il controllo esclusivamente visivo degli agenti preposti, era altresì oggetto di un provvedimento di intercettazione ambientale emesso dall’autorità giudiziaria. Molto più precise si sono rivelate le dichiarazioni di Bonaccorso Gaetano, sentito nel corso della stessa udienza, che si è soffermato in generale sulle prime controverse fasi della collaborazione di FERRARA Sebastiano, ricordando che dopo l’arresto l’imputato rese una dichiarazione di intenti alla presenza dei magistrati e del personale del Commissariato “Duomo”, ed iniziò quindi la collaborazione vera e propria alloggiato in stato di detenzione extra-carceraria presso una struttura della Polizia di Stato (la caserma “Zuccarello” di Messina, ove si trovava nello stesso periodo anche TODARO Demetrio), finché il 18 maggio 1994 gli vennero espressamente contestate dai magistrati che ne raccoglievano le dichiarazioni la parzialità e la reticenza del contributo fornito fino a quel momento. In conseguenza di ciò, mentre si registrò una serie di intemperanze del FERRARA, ne venne disposto l’immediato reingresso in una struttura penitenziaria ed il FERRARA fu condotto al carcere di Nuoro, mentre l’inizio della collaborazione di alcuni tra i più importanti esponenti del suo gruppo (SANTORO Angelo, TURRISI Antonino, LONGO Luigi) faceva venire alla luce un vero e proprio piano architettato da FERRARA per occultare il coinvolgimento di alcuni affiliati e per adeguare alle proprie le dichiarazioni degli altri collaboratori già aderenti al suo gruppo: e ciò il FERRARA intendeva ottenere facendo loro pervenire tramite la moglie una serie di audiocassette nelle quali aveva in precedenza registrato le dichiarazioni contenenti le indicazioni relative ai contenuti della sua collaborazione. Il Bonaccorso, a conoscenza del piano architettato dal FERRARA, ma non dello specifico contenuto della cassette da lui registrate, ha poi ricordato che in seguito al suo trasferimento presso il carcere di Nuoro il FERRARA aveva modificato completamente il proprio atteggiamento, ammettendo l’esistenza del disegno inizialmente perseguito e dichiarandosi pronto ad iniziare una nuova fase della collaborazione e ad accusare anche gli affiliati (come LAGANÀ Gianfranco e il dott. Pafumi) che in precedenza aveva evitato di coinvolgere negando perfino l’esistenza del clan. Il commissario Andrea Manganaro, coinvolto in veste di imputato, unitamente ad altri colleghi già in servizio presso il commissariato “Duomo”, in un procedimento penale legato alle fasi iniziali della “gestione” di FERRARA Sebastiano in cui è accusato di peculato, falso materiale e procurata evasione (ed è stato per questa ragione esaminato dalla Corte con le garanzie di cui all’art. 210 c. p. p.), ha dichiarato (ud. 5.5.1999) che il giorno dell’arresto, eseguito al villaggio CEP con qualche difficoltà (prendendo anche calci e pugni, ha ricordato Manganaro, ed ha poi confermato l’ispettore Patania) dal personale del commissariato presso l’abitazione del FERRARA, l’imputato fu condotto in mattinata negli uffici e gli fu quindi consentito dopo un paio di ore, probabilmente per ragioni di ordine pubblico, di incontrare numerose persone (parenti, conoscenti, amici) che si erano radunate nei pressi dei locali del commissariato con l’intenzione di salutarlo. Circa una settimana o due dopo il suo arresto il FERRARA, comunicata attraverso la direzione della casa circondariale di Messina la propria intenzione di collaborare con la giustizia ed avuto un primo contatto anche con i magistrati, chiese ed ottenne dall’autorità giudiziaria di potere incontrare in carcere alla presenza dello stesso Manganaro un suo affiliato, tale Zoccoli Giuseppe, che era sua intenzione convincere a collaborare e che a suo dire era bene informato in ordine ai rapporti del gruppo con esponenti politici. Sempre presso il carcere di Gazzi fu consentito successivamente al FERRARA di incontrare allo stesso scopo per circa venti minuti o mezz’ora il fratello Carmelo e SANTORO Angelo, e fu in questa occasione disposta ed eseguita una intercettazione ambientale con esiti deludenti perché non fu possibile intendere il contenuto della conversazione che era stata registrata. Interpellato poi in ordine alle circostanze dell’arresto di FERRARA Sebastiano, il commissario Manganaro ha escluso che lo stesso fosse stato concordato con l’imputato, attribuendolo invece ai risultati di un’attività investigativa che si era avvalsa dell’ausilio di diverse fonti confidenziali. Il Manganaro ha poi dichiarato di avere a suo tempo presentato, insieme ai propri collaboratori, una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria, il primo dei quali nel luglio 1994, nei confronti di alcuni magistrati in servizio presso la Procura della Repubblica di Messina (i dottori Zumbo, Vaccara, Romano, Langher e Mango), lamentando delle presunte irregolarità nelle indagini condotte a carico suo e dei colleghi, e di avere poi trasmesso allo stesso ufficio di Procura alcune cassette consegnate da un confidente e contenenti la registrazione di conversazioni tra il FERRARA ed alcuni suoi affiliati. La Corte ha infine disposto, alla luce delle dichiarazioni di Manganaro, l’esame dell’ispettore Patania, uno degli appartenenti alla Polizia di Stato già in servizio presso il Commissariato “Duomo” coinvolto nel procedimento al quale si è riferito Manganaro e per questa ragione ascoltato anch’egli con le garanzie di cui all’art. 210 c. p. p. all’udienza del 10 maggio 1999. Il Patania ha confermato quanto dichiarato dal suo superiore in ordine alle circostanze dell’arresto di FERRARA Sebastiano, alla segnalazione della sua intenzione di collaborare con la giustizia di cui diede notizia il comandante del carcere circa dieci giorni dopo l’arresto e al suo successivo alloggio presso la caserma “Zuccarello”, con una parentesi trascorsa dall’imputato a Vibo Valentia. Ha poi confermato anche la circostanza dei due incontri di FERRARA Sebastiano successivi all’inizio della collaborazione, il primo con Zoccoli Giuseppe alla presenza del commissario Manganaro, ed il secondo con il fratello Carmelo e con SANTORO Angelo, il cui contenuto si tentò invano di conoscere attraverso la collocazione di una microspia nei pressi di un orologio. Mostrandosi informato sul contenuto delle cassette registrate successivamente dal FERRARA e consegnate da un informatore, Patania ha ricordato che in una di esse il FERRARA dava delle direttive ai suoi affiliati circa i contenuti della collaborazione, mentre in un’altra era stata incisa probabilmente per errore una conversazione svoltasi all’interno della struttura tra FERRARA Sebastiano e TODARO Demetrio, anch’egli alloggiato presso la caserma “Zuccarello”. Sull’intera vicenda era stato già sentito in dibattimento FERRARA Sebastiano (udienze 12 - 13.3.1999), il quale ha esordito indicando significativamente il mese di giugno dell’anno 1994 come data di inizio della sua collaborazione, sebbene fosse stato arrestato il 28 marzo 1994 in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare relativa al procedimento Peloritana Uno e fosse divenuto dopo una settimana circa collaboratore di giustizia. È probabile che così facendo l’imputato abbia inteso esprimere in maniera ancora più evidente la netta cesura tra una “prima” e una “seconda” collaborazione, intervallate da un breve periodo di detenzione trascorso dal FERRARA presso la casa circondariale di Nuoro. Il FERRARA ha ammesso di avere in un primo momento assunto degli atteggiamenti sbagliati, tra l’altro facendo avere a TURRISI Antonino delle cassette attraverso le quali intendeva orientare la collaborazione dei suoi ex-affiliati, inducendoli a dire tutta la verità ma a non accusare alcune persone appartenute al gruppo ma investite di ruoli minori (“… dicendo che loro dovevano collaborare, dire tutto quello che era a loro conoscenza, però di non fare i nomi di MANGANARO Salvatore, di CURATOLA Giuseppe, del dottore Pafumi, di LAGANÀ Gianfranco e non ricordo qualche altra persona, però dovevano parlare con verità, di dire di tutto e di accusare anche mio fratello”). L’imputato ha comunque escluso di avere mai suggerito di indicare altre persone al posto dei veri responsabili dei singoli delitti. A questi comportamenti poco ortodossi, assunti in un periodo in cui il FERRARA avrebbe trovato l’appoggio di non meglio precisata natura di alcuni poliziotti in servizio al Commissariato “Duomo”, l’imputato ha attribuito la causa della sospensione delle misure di protezione già adottate nei suoi confronti e del suo reingresso in carcere, a cui avrebbe fatto seguito una sincera resipiscenza e l’apertura di una nuova e definitiva fase caratterizzata da una collaborazione aperta e leale. Confermando l’esistenza degli incontri con Zoccoli, SANTORO ed il fratello Carmelo, nonché la circostanza della conversazione telefonica con il TURRISI mentre questi si trovava presso una rivendita di tabacchi del villaggio CEP (fatta dalla caserma della Polizia di Stato di Vibo Valentia sfuggendo momentaneamente alla vigilanza del personale addetto), il FERRARA ha poi precisato di avere registrato le cassette, probabilmente due, utilizzando un’apparecchiatura che la moglie gli aveva fatto avere mentre si trovava presso la caserma di Vibo Valentia: scopo dell’iniziativa era quello di indurre alla collaborazione i suoi affiliati in libertà LONGO e TURRISI, con i quali non era potuto altrimenti entrare in contatto, ed al contempo di orientarne la collaborazione nel senso già precisato (il collaboratore ha fatto anche il nome di tale Sturniolo Orazio tra quelli di coloro le cui responsabilità dovevano essere occultate). La Corte, allo scopo di chiarire ulteriormente questi aspetti e di trovare dei punti di riferimento più precisi sotto il profilo anche temporale nell’ambito delle vicende illustrate dai protagonisti in modo non sempre uniforme, ha provveduto ad altre integrazioni istruttorie, disponendo l’acquisizione di copia del verbale di interrogatorio di FERRARA Sebastiano presso la casa circondariale di Nuoro del 26 giugno 1994 e della relativa trascrizione eseguita da un perito su incarico del GIP del Tribunale di Reggio Calabria, nonché la trascrizione nelle forme della perizia delle audiocassette a cui aveva fatto riferimento FERRARA Sebastiano nel corso del suo esame, previa acquisizione di copia delle medesime, il cui originale è materialmente allegato al fascicolo di altro procedimento che il Pubblico Ministero ha attestato essere ancora in fase di indagini preliminari (v. ordinanze del 21 e del 26 aprile 1999). Al contempo la Corte ha preso atto della assoluta inutilizzabilità della intercettazione ambientale preventiva del colloquio tra FERRARA Sebastiano, FERRARA Carmelo e SANTORO Angelo, acquisendo copia del relativo verbale redatto il 9.4.1994 e relativo all’operazione eseguita con esiti deludenti il 7.4.1994 (sottoscritto da: vice commissario Andrea Manganaro, ispettori Alampi Bruno e Sbarra Salvatore, sovrintendente Genovese Stefano e vice sovrintendente Patania Mario), nonché della richiesta del questore di Messina alla Procura della Repubblica di Messina, Direzione Distrettuale Antimafia, di intercettazione preventiva con provvedimento di autorizzazione in calce del 1° aprile 1994, e della missiva di trasmissione del precedente verbale da parte della Squadra mobile in data 11 aprile 1994 (v. la copia degli atti prodotta dal Pubblico Ministero e allegata al verbale d’udienza del 5 maggio 1999): e ciò perché per tale categoria di intercettazioni l’inutilizzabilità assoluta discende dal terzo comma dell’articolo 25 bis della legge 8 agosto 1992, n. 356 (v. ordinanza del 5 maggio 1999, confermata all’udienza del 12 maggio 1999). È così emerso che l’incontro con i magistrati della Procura di Messina in occasione del quale FERRARA Sebastiano, detenuto presso il carcere di Nuoro, manifestò la sua intenzione di collaborare lealmente, abbandonando gli atteggiamenti che avevano causato la sospensione delle misure di protezione, si verificò il 26 giugno 1994, e nel corso del medesimo il FERRARA, per ciò che rileva in questa sede (la corposa trascrizione eseguita per conto del GIP di Reggio Calabria si presenta molto frammentaria evidentemente a causa della qualità non ottimale della registrazione), ammise l’esistenza del piano di condizionamento della collaborazione dei suoi ex-affiliati attraverso le cassette, attribuì all’istigazione dei poliziotti del Commissariato “Duomo” i propri atteggiamenti iniziali, ivi comprese alcune manifestazioni plateali di protesta (quali la rottura di un vetro e il tentativo di darsi fuoco), e specificamente le resistenze a consentire di essere “gestito” dalla Squadra Mobile di Messina (resistenze che peraltro, come ha evidenziato il teste Bonaccorso, erano probabilmente dovute invece al timore del FERRARA che le più spiccate attitudini investigative del personale del reparto pregiudicassero la riuscita del piano inizialmente architettato). Il perito incaricato dalla Corte di procedere alla trascrizione delle audiocassette acquisite ha innanzitutto verificato che il contenuto dei due nastri è identico, sicché è stata eseguita una sola trascrizione, depositata all’udienza del 5 maggio 1999. Dall’esame della relazione scritta si desume che in una prima parte della registrazione una voce maschile, evidentemente quella di FERRARA Sebastiano, si rivolge a Nuccio e Luigi (è agevole dedurre che si tratta di TURRISI Antonino e, rispettivamente, LONGO Luigi), richiamando numerosi episodi chiaramente riferibili ad una pregressa comune militanza criminale, invitando i destinatari ad intraprendere con fiducia e senza preoccupazioni la strada della collaborazione ed indicando di volta in volta il tenore delle dichiarazioni da rendere, alla luce del criterio generale enunciato nelle raccomandazioni finali (“Diciamo tutte cose, tutta la verità, però senza mettere nel mezzo a nessuno, mettiamoci nel mezzo noi, io, tu, Luigi, Giggia, questi qua mettiamoci nel mezzo, però dicendo la verità per come sono andati i fatti, così non ci confondiamo, l’importante è che non nominiamo altre persone, ci dobbiamo nominare noi altri stessi, però dire la verità ”). Con particolare riferimento all’omicidio di Messina Giovanni, uno dei pochi episodi oggetto di specifica menzione, l’indicazione è segnatamente diretta ad attribuire a Giovanni SALVO, oltre che il ruolo di esecutore diretto del delitto, quello di avere segnalato la presenza di Messina, e ad evitare al contempo di coinvolgere Gianfranco (“… per quanto riguarda l’omicidio Messina, dite che Gianni SALVO è stato lui che si è accorto che Messina si trovava là perché Gianni SALVO era andato a Minissale dalla sua fidanzata e al ritorno ha visto a Messina, è salito al CEP, gliel’ha detto pure a Giggia, si è armato di pistola, Giggia è sceso con lui e ha fatto l’omicidio, però l’importante è non nominare a Gianfranco e dite che il segnale gliel’ha portato Gianfranco e che fu Gianni SALVO stesso che se ne è accorto che era andato a Minissale dalla sua fidanzata”). Prive di rilievo appaiono invece le altre parti della registrazione, una delle quali riporta in particolare una conversazione in cui interviene, oltre a Iano, un tale Demetrio, verosimilmente il TODARO che si trovò alloggiato per un periodo nel 1994 presso la caserma “Zuccarello” di Messina in compagnia di FERRARA Sebastiano. L’ampia parentesi aperta, con l’illustrazione della sintesi delle risultanze dibattimentali relative agli aspetti più controversi della collaborazione di FERRARA Sebastiano, suggerisce evidentemente delle riflessioni che trascendono il singolo episodio in esame, e riveste inoltre delle implicazioni specifiche relative all’omicidio di Messina Giovanni per quanto concerne la posizione dell’imputato LAGANÀ Gianfranco dal cui esame si sono prese le mosse per sviluppare tutte le considerazioni che precedono. Appare invero sconcertante la relativa facilità con cui, profittando di una serie di coincidenze favorevoli e sfruttando abilmente il proprio carisma criminale probabilmente anche nei primi contatti con gli organi inquirenti, un collaboratore di giustizia, in precedenza al vertice di un agguerrito e compatto gruppo criminale, possa continuare ad avere rapporti con i propri vecchi compagni, sia pure allo scopo, in linea di principio meritevole, di indurli a condividere la scelta della collaborazione, e possa poi architettare una sorta di “collaborazione di gruppo”, tentando di ispirare il contenuto delle dichiarazioni dei propri ex-affiliati; ed appare ancora più grave che il FERRARA ciò abbia fatto eludendo i controlli ai quali era certamente sottoposto, trattandosi di un soggetto in quel momento ancora detenuto, anche se in struttura extracarceraria in virtù dell’ammissione a misure provvisorie di protezione: emblematiche sono al riguardo le vicende della telefonata a TURRISI che si trovava in una rivendita di tabacchi del villaggio CEP, e della incisione delle cassette destinate a circolare tra gli affiliati come autentici promemoria della collaborazione (vicenda, quest’ultima, rivelatrice di una certa dimestichezza del FERRARA con audiocassette e registratori già emersa in questo dibattimento con riferimento all’episodio della registrazione della conversazione con tale Gallo Giovanni, illustrato in occasione dell’analisi delle risultanze relative ai reati di cui al capo 15). E tuttavia, dovendosi ogni giudizio in proposito ispirare ad un criterio di ragionevolezza già più volte richiamato, vanno respinte le generalizzazioni che pretenderebbero di trarre dalle vicende esaminate una valutazione di totale inaffidabilità del contributo processuale di FERRARA Sebastiano e degli altri collaboratori di giustizia, imputati e non, già appartenuti al suo gruppo e raggiunti dall’attività di inquinamento probatorio posta in essere dal FERRARA. Va invece operata una valutazione differenziata, caso per caso, tenendo conto innanzitutto del fatto che la collaborazione di FERRARA, in una considerazione complessiva del contributo dato dall’imputato all’accertamento dei fatti sottoposti al vaglio di questo dibattimento, è apparsa generalmente affidabile e intrinsecamente convincente, e ciò giustifica la concessione dell’attenuante speciale di cui all’art. 8 per numerose delle imputazioni per le quali il FERRARA ha riportato condanna. Tale valutazione, per la quale si rinvia alle ragioni illustrate sotto ciascun capo di imputazione, discende certamente dalla considerazione delle conferme che le dichiarazioni di FERRARA Sebastiano hanno trovato non solo nelle dichiarazioni di altri collaboratori, anch’essi imputati ed il più delle volte sicuramente immuni da qualsiasi suo tentativo di condizionamento perché provenienti da contesti associativi diversi, se non opposti, ma anche in altri elementi di prova frutto di attività investigative autonome rispetto al contributo dei collaboratori. Riconducendo poi l’attività di inquinamento probatorio posta in essere dal FERRARA nei suoi esatti confini, va rilevato, alla luce non tanto, e non solo, delle sue successive ammissioni e della sua ostentata professione di lealtà ostentata, quanto delle dichiarazioni di coloro che contribuirono a smascherare il piano, che quest’ultimo, oltre a riguardare esclusivamente alcuni affiliati del gruppo “Ferrara”, contemplava essenzialmente l’occultamento di alcune responsabilità individuali, con la contestuale attribuzione di esse, eventualmente, ad altri affiliati già coinvolti negli stessi episodi, o comunque immuni da concreti pregiudizi perché già sulla strada della collaborazione, e quindi con aspettative di cospicue riduzioni di pena o di altri benefici sul versante esecutivo: ma in ogni caso, con riferimento tanto all’omicidio di Messina Giovanni, che agli altri episodi sottoposti all’esame di questa Corte e potenzialmente investiti dai tentativi di condizionamento del FERRARA, può essere escluso con un margine di ragionevole certezza, perché rimasto del tutto sfornito di prova, che le indicazioni fossero dirette al coinvolgimento di persone innocenti al posto dei veri responsabili dei fatti di sangue o degli altri delitti a cui si riferiva la collaborazione. Nonostante le ripetute sollecitazioni dirette a ottenere chiarimenti in proposito e a fare affermare loro eventualmente il contrario, tutti gli imputati appartenuti in precedenza al gruppo “Ferrara” sono rimasti fermi nel negare di essere stati indotti ad accusare persone innocenti, e, al contempo, a negare di avere accolto le indicazioni del loro ex-capo, se non per un brevissimo lasso di tempo coincidente con la fase iniziale della collaborazione, verosimilmente precedente alle prime verbalizzazioni e al ripensamento determinato dall’acquisita consapevolezza che non sarebbe stato possibile portare fino in fondo il programma suggerito da FERRARA.

 
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STORIA DELLA MALAVITA MESSINESE 4

Post n°208 pubblicato il 25 Maggio 2011 da tignalucida

In parte su queste stesse considerazioni è fondata l’affermazione di responsabilità di MANGANARO Salvatore e FERRARA Carmelo. Ribaditi, in ordine al senso della loro presenza nel momento in cui fu assunta la determinazione criminosa, gli argomenti già illustrati con riferimento a LONGO Luigi, anche in tal caso rafforzati dalla pacifica appartenenza di entrambi gli imputati al gruppo capeggiato da FERRARA Sebastiano, va in particolare notato che al MANGANARO, nella fase esecutiva, era stato affidato, secondo la concorde affermazione degli stessi protagonisti della vicenda, un importante ruolo di ausilio dei due esecutori materiali, poiché, come hanno affermato SALVO, SANTORO e FERRARA Carmelo, il MANGANARO era stato incaricato di prelevare i killer dopo l’omicidio a bordo di un’autovettura e di agevolarne in tal modo l’allontanamento dal luogo del delitto: ed anche FERRARA Sebastiano, pur non sapendo chi dovesse condurre l’autovettura (se il DI DIO che ne era proprietario o altri), ha dichiarato di essere a conoscenza del fatto che era stata concordata la presenza di un complice che dopo l’agguato avrebbe dovuto attendere in una strada secondaria gli esecutori materiali. Tali elementi appaiono sufficienti a pervenire alla affermazione di responsabilità di MANGANARO, che apparteneva al gruppo “Ferrara” e che era presente al villaggio CEP nel momento in cui SALVO e SANTORO, accettato il mandato, si erano allontanati per andare a consumare l’omicidio, e non assume anche in questo caso alcun rilievo la circostanza che il contributo di MANGANARO sia stato vanificato dal contrattempo che obbligò tanto SALVO che SANTORO ad allontanarsi a piedi e ciascuno per proprio conto: l’esame incrociato delle dichiarazioni di SALVO e SANTORO consente di chiarire che l’errata individuazione del luogo in cui sarebbe dovuto avvenire l’incontro dopo l’omicidio impedì a SALVO di trovare l’autovettura condotta da MANGANARO, nonostante i tentativi di SANTORO, il quale, compreso l’equivoco e profittando di una migliore conoscenza dei luoghi, cercò inutilmente di rimediare, indicando al MANGANARO la direzione di fuga scelta imprudentemente da SALVO. Anche la presenza di FERRARA Carmelo nel momento in cui in poche battute fu deciso e organizzato il delitto, e venne conferito a SALVO e SANTORO il mandato omicida, non può che rivestire valenza concorsuale. È emerso dal dibattimento che l’imputato, in quel periodo agli arresti domiciliari, contribuiva ad assicurare ospitalità a SALVO Giovanni, che trascorreva parte della giornata presso l’abitazione del FERRARA, nelle cui adiacenze si svolgevano buona parte degli incontri tra gli affiliati e venivano prese le più importanti decisioni di interesse comune. Il FERRARA, conformemente all’atteggiamento assunto dal fratello Sebastiano, sia in occasione delle dichiarazioni spontanee che nel corso dell’esame del 30 aprile 1999 ha cercato in maniera scarsamente convincente di dimostrare la propria estraneità alla preparazione dell’omicidio, dichiarando di essersi allontanato per discutere con un amico catanese l’acquisto di alcuni mobili subito dopo la segnalazione di LAGANÀ (“… Nel frattempo però, che cosa succede, viene un amico mio catanese, tale Catalano Mario che io avevo preso delle camere, una camera da letto, […] l’ho fatto entrare in casa, e lì fuori il SANTORO insieme a SALVO Giovanni, il LEO, si sono organizzati ad uccidere il Messina […]. Dopo io, in un secondo tempo, ho saputo dal SALVO e dal SANTORO che si erano portati a MANGANARO Rosario che li doveva prendere in una traversa dopo averlo ucciso, invece il MANGANARO non si è fatto trovare e subito dopo l’omicidio il SALVO Giovanni se ne è andato a casa di DI DIO Domenico e il SANTORO a casa sua.”). E tuttavia, mentre in generale appare poco plausibile l’assunzione di un atteggiamento di questo tipo in un momento così delicato come quello relativo alla consumazione imminente di un omicidio che coinvolgeva organizzativamente l’intero gruppo, se non altro per la zona in cui sarebbe stato commesso, altre risultanze smentiscono sul punto il FERRARA e rendono più comprensibili le ragioni per le quali l’imputato è apparso così bene informato in ordine alle circostanze dell’omicidio, ed ha ammesso nel corso delle dichiarazioni spontanee del 6 febbraio 1999 che, avvertite le esplosioni degli spari, aveva compreso che il Messina era stato appena ucciso: tutti gli altri protagonisti dell’episodio (TURRISI, SALVO, SANTORO e LONGO), ammettendo le proprie rispettive responsabilità, hanno univocamente indicato FERRARA Carmelo come uno di coloro che erano presenti quando LAGANÀ aveva precipitosamente fatto rientro al villaggio CEP dando la notizia relativa all’incontro con Messina Giovanni. Secondo la precisazione di SANTORO Angelo alla discussione, che si era svolta successivamente nella piazzetta del quartiere adiacente alla casa del FERRARA, quest’ultimo avrebbe preso parte dal suo balcone insieme a SALVO Giovanni, probabilmente per non violare gli arresti domiciliari. Ancora più esplicita appare l’indicazione desumibile dalle dichiarazioni di un altro degli imputati collaboratori di giustizia, MARCHESE Mario, il quale ha riferito che, recatosi al villaggio CEP in compagnia di Papale Domenico, Mulé Giuseppe e Mancuso Antonino, era stato immediatamente avvisato proprio da FERRARA Carmelo che di lì a poco sarebbe stato commesso un omicidio ed indotto ad allontanarsi subito senza lasciare neppure l’automobile su cui il MARCHESE viaggiava insieme agli altri tre: nel comunicare la cosa il FERRARA avrebbe chiaramente lasciato intendere di essere pienamente e direttamente coinvolto nella organizzazione dell’omicidio univocamente riferibile al suo gruppo di appartenenza (“… andate via che abbiamo organizzato un omicidio qua, dice, andatevene subito via.”). L’affermazione di responsabilità riguarda poi ovviamente, quali mandanti del delitto, MARCHESE Mario e FERRARA Sebastiano, e la condanna è destinata ad “assorbire”, in quanto relativa ad un coinvolgimento specifico dei due imputati, la corrispondente statuizione concernente la deliberazione della “guerra” nei confronti del gruppo “Mancuso – Rizzo” di cui al capo 19. Entrambi hanno ammesso le proprie responsabilità, riconducendo l’omicidio di Messina Giovanni alla strategia adottata con il loro decisivo contributo in seguito all’omicidio di Di Blasi Domenico. MARCHESE ha in particolare evidenziato che il delitto sarebbe stato il primo commesso in esecuzione del mandato comune, posto che tutte le iniziative precedenti, alle quali l’imputato si è infatti dichiarato estraneo, sarebbero state assunte spontaneamente ed autonomamente dal gruppo “Sparacio”. Sul punto la Corte non può che ribadire tutte le riserve espresse in precedenza, ma ciò che giova in questa sede sottolineare è che a partire dall’omicidio di Messina Giovanni MARCHESE si è apertamente assunto la responsabilità di tutti i fatti di sangue commessi contro il gruppo “Mancuso – Rizzo”. L’imputato, a conferma del proprio assunto, ha sottolineato che la presenza di un suo affiliato come Giovanni SALVO al villaggio CEP era finalizzata ad affiancare il gruppo “Ferrara” in qualunque iniziativa FERRARA Sebastiano intendesse assumere nell’ambito della strategia adottata, e costituiva l’espressione concreta del personale coinvolgimento dello stesso MARCHESE (riferendosi a FERRARA Sebastiano quest’ultimo ha dichiarato: “Noi già l’accordo l’avevamo, perché io gli avevo mandato questo SALVO, SALVO apparteneva a me, come infatti l’omicidio l’ha fatto lui, però ce l’aveva lì pronto per qualsiasi movimento si poteva fare ecco. Allora quando è successo che hanno avuto l’occasione di questo Messina, si sono organizzati loro stessi e l’hanno fatto, per cui eravamo tutti d’accordo, non è che l’ha fatto lui di testa sua, l’ha fatto lui perché si trovava in quella zona, però l’ha fatto con una persona che apparteneva a me.”). Ed a sottolineare ulteriormente lo stretto legame con il SALVO e l’interesse di MARCHESE agli sviluppi della sua partecipazione alle iniziative del gruppo “Ferrara”, va rilevata la circostanza dell’incontro tra i due imputati, immediatamente successivo alla consumazione dell’omicidio, in cui il SALVO aggiornò immediatamente il suo referente circa l’esito della missione appena compiuta, ricevendone i complimenti per la buona riuscita di un’operazione che avrebbe accresciuto la forza ed il prestigio dell’intero gruppo. Anche FERRARA Sebastiano ha ammesso senza tentennamenti la propria responsabilità, collegandola al fatto che l’omicidio era riconducibile alla riunione presso la sua abitazione in cui era stata decisa la strategia comune contro il gruppo “Mancuso – Rizzo”, era avvenuto nella zona posta territorialmente sotto il suo controllo, e soprattutto era stato commesso da uomini del suo gruppo che non avrebbero potuto assumere autonomamente alcuna iniziativa ove non fossero consapevoli della volontà favorevole del loro capo (“…ci fu la mia partecipazione sicuramente, anche perché fu nella zona del mio quartiere e fu fatta da uomini appartenenti al mio gruppo ecco. In ogni caso ci sta sempre la mia responsabilità, altrimenti sicuramente non sarebbe successo l’omicidio di Messina.”). E tuttavia, se pure gli elementi indicati dal FERRARA, unitamente a tutte le altre risultanze dibattimentali che attribuiscono unanimemente la paternità dell’omicidio al gruppo “Ferrara”, appaiono più che sufficienti per pervenire ad una affermazione di responsabilità, è opportuno sviluppare, in ordine alla confessione di FERRARA Sebastiano, alcune ulteriori considerazioni che rilevano anche per valutare complessivamente la qualità e l’affidabilità del suo contributo. L’imputato ha infatti più di una volta affermato di non ricordare se era presente o meno nel momento in cui SALVO e SANTORO avevano preso le armi ed erano andati ad uccidere il Messina, cercando di affermare la propria estraneità alla fase propriamente organizzativa del delitto e, soprattutto, di escludere la propria presenza nel momento in cui il suo affiliato LAGANÀ Gianfranco aveva comunicato di avere appena incontrato il Messina (“… Allora subito si prese iniziativa da parte di SANTORO e di SALVO Giovanni, non ricordo se in quella circostanza ci fui presente io, o io fui presente in un secondo tempo, che avevo incontrato LEO Domenico e DI DIO Domenico e mi avevano detto che il SANTORO e il SALVO Giovanni erano andati ad ammazzare Messina Giovanni.”). Sul punto il racconto di FERRARA trova isolata conferma in parte nelle dichiarazioni di TURRISI Antonino e soprattutto in quelle del fratello FERRARA Carmelo, la cui versione dei fatti, resa nota per la prima volta in dibattimento, appare deliberatamente allineata a quella del congiunto. E tuttavia, al di là delle ragioni di tale atteggiamento (quella connessa alla questione del ruolo di LAGANÀ appare la più plausibile), tutte le altri fonti di accusa smentiscono clamorosamente FERRARA Sebastiano, non solo attestando la sua presenza nel momento in cui, ricevuta la segnalazione di LAGANÀ, si decise l’uccisione di Messina Giovanni, ma attribuendogli altresì un preciso ruolo propulsivo ed organizzativo, posto che sua sarebbe stata l’individuazione degli esecutori materiali, suo il conferimento specifico del mandato omicida a SALVO e SANTORO e suoi sarebbero stati anche gli ordini finalizzati al reperimento delle armi necessarie per commettere l’omicidio e alla successiva eliminazione di ogni eventuale traccia (distruzione dell’arma usata e occultamento del giubbotto indossato da SALVO al momento dell’omicidio). Sono state già sintetizzate in proposito le significative dichiarazioni di SALVO Giovanni, che, pur manifestando qualche dubbio in ordine alla indicazione del momento a partire dal quale il FERRARA sarebbe stato presente e del luogo in cui avrebbe conferito il mandato omicida, è stato molto esplicito nell’attribuire al FERRARA la paternità di tale mandato e l’assegnazione dei compiti che precedette il delitto e nell’affermarne la presenza nel momento in cui LAGANÀ aveva segnalato di avere incontrato il Messina (“… noi non ci saremmo potuti muovere se lui non ci dava il via, non è che io e SANTORO Angelo, o io da solo avrei preso la decisione di uccidere il Messina, perché non era possibile completamente, sicuramente ce lo doveva dire lui, perciò non poteva essere presente a casa forse, non ricordo se era presente a casa del fratello, ma ricordo benissimo che comunque è stato lui a dare l’ordine e che era nella stalla, e che le ha prese tutte lui le decisioni di chi mi doveva prendere e di chi non mi doveva prendere.”). All’esame della posizione e del contributo processuale di FERRARA Sebastiano è evidentemente legata la questione della partecipazione al delitto di LAGANÀ Gianfranco, che FERRARA ha indicato senza esitazioni come un proprio affiliato, pur affannandosi nel corso dell’esame a sottolineare che la presenza del LAGANÀ nel luogo da cui aveva avvistato il Messina (l’officina di un elettrauto presso la quale aveva accompagnato il dott. Pafumi) era un fatto del tutto casuale e che era stata la paura di eventuali atti ostili nei suoi confronti a spingere LAGANÀ, a cui era nota l’appartenenza del Messina al gruppo “Mancuso”, ad avvisare gli affiliati che stazionavano al villaggio CEP; nel corso del controesame, sollecitato da ulteriori richieste difensive in ordine al ruolo di LAGANÀ nella vicenda, il FERRARA ha espresso con maggiore chiarezza il proprio convincimento, affermando e ribadendo che a suo parere nella condotta di LAGANÀ non sarebbero ravvisabili elementi di responsabilità: e ciò, è bene precisarlo per intendere l’esatta portata di tali affermazioni, anche se il FERRARA è sembrato più propenso ad escludere la propria presenza nel momento in cui il LAGANÀ aveva segnalato di avere incontrato il Messina, e conseguentemente a ricondurre le proprie conoscenze in ordine al ruolo del suo affiliato a quanto aveva appreso successivamente. Affermazioni analoghe sono state fatte da FERRARA Carmelo, che aveva negato un ruolo causalmente rilevante del LAGANÀ in occasione delle dichiarazioni spontanee del 6 febbraio 1999, e tale versione ha successivamente ribadito in occasione dell’esame del 30 aprile 1999. È stata già affermata l’assoluta irrilevanza di giudizi di questo tipo, del tutto ininfluenti ove formulati da semplici testimoni, e da considerare addirittura con sospetto se provenienti da collaboratori di giustizia, spesso indotti dalla loro peculiare posizione e dalla conoscenza degli ambienti e delle dinamiche criminali ad esternare convincimenti in ordine a responsabilità individuali (connesse, ad es., al coinvolgimento in singoli delitti o all’appartenenza ad un’associazione) da prendere in considerazione solo se ancorati a precisi e verificabili dati di fatto. È infatti evidente in generale che siffatte valutazioni, ove proposte dai collaboratori di giustizia, possono sensibilmente risentire dei criteri di giudizio propri dell’ambiente di provenienza e della mentalità del dichiarante, indotto da tale retaggio a sminuire la valenza di comportamenti di sicura rilevanza penalistica, o, al contrario, a sopravvalutare atteggiamenti che tale rilevanza non possiedono. Nel caso di specie, e sempre con riferimento a quanto riferito da FERRARA Sebastiano circa il ruolo di LAGANÀ Gianfranco nella consumazione dell’omicidio di Messina Giovanni, a queste considerazioni di carattere generale si affiancano e si sovrappongono ulteriori elementi di sospetto legati ad una serie di vicende relative alla fase iniziale della collaborazione di FERRARA Sebastiano su cui il dibattimento si è spesso soffermato, e sulle quali la Corte ha provveduto a svariate integrazioni ai sensi dell’art. 507 c. p. p., sia attraverso acquisizioni documentali che tramite l’audizione di alcune persone a vario titolo coinvolte o informate su tali vicende, tra cui gli imputati LONGO Luigi, SANTORO Angelo e TURRISI Antonino, ovviamente oltre allo stesso protagonista FERRARA Sebastiano. LONGO Luigi nel corso del suo esame (ud. 17.7.1998) ha spiegato di avere iniziato a collaborare con la giustizia dopo il maggio 1994, allorché si era presentato spontaneamente agli organi di polizia dai quali sapeva ormai di essere ricercato e dopo avere maturato la scelta della collaborazione come unica possibilità di garantirsi un futuro (“Perché non c’era via d’uscita, picchi mi vulia ricittari, perché ho perso tutto, ho perso la famiglia, ho perso tutto, poi mi voliumu puru ammazzari e dissi basta.”). Il LONGO ha tuttavia affermato chiaramente che questa scelta era stata prevalentemente determinata dalle pressioni di FERRARA Sebastiano, che in un primo momento, tramite il fratello Alessandro, gli aveva reso nota la sua intenzione di collaborare con la giustizia invitandolo a fare altrettanto, e poi, tramite TURRISI Antonino, gli aveva rinnovato la sollecitazione (“‘Sai, facciamo ‘sto passo, perché ormai non c’è via di uscita’, e abbiamo fatto il passo.”), e gli aveva fatto pervenire una audiocassetta registrata della durata di circa venti minuti o mezz’ora, attraverso la quale il FERRARA gli faceva sapere di averlo dovuto accusare, ma al tempo stesso gli dava precise indicazioni sui contenuti della sua eventuale futura collaborazione, esortandolo a non coinvolgere alcuni ragazzi del gruppo (“Diciti tutta a verità, escluditi a MANGANARO, a LAGANÀ e a CURATOLA”). LONGO, dopo una prima adesione alle richieste di FERRARA, ha comunque escluso di essersi successivamente attenuto a queste indicazioni del suo ex-capoclan, dal quale in ogni caso non era mai venuta l’esortazione ad accusare persone innocenti, e di avere sempre dichiarato la verità a chi lo interrogava, ed in tal senso si era determinato anche TURRISI che per primo gli aveva parlato della cassetta e delle relative comunicazioni del FERRARA. SANTORO Angelo ha invece dichiarato in merito a questa vicenda (ud. 10.7.1998) che nel 1994, mentre era detenuto prima dell’inizio della collaborazione, grazie all’intervento del maresciallo del carcere, si era incontrato all’interno della struttura penitenziaria con FERRARA Sebastiano, che era anch’egli detenuto, ma già collaborava con la giustizia e invitava SANTORO a fare altrettanto. Escludendo di avere avuto successivamente altri incontri analoghi con FERRARA Sebastiano, SANTORO ha poi ricordato che la sua convivente, Costa Concetta, gli rese noto nel corso di un colloquio al carcere di Spoleto di avere ricevuto una cassetta registrata, che le era stata fatta avere dalla moglie di FERRARA, e che il SANTORO non ascoltò pur avendo appreso dalla Costa che in essa il FERRARA gli comunicava che lo stava accusando anche di omicidi e lo invitava ancora una volta ad intraprendere la strada della collaborazione, cosa che il SANTORO si sarebbe determinato autonomamente a fare nel 1995. La circostanza ha trovato conferma nella audizione di Costa Concetta, la quale ha precisato (ud. 8.5.1999) di avere ricevuto una cassetta da TURRISI Antonino, a cui a sua volta sarebbe stata consegnata dalla moglie di FERRARA Sebastiano, e di averne ancora oggi la disponibilità, dal momento che gli organi investigativi, che avevano provveduto ad acquisire successivamente il nastro per metterlo a disposizione dell’autorità giudiziaria, si erano limitati ad estrarne una copia. L’ex-convivente del SANTORO, dimostrando di avere a suo tempo conosciuto il contenuto della registrazione, ha riferito che la voce incisa era quella di FERRARA Sebastiano, ed ha poi specificato, dopo la contestazione di dichiarazioni rese nell’ambito di altro procedimento (iscritto al n. 5/1993 R. G. N. R.), che in effetti le cassette erano due, una delle quali ancora nella sua disponibilità (precisamente custodita all’interno della sua autovettura), l’altra probabilmente distrutta dal TURRISI, che almeno così le avrebbe riferito circa la sorte dell’altro nastro. Non ha trovato conferma quanto invece la Costa aveva a suo tempo dichiarato in ordine al contenuto della cassetta in suo possesso, che ha negato di ricordare, mentre nel 1995 aveva dichiarato che con essa il FERRARA invitava i suoi ex-affiliati ad attribuirsi le proprie responsabilità ed in particolare anticipava a LONGO e TURRISI la notizia del loro arresto ormai imminente raccomandando loro di consentire alle forze dell’ordine il ritrovamento delle armi del gruppo. In proposito è stato sentito, come è stato già rilevato, anche TURRISI Antonino, il quale ha riferito (ud. 24.3.1999) che, dopo l’inizio della collaborazione di FERRARA Sebastiano e prima che lo stesso TURRISI iniziasse a sua volta a collaborare con la giustizia (maggio 1994), era stato contattato telefonicamente dalla moglie di FERRARA Sebastiano presso un’utenza installata all’interno di una rivendita di tabacchi al villaggio CEP. La cosa si ripeté tre o quattro volte, ed in una di queste occasioni la Palmeri, che cercava di rassicurare il TURRISI (“mi diceva di non preoccuparmi che Sebastiano non si era dimenticato di me…”), lo aveva fatto parlare con il marito. Successivamente la moglie di FERRARA aveva convocato TURRISI a casa sua e gli aveva consegnato le due audiocassette registrate dal marito, in una delle quali il FERRARA faceva sapere che stava cercando di occultare le responsabilità di TURRISI e degli altri affiliati, mentre nell’altra invitava TURRISI a ponderare bene l’eventuale scelta di collaborazione ed in ogni caso gli rendeva noto il contenuto delle sue dichiarazioni, raccomandandogli, con specifico riferimento all’omicidio di Messina Giovanni, di non accusare LAGANÀ Gianfranco di avere “portato il segnale”. E se, una volta arrestato ed intrapresa la strada della collaborazione, era inizialmente intenzione di TURRISI di seguire le indicazioni del FERRARA, dopo non più di alcune settimane lo stesso TURRISI aveva abbandonato l’idea e consentito di smascherare il progetto di FERRARA intenzionato a coinvolgere nelle accuse il minor numero possibile di affiliati (“… poi io ho smontato tutta la vicenda, se così si può dire, perché io ho fatto chiamare i magistrati, ho raccontato tutta la verità e tutto il marchingegno che aveva creato FERRARA. […] Io ho detto la verità, sempre la verità, però tenevo fuori qualcuno, successivamente io che ho fatto? Siccome - non so spiegarmi il perché - ho visto che questa cosa non poteva funzionare, ho chiesto l’intervento dei magistrati, allora agli ispettori che mi hanno interrogato […], ho detto: ‘Gentilmente voglio la Procura qui ché devo parlare di cose importanti’. […] Dieci, quindici giorni ho fatto venire la Procura ed ho spiegato i motivi del gesto della mia collaborazione e perché, e tutto il piano del FERRARA per filo e per segno, l’ho spiegato nei minimi particolari e da lì in poi gli ho spiegato anche ai magistrati le intenzioni di FERRARA in quanto riguarda gli omicidi che si doveva tenere fuori alcuni nostri affiliati, e ho raccontato tutta la verità ai magistrati, ho distrutto, diciamo, l’intento di FERRARA, diciamo, di coinvolgere meno persone possibili.”). Tanto la questione degli incontri del FERRARA immediatamente successivi all’inizio della sua collaborazione che quella della consegna delle cassette, iniziative evidentemente accomunate dal desiderio di FERRARA Sebastiano di orientare in qualche misura la collaborazione dei propri ex-adepti, hanno formato oggetto di ulteriori approfondimenti, attraverso l’audizione di Bonanno Filippo, ispettore della polizia penitenziaria presso la casa circondariale di Messina Gazzi, di Bonaccorso Gaetano, funzionario della Squadra Mobile di Messina, e di Manganaro Andrea e Patania Mario, in servizio nel 1994 presso il commissariato “Duomo” il cui personale procedette all’arresto di FERRARA Sebastiano.

 
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STORIA DELLA MALAVITA MESSINESE 3

Post n°207 pubblicato il 25 Maggio 2011 da tignalucida

Nel corso dell’esame, assunto all’udienza del 30 aprile 1999 in seguito ad un provvedimento di ammissione ai sensi dell’art. 507 c. p. p., FERRARA Carmelo ha sostanzialmente ribadito il contenuto di queste dichiarazioni, aggiungendo che: l’omicidio era avvenuto nel maggio 1991; il nome di Messina, come affiliato al gruppo “Mancuso” e quindi potenziale vittima della rappresaglia, era stato fatto nel corso delle riunioni successive all’omicidio Di Blasi; il Messina stava facendo un trasloco quando era stato visto da LAGANÀ; il gesto che il Messina aveva rivolto con le mani al LAGANÀ era inequivocabilmente ostile; l’estorsione da cui era nato il contrasto tra SALVO e Messina riguardava un rivenditore ambulante di granite, inteso il tedesco, che lavorava sul viale Europa; FERRARA Carmelo, così come il fratello Sebastiano, non era presente nel momento in cui SALVO e SANTORO erano partiti per uccidere il Messina, in quanto aveva fatto ingresso in casa per discutere con un amico catanese che gli aveva appena venduto l’arredamento di qualche camera; LAGANÀ si era allontanato subito dopo avere riferito che c’era il Messina; gli esecutori avevano due pistole calibro 9 ´ 21 che TURRISI aveva prelevato dalla stalla; TURRISI si era inoltre disfatto di un giubbotto rosso e della pistola utilizzati da SALVO; quest’ultimo, dopo l’omicidio di Letterio Rizzo, era stato ospitato al villaggio CEP e durante il giorno stava a casa di Carmelo FERRARA, mentre dormiva a casa di DI DIO Domenico, o meglio al piano sottostante anch’esso di proprietà del DI DIO. Con riferimento all’episodio in esame era stata altresì disposta la citazione di Viena Antonello, già collaboratore di giustizia che avrebbe dovuto essere sentito con le garanzie di cui all’art. 210 c. p. p., ma che all’udienza del 29 novembre 1997 si è avvalso della facoltà di non rispondere. Richiamato all’udienza del 30 aprile 1999, alla luce della nuova versione dell’art. 513 c. p. p. determinata dall’intervento della Corte costituzionale e delle diverse conseguenze legate all’esercizio della facoltà di astenersi dal deporre per le categorie di soggetti processuali indicati dalla norma, il Viena si è ulteriormente avvalso della facoltà di non rispondere ed il Pubblico Ministero gli ha contestato il contenuto di un verbale del 28 dicembre 1993, allorché il Viena aveva accusato SALVO Giovanni di essere l’autore materiale dell’omicidio di Messina Giovanni, come lo stesso SALVO gli aveva confidato nell’estate del 1992 in occasione di un incontro per la consegna di qualche grammo di cocaina che il SALVO aveva chiesto al Viena. Alla luce dell’articolato complesso delle risultanze dibattimentali di cui è stato in dettaglio illustrato il contenuto si impone l’affermazione della responsabilità degli imputati SALVO Giovanni, SANTORO Angelo, LONGO Luigi, FERRARA Sebastiano, FERRARA Carmelo, MANGANARO Salvatore, MARCHESE Mario e LAGANÀ Gianfranco. Vi è assoluta convergenza delle fonti di accusa più significative ed affidabili sulla indicazione del movente dell’omicidio e dell’identità dei due principali esecutori materiali. Al di là di ogni ragionevole dubbio il dibattimento ha attestato l’appartenenza di Messina Giovanni al gruppo di MANCUSO Giorgio, ed anche quest’ultimo lo ha indicato come un suo affiliato, che era stato coinvolto nei contrasti con il gruppo “Ferrara” precedenti all’omicidio Di Blasi e la cui eliminazione andava essere sicuramente ricondotta alla reazione degli altri gruppi alla uccisione di Occhi ‘i bozza (“… La morte di Messina invece fu direttamente, partì direttamente dal gruppo “Ferrara”, che vi era un contributo anche a questa situazione, tanto con Messina ce l’avevano pure per altre situazioni, delle estorsioni ed altro …”). È perciò plausibile, al di là della questione relativa al mancato svolgimento di una riunione specificamente dedicata alla deliberazione ed organizzazione dell’omicidio (e la risposta negativa a questo interrogativo, nonostante le ripetute sollecitazioni, è un dato su cui le fonti di accusa convergono), che il nome di Messina Giovanni, o lo pseudonimo con cui era conosciuto nell’ambiente (menza molla), sia circolato fin dalle primissime riunioni successive all’omicidio Di Blasi e la sua persona, come un potenziale obiettivo della rappresaglia, trattandosi di uno degli elementi più vicini a MANCUSO Giorgio, abbia attirato l’attenzione dapprima di uno dei gruppi di fuoco composto da elementi del clan “Sparacio” (quello di CARIOLO, VENTURA e GUARNERA), e poi del gruppo “Ferrara”, a cui non era sfuggito che il Messina stava per traslocare dal quartiere Camaro nella casa di Contesse che gli era stata ceduta in affitto da Aliquò Ignazio: quest’ultimo era un altro personaggio ritenuto vicino a MANCUSO Giorgio e RIZZO Rosario, i cui movimenti, per questa ragione, erano oggetto di particolare ed interessata attenzione in un momento in cui l’obiettivo primario restava ancora la scoperta del nascondiglio di MANCUSO, resosi irreperibile dopo l’omicidio Di Blasi, ed era considerata a tal fine di particolare importanza l’individuazione di quanti appoggiavano concretamente la sua latitanza. È infatti evidente che, al di là della questione della natura del ruolo assunto da LAGANÀ Gianfranco nella vicenda e della sua partecipazione al delitto, in ordine alla quale sarà doveroso un attento riesame critico delle fonti di prova, quale che sia stato il contenuto e la valenza della “segnalazione” del LAGANÀ, la presenza del Messina in un quartiere diverso da quello da lui abitato e solitamente frequentato non costituiva una sorpresa per FERRARA Sebastiano ed i suoi uomini. La successione degli eventi così come concordemente riferita da tutti i protagonisti attesta senza alcuna ombra di dubbio che costoro erano ben consapevoli del fatto che la presenza di Messina non era frutto di un puro caso e che il giovane si sarebbe verosimilmente trattenuto nella zona in cui era stato avvistato da LAGANÀ per il tempo necessario a quest’ultimo a raggiungere il vicino villaggio CEP ed ai killer per organizzarsi e compiere armati il percorso inverso: che vi fosse un interesse del Messina a fermarsi presso l’appartamento ubicato nei pressi del pastificio Triolo di cui aveva recentemente acquisito la disponibilità, per seguire i lavori di rifacimento o il trasloco di mobili che precedevano il suo trasferimento in compagnia della convivente, è circostanza confermata da diversi collaboratori di giustizia e che giustifica la condotta di SALVO e SANTORO, i quali si andarono a posizionare nelle vicinanze del palazzo “Mangano” certi che il Messina vi si sarebbe trovato ancora dopo l’incontro con LAGANÀ; la conoscenza delle ragioni che avrebbero indotto probabilmente il Messina a trattenersi in zona vale a spiegare inoltre il motivo per cui, anche per coloro secondo i quali il LAGANÀ diede il “segnale” per la consumazione dell’omicidio, egli si limitò a comunicare di avere incontrato il Messina, senza nulla aggiungere. Per quanto la sua conoscenza dei fatti appaia per altri versi parziale, sono sul punto significative le dichiarazioni di LEO Roberto che, nel quadro della rete di contatti e scambi di informazioni attivata in seguito all’omicidio Di Blasi e relativa ai movimenti degli esponenti del gruppo “Mancuso – Rizzo”, ha inserito un proprio intervento personale diretto a rendere noto al cugino LEO Domenico che il Messina aveva da poco preso in affitto un appartamento a Contesse; ed ha altresì affermato che l’omicidio era avvenuto pochissimo tempo dopo questa sua segnalazione e che FERRARA Sebastiano aveva prima fatto accertare la veridicità dell’indicazione, verificando la presenza del camion da cui venivano scaricati i mobili destinati ad arredare la casa del Messina. Peraltro che quest’ultimo in quel periodo si trovasse di tanto in tanto nella zona e le ragioni per le quali ciò avveniva sono circostanze che, considerata anche la personalità della vittima e la sua notoria appartenenza ad un gruppo avversario, non potevano sfuggire a FERRARA Sebastiano ed ai suoi affiliati, il cui “quartiere generale” si trovava al villaggio CEP (distante appena qualche centinaio di metri dal luogo in cui fu consumato l’omicidio), e ciò appare perfettamente coerente con le risultanze dibattimentali: anche se non ha trovato conferma la circostanza che gli esecutori materiali fossero perfino a conoscenza dell’orario in cui il Messina avrebbe dovuto trovarsi sul posto in attesa dell’arrivo del camion da cui dovevano essere scaricati i suoi mobili (ha dichiarato in tal senso il solo LA TORRE, riferendo quanto avrebbe appreso da BONASERA Angelo), è poco plausibile che l’omicidio si sia verificato “casualmente” nel senso in cui ha cercato di far credere proprio FERRARA Sebastiano, sottolineando spontaneamente e a più riprese che era casuale la presenza di Messina e che era soprattutto casuale la presenza di LAGANÀ Gianfranco, e concludendo contraddittoriamente che l’omicidio era avvenuto “per caso”, pur rientrando nell’ambito della programmata eliminazione di tutti gli affiliati al gruppo “Mancuso – Rizzo”, e pur essendo venuto il suo gruppo a conoscenza che il Messina aveva preso in affitto una casa nella zona. È infatti verosimile che effettivamente non fosse prevista, nel pomeriggio del 21 maggio 1991, la visita del dott. Pafumi (convocato invano dalla Corte su richiesta della difesa di LAGANÀ, essendosi avvalso della facoltà di non rispondere: ud. 19.4.1999), e conseguentemente la presenza dell’imputato LAGANÀ (che accompagnò il primo presso un elettrauto) nella zona in cui si trovava anche il Messina: ma solo in questo limitato senso si può parlare di “occasionalità” dell’incontro e del successivo omicidio, perché è certo che in quel particolare momento gli spostamenti di un esponente di primo piano del gruppo “Mancuso” non potevano passare inosservati (soprattutto in una zona rigidamente assoggettata al controllo di uno dei gruppi più attivi nell’esecuzione della strategia adottata), ed il suo omicidio apparteneva già all’orizzonte programmatico scelto dagli uomini di vertice degli altri gruppi e fatto proprio dagli affiliati. Una ricostruzione di questo tipo privilegia evidentemente la causale riconducibile alla deliberazione della “guerra” contro il gruppo “Mancuso – Rizzo”, non apparendo quella connessa ai presunti contrasti per una estorsione contesa al gruppo “Marchese”, e a SALVO Giovanni in particolare, sufficientemente suffragata ed essendo stata espressamente smentita dallo stesso SALVO; ma la prospettazione giustifica al contempo, in generale, la contestazione delle due circostanze aggravanti che accomunano quello in esame a molti degli altri reati esaminati nell’ambito di questo procedimento, e cioè la premeditazione e l’aggravante specifica di cui all’art. 7 del d. l. n. 152/91. Sotto il primo profilo, richiamate in questa sede le considerazioni di carattere generale in ordine agli elementi costitutivi della circostanza e alle relative difficoltà di accertamento consistendo essa in un dolo di particolare intensità e quindi in un fatto spiccatamente interiore, va ricordato l’orientamento costante secondo il quale l’occasionalità della consumazione del delitto non esclude la premeditazione: il Messina era un elemento di primo piano del gruppo “Mancuso” e la sua uccisione è certamente riconducibile alle deliberazioni adottate dopo l’omicidio Di Blasi, tanto che lo stesso Messina era probabilmente l’obiettivo (mancato) del primo agguato successivo all’omicidio Di Blasi. La presenza di SALVO tra gli esecutori materiali (e con un ruolo determinante) rafforza queste considerazioni, perché attesta un interesse alla eliminazione del Messina, quale affiliato al MANCUSO, che trascendeva il gruppo “Ferrara”, che pure aveva il monopolio organizzativo delle azioni che venivano commesse in quella zona della città, ed investiva anche gli altri gruppi tanto da indurre uno dei più agguerriti di essi, il gruppo “Marchese”, a “mettere a disposizione” un componente del proprio gruppo di fuoco per appoggiare le iniziative indicate. L’omicidio è stato poi consumato per agevolare un’associazione di stampo mafioso e, comunque, avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c. p., e ciò sia per le modalità esecutive (il fatto fu commesso a volto scoperto ed in pieno giorno, in una zona ad alta intensità di traffico veicolare e pedonale), sia per il movente che è riconducibile ai contrasti tra gruppi contrapposti e che ispira la consumazione dell’omicidio come strumento strategico diretto alla acquisizione di un ruolo egemonico nel panorama delle organizzazioni criminali attraverso la eliminazione dei capi e degli affiliati appartenenti ai clan rivali. Passando a considerare le posizioni dei singoli imputati, va innanzitutto affermata la responsabilità di coloro che, sia pure in maniera più o meno esplicita, hanno ammesso il proprio coinvolgimento nell’omicidio di Messina Giovanni, e cioè SALVO Giovanni, SANTORO Angelo, FERRARA Sebastiano, MARCHESE Mario, LONGO Luigi e FERRARA Carmelo. SALVO e SANTORO hanno riconosciuto apertamente e senza riserve le rispettive responsabilità quali esecutori materiali del delitto, fornendo una dettagliatissima descrizione dell’episodio e consentendo di ricostruire l’omicidio in maniera conforme anche alle risultanze della prova c. d. generica ed a quanto era emerso in occasione del primo processo (ad es. in ordine all’uso da parte del killer di un giubbotto di colore rosso o arancione). La conclusione non vale solo per il SALVO, che ha materialmente azionato il grilletto contro la vittima, ma anche per SANTORO, originariamente destinato ad affiancare il primo e successivamente rimasto ad una certa distanza a seguire la scena per evitare di essere riconosciuto. Natura indiscutibilmente concorsuale rivestono le condotte del SANTORO precedenti all’appostamento, peraltro comuni ad entrambi gli imputati, e reciprocamente dotate di efficacia rafforzatrice del rispettivo proposito criminoso (accettazione del mandato omicida, partecipazione ai preparativi, spostamento nella zona in cui avrebbe dovuto trovarsi la vittima designata). Ma anche quanto avvenuto successivamente attesta la partecipazione e la piena responsabilità di SANTORO Angelo, posto che l’imputato, secondo le sue stesse ammissioni, una volta comunicata al complice la propria volontà di non prendere direttamente parte all’esecuzione dell’omicidio, rimase nelle vicinanze e fornì al SALVO indicazioni concrete sulla posizione da assumere, verosimilmente perché in possesso di una migliore conoscenza dei luoghi e perciò in grado di interpretare adeguatamente la segnalazione di LAGANÀ (“Mi sono fermato lì io, però gli ho spiegato dove si poteva mettere lui, e lui ha atteso lì quando è uscito questo Mezza Molla, quando si è avvicinato con la motocicletta lui, Gianni SALVO gli ha sparato un paio di colpi di pistola …”); SANTORO cercò poi di favorire la fuga del SALVO, indicandogli la direzione migliore, e tentando invano di mantenere il contatto con il MANGANARO, al quale segnalò il percorso del SALVO: ovviamente che in concreto queste iniziative non abbiano sortito l’effetto sperato e che SALVO e SANTORO siano stati costretti ad allontanarsi a piedi ciascuno per proprio conto, senza incontrare la Y10 condotta da MANGANARO, non assume sotto questo aspetto alcun rilievo, trattandosi di anomalie della fase esecutiva che hanno impedito la piena riuscita del piano concordato ma che non privano le condotte dell’imputato di reale efficacia causale, quantomeno sotto il profilo del rafforzamento del proposito criminoso del SALVO. Analogamente LONGO Luigi ha ammesso di avere fatto parte del gruppo di persone riunite nelle vicinanze della casa di FERRARA Carmelo ed avvisate da LAGANÀ della presenza di Messina. Ricordando di essere stato designato in un primo momento da FERRARA Sebastiano per la consumazione dell’omicidio (a cui si era sottratto in quanto troppo conosciuto nella zona), l’imputato ha conseguentemente ammesso di essere stato presente nel momento in cui il mandato omicida fu accettato da SALVO e SANTORO. Va in proposito rilevato, sviluppando un argomento destinato a valere anche per le posizioni di alcuni degli altri imputati, che tale presenza non è un dato penalisticamente neutro o indifferente, poiché essa esprime, per il contesto in cui si colloca, la condivisione di un programma, l’accettazione delle sue conseguenze, e, soprattutto, la disponibilità a darvi il proprio contributo, e per queste ragioni determina negli altri partecipanti il legittimo convincimento di potere contare sull’adesione e sulla collaborazione di un altro concorrente. Nell’ambito della disamina delle risultanze relative al capo 19 è stato già richiamato l’orientamento giurisprudenziale più rigoroso, secondo cui “in materia di concorso nel reato, potendosi questo configurare anche quando si manifesti nella forma di semplice adesione, comunque espressa, ad un proposito criminoso da altri concepito (e poi in effetti realizzato), deve affermarsi la riconoscibilità di siffatta adesione anche nel comportamento di chi, partecipando a riunioni di soggetti appositamente convocati per essere messi al corrente di iniziative criminose altrui (la cui realizzazione chiederà poi la collaborazione di quei medesimi soggetti o, almeno, di una parte di essi), mostri, sia pure con il silenzio, di approvare le dette iniziative e di essere pronto a dare la propria collaborazione”[1]. Nel caso di specie, pur non essendo emerso con certezza in dibattimento che l’omicidio sia stato preceduto da una fase organizzativa più articolata, caratterizzata, ad es., dalla divisione dei compiti (in presenza della quale l’affermazione di responsabilità sarebbe scontata), sembra difficile poter negare che una qualche intesa, facilitata dalla natura dei rapporti intercorrenti tra i vari concorrenti, nei fatti vi sia stata, avendo i presenti aderito, eventualmente anche per facta concludentia, alla volontà omicida esternata da FERRARA Sebastiano, abituato per il ruolo rivestito a non discutere le proprie decisioni con gli affiliati e a pretenderne l’esecuzione in tempi ristretti (secondo quanto incisivamente riferito da SALVO Giovanni non ci fu neanche il tempo di pensare, anche se lo stesso imputato fa cenno ad una assegnazione di ruoli da parte di FERRARA Sebastiano). Che anche il LONGO, venuto a conoscenza dell’omicidio che stava per essere consumato, si sia messo a disposizione per la buona riuscita della missione, probabilmente secondo un meccanismo collaudato da un periodo più o meno ampio di comune militanza associativa (l’imputato ha dichiarato di essere entrato nel clan “Ferrara” dopo un periodo di “rodaggio” alla fine del 1990), è ampiamente confermato dalle sue condotte successive alla consumazione del delitto, che esprimono non già una mera cooperazione post delictum, ma la preventiva e spontanea adesione al programma e l’assunzione di un ruolo di supporto, eventualmente anche generico in attesa delle specificazioni imposte dallo sviluppo degli eventi. Per sua stessa ammissione l’imputato ha infatti recuperato la pistola che dopo l’omicidio il SANTORO aveva nascosto, per occultarla a sua volta presso la stalla di FERRARA, ed ha poi prelevato il SALVO per condurlo presso l’appartamento di DI DIO e poi, come hanno riferito anche FERRARA Sebastiano, SANTORO Angelo e lo stesso SALVO Giovanni, presso il MARCHESE che si trovava nella zona di Giostra.

 
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STORIA DELLA MALAVITA MESSINESE 2

Post n°206 pubblicato il 25 Maggio 2011 da tignalucida
Foto di tignalucida

In merito all’omicidio di Messina Giovanni nel corso del controesame MARCHESE è stato interpellato sulle ragioni per cui, sentito il 3 febbraio 1993, aveva indicato quale esecutore materiale PIETROPAOLO Pasquale, e successivamente, il 12 novembre 1993, rettificando espressamente la propria precedente dichiarazione, aveva accusato del delitto SALVO Giovanni, ammettendo di avere in precedenza fatto confusione. MARCHESE, che in occasione di quel primo interrogatorio aveva specificato che il PIETROPAOLO si era mostrato contrariato in quanto aveva subito il sequestro di un giubbotto diverso da quello effettivamente indossato al momento dell’omicidio (il collaboratore aveva evidentemente attribuito al PIETROPAOLO quanto era in realtà accaduto nel corso delle prime indagini a Genovese Raffaele), non ha saputo fornire una spiegazione plausibile della discrasia, limitandosi a dichiarare che il verbale meno recente risaliva alle fasi iniziali della sua collaborazione, quando la sua famiglia non era stata ancora spostata in località protetta ed era pertanto costretto a subire minacce e ricatti, ed anche il Pubblico Ministero che lo esaminava esercitava pressioni nei suoi confronti, sospettando che fosse sua intenzione coprire le responsabilità dei suoi ex-affiliati, tra cui GALLETTA Nicola, che un altro collaboratore (ARNONE Marcello) accusava di tre omicidi dai quali il MARCHESE lo scagionava: questa situazione particolare (il MARCHESE ha dichiarato che gli era stata prospettata l’emissione di ben trenta mandati di cattura ove non si fosse deciso a rivelare la verità) determinava uno stato di tensione psicologica, che potrebbe giustificare la confusione all’origine della erronea indicazione di PIETROPAOLO Pasquale, in luogo del SALVO, quale esecutore materiale dell’omicidio di Messina Giovanni. Anche su questo punto all’udienza del 10 maggio 1999 è stato esaminato, ai sensi dell’art. 507 c. p. p., il maresciallo Biagio Gatto, che per un periodo aveva “gestito” il MARCHESE raccogliendone le dichiarazioni, il quale ha confermato il contrasto con ARNONE in ordine alla posizione di GALLETTA Nicola e l’iniziale intenzione del MARCHESE di non coinvolgere con le proprie accuse i suoi affiliati Mulé Giuseppe e GALLETTA Nicola, in quanto persone “vicine” alla sua famiglia che si trovava ancora a Messina, lasciando tuttavia intendere tutta l’ambiguità di tale “protezione”, che si spingeva fino ad accompagnare i familiari del collaboratore a Roma, dove il MARCHESE si trovava detenuto, evidentemente allo scopo di assicurarsi che al collaboratore giungesse chiaro il messaggio implicito nella loro presenza al fianco dei congiunti. Una conferma della assidua frequentazione di casa MARCHESE da parte di Mulé e GALLETTA in epoca successiva all’inizio della collaborazione dello stesso MARCHESE e dei rapporti che i due continuavano a mantenere con la moglie Graziella Vento è venuta da altri due collaboratori BONAFFINI Salvatore e PIETROPAOLO Pasquale, i quali, riferendo in merito al tentato omicidio di Sparolo Domenico, avvenuto il 6 gennaio 1993, a cui entrambi hanno ammesso di avere partecipato, hanno ricordato di essere stati prima convocati da Mulé e GALLETTA presso l’abitazione della “zia Graziella” dove i due si trovavano (v. in proposito l’esame delle risultanze relative al capo 45). In merito alle pressioni denunziate dal collaboratore la Corte, così come rilevato anche in altre parti della motivazione, ha preso comunque atto delle dichiarazioni di MARCHESE, che molte difese hanno indicato come sintomo ulteriore di modalità non del tutto ortodosse di assunzione delle fonti di prova nel corso delle indagini preliminari che avrebbero condizionato irrimediabilmente anche la genuinità delle risultanze dibattimentali, e ha disposto la trasmissione di copia del verbale, nonché di quello contenente le dichiarazioni del maresciallo Gatto, al Pubblico Ministero per quanto di sua eventuale competenza. Va tuttavia ribadita, in linea con il criterio al quale la Corte ha scelto di attenersi, la limitata valenza di affrettate generalizzazioni, tanto più da evitare ove si consideri la vastità e la complessità dei fatti esaminati che non si prestano, almeno sotto l’aspetto in questione, ad una lettura globale, diretta a contestare, nel suo insieme e senza distinzioni, l’affidabilità di tutte le fonti di prova utilizzate e confluite nell’istruzione dibattimentale, lamentando con enfasi, ad es., che i suddetti inconvenienti avrebbero determinato lo svolgimento di un “processo virtuale”. In altri termini, pur dovendosi confermare in generale l’esigenza che la gestione dei collaboratori di giustizia sia sempre ispirata a criteri di massimo rigore e di spiccata professionalità, dovendosi sfuggire alla pericolosa tentazione di ritenere che l’avvento dei “pentiti” si traduca nella semplificazione del ragionamento probatorio, ovvero schiuda confortevoli scorciatoie all’esplicazione del libero convincimento, è opportuno rimanere ancorati alla valutazione del contributo all’accertamento giudiziale dei fatti da essi fornito caso per caso, analizzandolo alla luce della altre risultanze probatorie per saggiarne l’affidabilità e la genuinità. Con riferimento alla originaria indicazione di PIETROPAOLO Pasquale come autore dell’omicidio di Messina Giovanni da parte di MARCHESE Mario (come si è già notato, il solo ARNONE Marcello, peraltro nel contesto di una dichiarazione di modesto valore intrinseco, ha attribuito un ruolo nell’omicidio anche a PIETROPAOLO Pasquale), va rilevato che, al di là delle ragioni dell’accusa (confusione, cattivo ricordo, deliberata scelta di non coinvolgere i veri responsabili), la successiva correzione di tiro, intervenuta peraltro molto tempo prima del dibattimento e, soprattutto, prima della verbalizzazione di buona parte degli altri collaboratori che hanno riferito in merito a questo delitto, adegua il contributo di MARCHESE Mario a tutte le altre risultanze processuali più affidabili, prima fra tutte la confessione di SALVO Giovanni, ed essa appare perciò convincente e idonea a fare annoverare senza riserve anche l’esame di MARCHESE Mario tra le fonti di prova utili alla ricostruzione dell’episodio in questione. FERRARA Sebastiano, sentito nel corso delle due udienze del 12 e 13 marzo 1999, ha innanzitutto ricondotto anche l’omicidio di Messina Giovanni alla decisione di uccidere tutti gli elementi del gruppo “Mancuso – Rizzo”, assumendosi la responsabilità del delitto, ma escludendo che esso fosse stato oggetto di una organizzazione specifica e sottolineando l’occasionalità degli eventi che avevano determinato la consumazione dell’omicidio. Casuale era la presenza del Messina nella zona il giorno dell’omicidio, anche se FERRARA ha ammesso di essere stato messo al corrente del fatto che la vittima aveva preso in affitto una casa nelle vicinanze (il che induce però a ritenere che i movimenti del Messina fossero già controllati), e casuale era soprattutto la presenza di LAGANÀ Gianfranco, affiliato del FERRARA, il quale aveva appena accompagnato presso l’officina di un elettrauto, tale Dario Balena, il dottore Pafumi, un medico ortopedico in servizio presso la clinica “Cristo Re” di Messina, che aveva la necessità di una riparazione alla propria autovettura. LAGANÀ, molto spaventato dalla presenza di Messina Giovanni, che probabilmente gli aveva detto qualcosa, aveva allora raggiunto e avvisato i compagni che si trovavano nel villaggio CEP, e da qui erano immediatamente partiti SALVO Giovanni e SANTORO Angelo, armati con una pistola calibro 9 ´ 21 ciascuno. Come successivamente FERRARA avrebbe appreso da entrambi, a sparare era stato il SALVO, che apparteneva al gruppo di MARCHESE Mario ma che in quel periodo era ospitato al villaggio CEP presso un appartamento di DI DIO Domenico per motivi precauzionali, in quanto temeva l’ostilità del gruppo “Mancuso – Rizzo”. I due esecutori materiali si erano allontanati a piedi, sebbene fosse stato concordato che dovesse essere predisposta per prelevarli una Autobianchi Y10 di proprietà di DI DIO Domenico (FERRARA non ricorda se a condurla dovesse essere lo stesso DI DIO o altra persona). Dopo l’omicidio SALVO e SANTORO si erano temporaneamente rifugiati presso la stalla, consegnando a TURRISI Antonino la pistola utilizzata perché la eliminasse: successivamente SANTORO aveva fatto rientro a casa propria in compagnia della convivente, mentre SALVO, dopo essere passato dalla casa di DIO Domenico, era stato riaccompagnato da LONGO Luigi (e forse anche dal TURRISI); FERRARA invece, poco dopo l’omicidio, era stato condotto in Questura presso gli uffici della Squadra mobile, evidentemente perché la localizzazione del delitto e la personalità della vittima autorizzavano il sospetto che il FERRARA potesse esservi coinvolto o fosse in grado di fornire qualche elemento utile alle indagini. Ribadendo la propria responsabilità, essendo stato l’omicidio consumato nella sua zona di influenza e con la partecipazione di uomini del suo gruppo (“In ogni caso ci sta sempre la mia responsabilità, altrimenti sicuramente non sarebbe successo l’omicidio di Messina.”), Sebastiano FERRARA ha comunque escluso che il delitto fosse stato oggetto di una specifica e preventiva organizzazione, affermando, quanto al proprio ruolo, di non essere sicuro se era presente nel momento in cui, appreso quanto riferiva il LAGANÀ, SALVO e SANTORO si erano mossi per uccidere il Messina, o se piuttosto ne era stato informato subito dopo da LEO Domenico e DI DIO Domenico. E successivamente, durante il controesame dei difensori, allo stesso proposito il FERRARA ha ribadito la sua incertezza, dichiarando che, se fosse stato presente, l’ordine di uccidere il Messina sarebbe sicuramente partito da lui, ma che in caso contrario SALVO e SANTORO erano sicuramente autorizzati a prendere comunque l’iniziativa in virtù delle decisioni scaturite dalle riunioni successive all’uccisione di Di Blasi Domenico, che prevedevano l’eliminazione, ove se ne fosse presentata l’occasione, di qualsiasi elemento del gruppo “Mancuso – Rizzo”. SALVO Giovanni, sentito il 9 aprile 1999, si è assunto senza riserve la paternità dell’omicidio di Messina Giovanni, affermando espressamente che il delitto si inquadra nei fatti di sangue scaturiti dalla determinazione criminosa adottata dagli uomini di vertice dei vari gruppi nei confronti del clan “Mancuso – Rizzo” dopo l’omicidio Di Blasi. Il SALVO ha riferito che si trovava al villaggio CEP, ospite da un paio di mesi del gruppo “Ferrara” presso un appartamento di DI DIO Domenico, con il compito di prendere parte alle azioni di fuoco che avrebbero dovuto essere portate ad esecuzione nei confronti dei componenti del gruppo “Mancuso – Rizzo” a cui apparteneva anche Messina Giovanni. Indicando un elemento temporale molto preciso (ha dichiarato che l’omicidio avvenne nel maggio 1991, il giorno precedente al suo compleanno, che festeggia il 22 maggio), l’imputato ha riferito che il giorno dell’omicidio era in compagnia di Sebastiano FERRARA, Carmelo FERRARA, Luigi LONGO, Angelo SANTORO, Salvatore MANGANARO ed Antonino TURRISI allorché era arrivato Gianfranco LAGANÀ che segnalava un po’ preoccupato (perché, confermerà il SALVO, “gli aveva fatto capire anche a gesti che lo avrebbe ucciso”) la presenza di Messina Giovanni presso la casa di Ignazio Aliquò ubicata sulla strada statale 114 nel quartiere di Contesse: era questo un appartamento tenuto d’occhio dal momento che era notoria la vicinanza di Aliquò a MANCUSO Giorgio e RIZZO Rosario, con i quali aveva frequenti rapporti legati allo scambio di cocaina. Senza alcuna esitazione (“… non c’è stato neanche il tempo di pensare…”) FERRARA Sebastiano aveva ordinato a SALVO e SANTORO di prendere le armi nella stalla e di andare a commettere l’omicidio. Armati con due pistole 9 ´ 21, i due avevano concordato con MANGANARO Salvatore le modalità dell’allontanamento che doveva avvenire attraverso una stradella che collega la strada statale ed il villaggio CEP, in modo da consentire ai killer di raggiungere subito la casa di DI DIO Domenico. Si era tuttavia verificato un primo imprevisto perché il SANTORO, temendo di essere facilmente riconosciuto in quanto abituale frequentatore della zona, si era defilato, sicché era toccato al solo SALVO compiere la missione delittuosa. Quest’ultimo si era posizionato in attesa nei pressi della fermata dell’autobus che è adiacente all’ingresso del palazzo “Mangano”, finché non aveva visto il Messina uscire dal portone ed avviare la motocicletta. A questo punto, approfittando del passaggio di un autobus, aveva colto di sorpresa la vittima esplodendogli contro alcuni colpi di pistola, tra cui quello “di grazia”, prima di vedere il Messina stramazzare al suolo senza vita. Si era a questo punto verificato un secondo imprevisto perché il MANGANARO non aveva bene inteso quale fosse il luogo dell’appuntamento e si era posizionato altrove, sicché il SALVO, che si era dovuto allontanare in tutta fretta per sfuggire all’assembramento creatosi in seguito all’omicidio ed anche per evitare di essere visto da una parente titolare di un vicino esercizio commerciale, era stato anche costretto a raggiungere da sé la casa di DI DIO Domenico dopo essersi fermato presso la stalla per consegnare al TURRISI, perché se ne disfacesse, un giubbotto rosso (che gli era stato prestato da Sebastiano FERRARA) e l’arma usata per l’omicidio. SALVO ha poi aggiunto che conosceva il Messina, che aveva incontrato qualche tempo prima una domenica mattina a Camaro presso un rivenditore di granite, tale Tedesco, che era sottoposto ad estorsione da parte del gruppo “Marchese”, a cui apparteneva il SALVO: in quell’occasione il Messina, assumendo di eseguire un ordine di Giorgio MANCUSO, aveva riferito al SALVO che da quel momento i soldi li avrebbe ritirati lui, ma la vicenda successivamente si era chiarita anche grazie all’intervento di MARCHESE, sicché l’imputato ha escluso che possa avere influito sulla sua adesione alla determinazione omicida. Circa la provenienza dell’arma usata l’imputato, che in un primo momento aveva parlato di una pistola calibro 9 ´ 21 che gli era stata data da GALLETTA Nicola (il cui ruolo il SALVO ha dichiarato di avere assunto nell’ambito del gruppo “Marchese” dopo l’arresto del GALLETTA), ha poi precisato in seguito alla contestazione che la pistola era stata consegnata al GALLETTA da un calabrese, tale Ugo Di Stefano affiliato all’omonimo clan della ‘ndrangheta, in occasione di un incontro avvenuto a Messina presso l’imbarcadero della “Caronte”: l’imputato si è così deliberatamente discostato sul punto dalla versione fornita nel corso delle indagini preliminari, allorché aveva dichiarato che l’arma gli era stata regalata direttamente dal Di Stefano, ma la divergenza, del tutto marginale e relativa ad un particolare sostanzialmente irrilevante, non pregiudica ovviamente l’affidabilità complessiva del racconto. SALVO ha poi proseguito la sua narrazione, riferendo che dopo qualche ora era stato raggiunto presso la casa di DI DIO da FERRARA Sebastiano, che aveva cercato di tranquillizzarlo e di convincerlo a rimanere tutta la notte rifugiato al villaggio CEP per motivi precauzionali; ma il SALVO, anche perché il giorno successivo festeggiava il suo compleanno, aveva insistito per allontanarsi, sicché LONGO Luigi lo aveva riportato a Giostra intorno alle sei e mezza o sette con la Y10 di DI DIO Domenico. L’imputato aveva quindi incontrato a casa della sorella di Mulé Giuseppe MARCHESE Mario, che era intento a controllare le armi appena acquistate da tale Pietro Strano (verosimilmente l’amico catanese al quale si era riferito anche MARCHESE durante il suo esame) e che si complimentava per la riuscita dell’azione omicida. In merito all’omicidio di Messina Giovanni l’imputato FERRARA Carmelo ha chiesto all’udienza del 6 febbraio 1999 di rendere spontanee dichiarazioni, dopo che al suo esame il Pubblico Ministero aveva rinunziato, come si è già osservato nell’illustrare le risultanze relative al capo 15, in seguito alle contestazioni determinate dal mancato rinvenimento nel fascicolo del Pubblico Ministero di verbali contenenti sue dichiarazioni. L’esame del FERRARA era stato nondimeno chiesto dal Pubblico Ministero ed ammesso certamente con riferimento ai reati di cui ai capi 15 e 24 dei quali il FERRARA è imputato, ma la Corte, disposto un accertamento urgente presso la segreteria del Pubblico Ministero, ha verificato ufficialmente che nessun verbale di dichiarazioni dell’imputato FERRARA Carmelo era stato depositato dal Pubblico Ministero al momento della richiesta di rinvio a giudizio avanzata nell’ambito di questo procedimento. Rinviando in proposito a quanto in precedenza argomentato per ciò che riguarda le conseguenze di questa situazione e la legittimità del provvedimento adottato dalla Corte, va ora rilevato che il FERRARA, ammettendo espressamente di non avere mai reso in precedenza dichiarazioni in merito all’omicidio di Messina Giovanni e lamentando di non essere stato posto in condizioni di farlo sebbene ne avesse manifestato l’esigenza agli inquirenti, ha riferito spontaneamente che il giorno dell’omicidio si trovava a casa sua, ove era sottoposto agli arresti domiciliari, in compagnia di SALVO Giovanni e di un amico barbiere che aveva tagliato i capelli ad entrambi allorché era sopraggiunto il dottore Pafumi a bordo della sua Fiat CROMA che lamentava un guasto all’impianto elettrico, cercando di FERRARA Sebastiano; FERRARA Carmelo aveva allora chiamato Gianfranco LAGANÀ chiedendogli di accompagnare il Pafumi presso l’officina di tale Dario Balena. In questo frangente il LAGANÀ, lasciato il Pafumi presso l’elettrauto, aveva incontrato Messina Giovanni, dal quale era stato minacciato con gesti che avevano molto impressionato il LAGANÀ tanto da indurlo a raggiungere subito l’abitazione del FERRARA e a rendere la cosa nota ai presenti (SANTORO, SALVO, LEO Domenico, probabilmente anche TURRISI e LONGO). A questo punto SALVO Giovanni, che nutriva del rancore nei confronti del Messina per un contrasto legato ad un’estorsione, si era munito di una pistola e successivamente il FERRARA aveva percepito il fragore dei colpi comprendendo che era stato ucciso il Messina. FERRARA aveva successivamente ricevuto la visita delle forze dell’ordine ed il fratello Sebastiano era stato condotto in caserma. Il giorno successivo FERRARA aveva appreso da SANTORO e SALVO che il MANGANARO (probabilmente incorrendo in un lapsus il collaboratore ha indicato “Rosario” quale nome di battesimo dell’altro imputato, indotto forse in errore dal fatto che dovrebbe trattarsi di due fratelli entrambi inseriti nel gruppo “Ferrara”: v. le dichiarazioni di TURRISI Antonino all’udienza del 24.3.1999) avrebbe dovuto attenderli a bordo di una Y10, ma non si era fatto trovare nel punto concordato, sicché SALVO si era rifugiato presso la casa di DI DIO Domenico e SANTORO era ritornato a casa sua. Con particolare enfasi il FERRARA ha più volte ribadito la sua convinzione circa l’innocenza del LAGANÀ, soffermandosi a descrivere il suo particolare stato emotivo, evidentemente per metterne implicitamente in luce l’incompatibilità con l’atteggiamento di chi partecipa ad un omicidio, sia pure con il limitato ruolo, attribuito dall’accusa al LAGANÀ, di dare il “segnale” concernente la presenza della vittima (“…Tutto spaventato il LAGANÀ, con sincerità sto parlando, ha detto che c’era il Messina che l’aveva minacciato. Era tutto impaurito, bianco, stava male comunque. […] Con molta onestà io parlo, perché la coscienza me lo impone, che il LAGANÀ su questo fatto per me non c’entra, perché il LAGANÀ l’ho mandato io col dottor Pafumi lì sotto, è venuto lì sopra dicendo: “Lì sotto c’è quello ammazzato”. Non è vero, perché è venuto tutto impaurito il LAGANÀ ... ”).

 
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AREA 51

Post n°191 pubblicato il 17 Maggio 2011 da tignalucida

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JUVENTUS E IL SUO DESTINO

Post n°190 pubblicato il 15 Maggio 2011 da tignalucida

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COME ORMAI SAPPIAMO LA JUVENTUS NON E ENTRATA IN EUROPA E LA COLPA E DI TANTE PERSONE CHE NON SANNO FARE IL LORO LAVORO INIZIANDO DA DEL NERI CHE è STATO L'ACQUISTO PIù SBAGLIATO DELL'ANNO PERCHè LUI NON E UN ALLENATORE DI SQUADRE CHE LOTTANO AL VERTICE DELLA CLASSIFICA E QUINDI NON ABITUATO ALLE PRESSIONI CHE NE RICHIEDONO , LUI PUò FARE L'ALLENATORE DI UNA SQUADRA DI MEDIO-BASS CLASSIFICA E SENZA PRESSIONE E UN Pò PER CULO A CONQUISTATO LA CHAMPIONS CON LA SAMPDORIA CHE POI A PERSO I PRELIMINARI E NON E PARTECIPATA E QUEST'ANNO E SCESA ANCHE IN SERIE B , ORA IL DIRIGENTI DOVREBBERO CAMBIARE TUTTO E TUTTI MENO BUFFON- DEL PIERO CHE E IL CAPITANO , CHIELLINI ED ALTRI CHE NON SONO DA BUTTARE, MA IL PROSSIMO ANNO SI DEVE CAMBIARE MUSICA CHE I TIFOSI SONO STANCHI DI QUESTI SETTIMI POSTI.

 

 

 
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BOB LAZAR E LE SUE TEORIE SULL'ELEMENTO 115 E I DISCHI VOLANTI LE LORO PROPULSIONI

Post n°188 pubblicato il 12 Maggio 2011 da tignalucida

bob lazardxaffascinando i media su suoi presunti coinvolgimenti, all'interno di strutture governative segrete, inerenti studi di retroingegneria su velivoli di origine aliena. Fin da subito le affermazioni diffuse da questo sedicente fisico, a tutt'oggi non è stato infatti ancora possibile confermare la sua laurea in tale disciplina, scioccarono sia il mondo ufologico quanto quello dei mass media americani. Tali dichiarazioni portarono davanti al grande pubblico, forse per la prima volta concretamente, la prova e la possibilità della reale esistenza di velivoli alieni all'interno di installazioni militari americane ovvero di studi correlati di retroingegneria finalizzati alla comprensione e all'utilizzo delle tecnologie derivate. Affermazioni che, ormai da diversi decenni, circolavano già nell'ambiente ufologico ma che non sembravano possedere ancora quella base di concretezza che Lazar sembrò attribuirgli. A differenza di altri rivelatori le affermazioni rilasciate da Lazar non sembrarono infatti essere prive di quei fondamenti logici e scientifici che altri prima di lui avevano dimostrato di non possedere. Lo stesso Lazar si era infatti addentrato, in numerose occasioni, in aspetti tecnico-scientifici che solo esperti o profondi cultori del settore avrebbero potuto esporre e commentare senza problemi di sorta. Vennero allo stesso tempo chiamate in causa diverse agenzie governative americane, nonché diversi autorità della fisica, di cui il più noto fu quell'Edward Teller padre della bomba H recentemente scomparso. Presunte minacce di morte e alcuni attentati portarono Lazar a rendere ancor più di pubblico dominio le proprie affermazioni, cercando in tal modo di costruire una sorta di immagine pubblica che lo potesse proteggere minimamente da attacchi alla sua persona. Se questa strategia inizialmente sembrò funzionare, ritenendo ovviamente che tutto l'affaire Lazar sia reale, dopo poco tempo si poté assistere ad una vera e propria campagna denigratoria nei confronti del fisico traditore. Sicuramente, e se realmente la situazione è andata in questo modo, coloro che cercarono di screditare questo individuo non trovarono grosse difficoltà. Lazar infatti è sempre stato un soggetto molto eclettico ovvero "particolare" che ha alternato i suoi presunti studi universitari in fisica a divertimenti ben più mondani tra cui la gestione di un bordello nello stato del Nevada. Proprio quest'ultima "attività" gli costò una condanna in sede penale verso i primi anni '90, fatto questo alquanto curioso visto che nello stesso stato del Nevada la prostituzione è un'attività «legalmente regolamentata» e non punibile ai termini di legge. Questa breve panoramica ci rende edotti di come debbano essere prese con cautela le affermazioni e le ipotesi proposte da questo individuo nel corso degli anni, personaggio che, come vedremo successivamente, potrebbe essere stato altresì l'abile esecutore di una longa manus intenzionata ad inquinare il campo ufologico. Quanto però di vero, o di possibile, ci potesse essere in alcune sue affermazioni non sembrò apparentemente manifestarsi fin da subito. Solo diversi anni dopo, principalmente verso la metà degli anni '90, si iniziò a rivedere in chiave critica ma costruttiva quelle che potevano essere basi scientifiche reali su cui Lazar sembrava avesse lavorato. Lo stesso sistema di propulsione da lui descritto, un motore warp-drive, o a curvatura spazio-temporale, inconcepibile scientificamente per la fine degli anni '80, venne studiato e costruito a livello "teorico" già dagli inizi degli anni '90 portando addirittura la NASA alla costituzione di un progetto denominato «Breakthrough Propulsion Project » per lo studio della distorsione spazio-temporale a fini spaziali ed esplorativi. Un bel salto di qualità che però non ci permette di giustificare né di avvalorare in toto le affermazioni di Lazar! Elemento fondante del motore a curvatura sarebbe stato il combustibile che questi UFO avrebbero utilizzato per spostarsi nel cosmo, conosciuto fin dalle prime rivelazioni come l'elemento 115 della tavola periodica degli elementi. Pur se la distorsione spazio-temporale potrebbe permettere di "contrarre" enormemente le distanze che dovessero essere affrontate con sistemi propulsivi convenzionali, la generazione di una bolla di curvatura richiederebbe comunque l'utilizzo di quantitativi di energia veramente esorbitanti ovvero di altrettanta potenza per poter far funzionare il velivolo nelle diverse condizioni in cui si potrebbe venire a trovare. L'elemento 115, secondo Lazar, porrebbe rimedio a molti di questi inconvenienti generando altresì egli stesso un "campo gravitazionale inerziale" in grado di ottemperare al fabbisogno energetico e gravitazionale della nave stessa. Ancora oggi discutere in maniera così blanda di qualcosa che risulta essere ancora patrimonio quasi della fantascienza potrebbe far sorridere i più, ma non scordiamoci quali e quante siano state le scoperte effettuate solo negli anni '90 nel campo scientifico. Nel corso di pochi anni, tre o quattro al massimo, dalle prime affermazioni di Lazar la scienza Ufficiale (quella appunto con la "U" maiuscola) ha avvalorato la possibilità di poter costruire, in un lontano futuro, motori che possano sfruttare proprietà della materia definite esotiche, come appunto la generazione di una contrazione dello spazio-tempo per la formazione di worm-hole. «La fonte energetica della navicella è il reattore che utilizza l'elemento 115 come carburante primario causando una totale annichilazione dell'elemento che produce altresì una fonte di energia eccezionale [.] solo 223 grammi di questo elemento potremmo essere utilizzati per 20 o 30 anni. All'interno del reattore l'elemento 115 viene bombardato da protoni che trasformano questo elemento in 116 a cui segue poi un decadimento quasi istantaneo con consequenziale produzione di antimateria. Questa antimateria viene incanalata all'interno di una struttura che la porta a reagire con la materia producendo altresì una reazione in cui si ottiene una conversione quasi totale in energia». Affascinante ed intrigante questa descrizione, non tecnica, fornita da Lazar ha suscitato fin da subito enormi discussioni in campo sia ufologico che scientifico soprattutto per le ultime righe che vi abbiamo presentato. Secondo i principi della termodinamica infatti la resa quasi ottimale, al 100%, come paventata da Lazar in una conversione di questo tipo non è possibile per nessuna legge fisica conosciuta, violerebbe totalmente la i principi della termodinamica ovvero andrebbe contro i principi dell'entropia. Quindi o Lazar ha fornito un dato falso, fattore non impossibile, oppure il nostro livello tecnologico non ci permette ad oggi di possedere una struttura in grado di ottenere una reazione di questo tipo. Su questo ultimo punto non ci si dovrebbe fermare tanto alla leggera soprattutto se osserviamo come le recenti ipotesi e ricerche, soprattutto della fisica quantistica e delle alte energie, stiano conducendo il panorama scientifico internazionale ad una vera e propria rivoluzione delle antiche concezioni, o "dogmi", fino ad oggi ritenuti inviolabili. La scienza sembra però fornire ulteriori conferme a quanto affermato da Lazar verso la fine degli anni '80. Nei primi mesi del 2004 un team di scienziati del Lawrence Livermore National Laboratory ha infatti resa pubblica la notizia della sintesi in laboratorio dell'elemento 115, una nuova conquista della scienza che potrebbe altresì gettare nuova luce, oppure nuove ombre, sulle affermazioni di Lazar. La ricercatrice americana Linda Multon Howe è riuscita a contattare uno degli scienziati che hanno sintetizzato tale elemento intervistandolo e chiedendogli apertamente cosa ne pensasse delle affermazioni di Lazar. Le risposte sono risultate molto più interessanti di quanto ci si potesse aspettare accreditando, in certi casi, un alone di veridicità a diverse affermazioni rilasciate dalla fine degli anni '90. Joshua Patin (Ph.D., chimico nucleare del Lawrence Livermore) ha innanzitutto confermato l'ipotesi che nelle vicinanze dell'elemento 115 possa esistere quella che i fisici hanno definito "un'isola di stabilità" ovvero una zona in cui gli elementi transuranici non decadono rapidamente ma possiedono un tempo di vita medio relativamente alto, ovvero risultino a tutti gli effetti stabili. Tale isola di stabilità sarebbe direzionata proprio verso l'elemento 116, fatto questo asserito da Lazar ben quindici anni fa. Allo stesso tempo Patin ha confermato la possibilità che l'elemento 115, posto in condizioni particolari, possa essere altresì "condensato" per risultare a tutti gli effetti "solido", e non in forma "volatile" atomica come è per gli altri elementi. La ricercatrice Linda Howe, ospite all'ultimo Simposio Mondiale ufologico organizzato a San Marino, ha poi parlato a Patin di Bob Lazar, delle sue affermazioni e dei dati tecnici forniti oltre un decennio fa. Se sul versante ufologico Patin non si è pronunciato, sono stati oltremodo interessanti i suoi commenti ad alcune rivelazioni fornite da Lazar. Patin si è espresso principalmente sulle proprietà di stabilità che questo elemento potrebbe possedere. Analizzando la collisione tra atomi di calcio ed americio, il procedimento attraverso il quale si è ottenuto l'elemento 115 a Livermore, è stato possibile ipotizzare una sua forma nettamente stabile ovvero in grado di non decadere e quindi essere utilizzata per svariati scopi. Sulle proprietà intrinseche dell'elemento Patin non si è ovviamente pronunciato soprattutto perché l'anomalia dell'isola di stabilità non ha permesso ancora oggi, neanche a livello teorico, di predire le proprietà che questi elementi potrebbero possedere. Indubbiamente, afferma sempre Patin, elementi di questo genere potrebbero possedere proprietà veramente uniche che potrebbero ipoteticamente allinearsi con le descrizioni fornite anni fa da Lazar. Solo ulteriori esperimenti potranno confermare o smentire le affermazioni di questo sedicente fisico, anche se per negli ultimi anni al dubbio si sono sommate molte verifiche e molti riscontri. Proprio per tali motivi, come affermavamo precedentemente, si potrebbe anche pensare ad un abile piano ben architettato. Da sempre, e non solo nel campo ufologico, il miglior modo per far conoscere e veicolare informazioni sensibili o destabilizzanti è sempre stato quello di integrarle con la pura fantasia, con dati che fossero inverificabili ovvero parto della creatività umana. In questo modo si sarebbero potute veicolare informazioni che sarebbero state allo stesso tempo attaccabili ed inverificabili, ma che avrebbero posseduto un "core" di realtà. In una parola si sarebbe compiuto del debunking. Lazar è stato più volte sottoposto al poligrafo, la macchina della verità, un metodo che pur se non attendibile totalmente pone comunque anche un soggetto ben allenato a mentire di fronte all'alto rischio di essere scoperto. La mente umana è una macchina fallibile e nessuno è in grado di mentire sempre e comunque. Tre test al poligrafo hanno invece attestato la totale buona fede di quest'uomo rispetto a quanto aveva detto e gli era stato chiesto durante i test. Lo studioso Jacques Vallée, come anche altri ricercatori, sono rimasti stupefatti dalla preparazione che Lazar sembrava possedere in campo fisico e scientifico. Indice probabilmente di una reale conoscenza da parte di questo individuo di discipline e materie così complesse. Un'altro dato che potrebbe confermare ulteriormente le sue affermazioni sono i registri del laboratorio di Los Alamos in cui affermava di aver lavorato e in cui sarebbe stato contattato le prime volte per lavorare all'Area 51. Nella causa intentata contro di lui il governo e l'istituto in questione negarono totalmente un suo qualsiasi ruolo, ovvero contratto, all'intero di tale centro di ricerca, fatto che fu ben presto smentito dai suoi ex colleghi di lavoro ovvero da un cedolino di riconoscimento che attestava la sua presenza all'interno del LANL. Tutto questo ci fa sorgere dubbi su quali e quanti siano gli artefici di questo grande gioco. Da una parte Lazar, pur trattandosi di un individuo alquanto controverso e discutibile, ha dato modo di attestare un certo livello di veridicità alle proprie affermazioni, veridicità che si è costruita principalmente negli anni e grazie alle scoperte e alle nuove ipotesi compiute dalla scienza. Allo stesso tempo nella sua storia e nella sua vita rimangono ancora dei lati oscuri, dei punti poco chiari, che lasciano presumente una qualche sorta di coinvolgimento in piani ben più ampi. I dati di fatto su cui oggi ci possiamo basare hanno però in larga misura confermato molti dati forniti da Lazar, hanno altresì avvalorato la possibilità di costruire, in un lontano futuro, sistemi propulsivi che si basino sulla distorsione spazio-temporale ovvero hanno comprovato l'esistenza di un'isola di stabilità entro l'elemento 115 testimoniando in questo modo la presenza di una famiglia di elementi dalle proprietà fisiche veramente uniche. Mistificatore o rivelatore genuino? Il distico su Bob Lazar non sembra aver trovato ancora una soluzione ma a quanto pare il tempo ha trovato il modo avvalorare molte delle sue affermazioni. Quanto dovremmo ancora aspettare? ...

 
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